domenica 29 settembre 2013

Recensione: Notturni, di Elena Covani

Ciao a tutti, amici, e buona domenica. L'ultima prima della mia partenza. Tristezza, Mode: on. Oggi, la recensione di Notturni, il romanzo d'esordio di una giovane autrice italiana, Elena Covani. Ringraziandola per avermi dato modo di recensire il suo racconto e sperando che possa trovare utili i miei suggerimenti e le mie poche critiche, vi auguro buona lettura e una splendida giornata. Un abbraccio, M.

Titolo: Notturni
Autrice: Elena Covani
Editore: Giovane Holden Edizioni
Numero di pagine: 78
Prezzo: € 12,00
Sinossi: A Valencia, durante i festeggiamenti per il celebre Carnevale, la folla che si riversa per le strade al tramonto ebbra di cerveza e divertimento cela presenze oscure. Sono i Daemones e al calar delle tenebre battono la città a caccia di nuove vittime: la loro apparenza innocua, del tutto identica a un 'normale' essere umano, li rende irriconoscibili e ancor più pericolosi. Ma non per i Notturni, altra razza superiore la cui esistenza è mirata unicamente a difendere l'umanità dai Daemones. Grazie al loro sangue, vero e proprio antidoto al virus del male, possono sconfiggere ogni essere maligno ed evitare che nuovi contagi trasformino altri esseri umani in demoni. Ma di fronte al fatto compiuto, al morso mortale di un Daemones su di un umano, divengono anch'essi impotenti: il male è irreversibile. Almeno fino a quando Josè, combattente dei Notturni, non incontra Maria, ragazza appena contagiata dai Daemones ma sulla quale il virus sembra non sortire gli effetti consueti. La lotta tra bene e male per accaparrarsi questo nuovo 'mutante' divamperà come un fuoco impazzito nei giorni di Fallas e il sentimento complicherà maledettamente le cose; il solo sfiorarsi dei corpi di due razze così opposte provoca infatti ustioni e dolore reciproco. Riuscirà l'amore a superare la più profonda delle diversità?
                                                    La recensione
Mi fa sempre strano trovare, tra le email, richieste di recensioni di autori esordienti.
Ogni volta, mi sento combattuto. Onorato, immensamente felice che loro abbiano pensato proprio a me, incuriosito... ma combattuto. Decisamente. Consapevole di aver ricevuto più delusioni che altro, da una parte sono restio. Dall'altra mi dico che questi giovani autori vogliono soltanto quello che anch'io, nei loro panni, cercherei: pura fiducia. Fiducia che è sempre reciproca. Io, a scatola chiusa, confido nelle loro storie; loro, con i miei elogi e le mie tiepide stroncature a portata di click, confidano nella mia onestà e nella mia schiettezza. E mi fa piacere sapere che anche le critiche, non solo i complimenti, sono ben accetti e – strano, ma vero - apprezzati con riconoscenza da tanti giovani autori, sempre ben disposti a imparare e a migliorarsi. Scrivo questo non perché Notturni, il breve esordio di Elena Covani, non mi sia piaciuto nemmeno un po', ma perché non mi sarei minimamente aspettato di trovare un suo messaggio di posta. La giovane Elena, infatti, è stata pubblicata dalla Giovane Holden Edizioni, una piccola casa editrice nostrana di cui, non so se ricorderete, vi avevo parlato la scorsa estate in merito a un altro romanzo sulle creature della notte più lette di sempre e, soprattutto, in merito a un altro esordio: Atipico Vampiro. Quel romanzo mi aveva lasciato a bocca asciutta, con un senso di incompletezza che non avevo saputo esprimere né “a stelline”, né in altri modi. La mia era il primo esempio, su questo blog, di recensione-non recensione. Non perché il libro di Lucarini fosse brutto o scritto male, anzi, ma perché, con le sue 80 pagine scarse, era troppo breve per lasciarsi valutare a pieno. Elena Covani conosceva la mia personale avversione per i racconti, aveva letto quella mia unica non-recensione e voleva ugualmente un parere sul suo Notturni, che di pagine, per la cronaca, ne ha appena 78. Lei mi è subito piaciuta per questo. Cercava onestà ad ogni costo, anche quando io non ero proprio convinto di volergliela dare, a lei come ad altri suoi colleghi. 
Inoltre, quel racconto aveva dalla sua parte un'ambientazione orginale e accattivante ed una copertina semplicissima, ma evocativa: un angelo evanescente su un comune sfondo bianco; una creatura fatta di schizzi di sangue, petali di rose e coriandoli di carnevale. Ho impiegato per la lettura di Notturni un pomeriggio soltanto e, mantenendomi, come mio solito, sulla prima parola, ho pensato lì per lì che fosse troppo poco. Era stato troppo poco il tempo per legarmi ai personaggi e per rendere parte di me quella storia di amori impossibili, denti affilati e tenebre ad ogni passo. Ma, anche se in quelle poche pagine Josè e Maria non trovano il loro lieto fine e gli affascinanti misteri di Valencia non vengono sviluppati come avrebbero invece meritato, la lettura di Notturni non è stata niente male. Il leggero e onnipresente senso di “già letto” non mi ha disturbato, l'umanità e l'ironia di molti personaggi mi ha colpito, la trama mi ha avvinto dopo pochissimo. Ho immaginato la Valencia in festa, la Valencia notturna e la Valencia piena di pericoli con inaspettata facilità; Valencia che è stata una valida, inedita e spettacolare spalla – con le sue tradizioni e il suo fascino innegabile – per un buon protagonista che, anche così compresso, riesce a fare la sua discreta figura di eroe tenebroso e romantico. 
Lui è un Notturno, una creatura diversa che, tuttavia, cerca solo un po' di normalità: ha visto gli imponenti edifici di Valencia essere costruiti ed abbattuti negli anni; è stato addestrato da impavidi guerrieri a diventare un impavido guerriero a sua volta; è cresciuto con la consapevolezza di essere – insieme agli altri della sua specie – l'unico nemico mortale dei Daemones che, segretamente, aiutati dalla discrezione dell'oscurità, fanno stragi sanguinose in città. Lo spettacolare carnevale valenciano porta in Spagna nuovi turisti e nuove vittime e, nel periodo più teso dell'anno, Josè incontra Maria, una fragile e spaventata ragazza già marchiata, purtroppo, dai denti del nemico. Ma, su di lei, il virus dei Daemones sembra non fare effetto. Josè lo capisce immediatamente: perché, sfiorandola, sente scintille leggere e non una pena mortale; perché, mentre lei lo implora di ucciderla, si scopre irrimediabilmente e fatalmente innamato di lei. La solita storia d'amore impossibile è fotografata, in maniera originale, sul più particolare degli sfondi e, con ronde notturne e combattimenti, fugaci combattimenti e salvataggi, ho pensato ad Underworld e Daybreakers, non a Twilight. Le infinite gerarchie del mondo del protagonista hanno un che di intrigante e Elena, abilmente, fa sì che le sue parole lavorino a stretto contatto con l'immaginazione del lettore. Lei, in uno spazio tanto ristretto, non può dire tutto, ma dove mancano lunghe descrizioni o dialoghi più ricchi arriva magicamente e misteriosamente in soccorso la personale fantasia di chi legge che, protagonista dopo tanto, aiuta a completare, a suo piacimento, un quadro dai tratti piuttosto belli, ma poco marcati. L'autrice ha uno stile piacevole e coinvolgente che, fortunatamente, è quasi del tutto privo dei puntini di sospensione, delle esclamazioni e delle domande retoriche che tanto detesto e che tanto sono presenti nei romanzi d'esordio italiani. Accanto a qualche trascurabile e perdonabile refuso, non ho trovato errori rimarcabili, anche se i vari periodi – a volte troppo, troppo lunghi – dovrebbero essere maggiormente snelliti e limati. Frasi più brevi potrebbero risultare anche più incisive e, secche e veloci, servirebbero a ricreare ancora meglio determinate atmosfere. I periodi sono pieni zeppi di virgole su virgole, anche quando servirebbe un bel punto e a capo per dare respiro al lettore. L'uso del sottovalutato punto e virgola sembra essersi purtroppo estinto - al pari del congiuntivo nel parlato di tutti i giorni - e la sua mancanza, be', si fa sentire. Il racconto di Elena Covani non manca di originalità e gusto e la sua brevità si rivela essere un difetto e un pregio insieme, stranamente. Molti elementi, se ampliati, avrebbero potuto fare di Notturni un urban fantasy molto interessante, ma allo stesso tempo temo che, se fosse stato un romanzo a tutti gli effetti, accanto a una maggiore caratterizzazione dei personaggi principali avrei trovato anche meno freschezza e molti più cliché. La ponderata scelta di Elena, quindi, si rivela alquanto saggia e la sua opera prima, nonostante l'uso non sempre brillante dei segni di interpunzione, fa ben sperare, riuscendo nell'impresa di non lasciare il lettore con un fastidioso senso di incompiuto. Notturni è, in definitiva, un buon inizio.
Il mio voto: ★★½

venerdì 27 settembre 2013

Recensione: Incantesimo tra le righe, di Jodi Picoult e Samantha Van Leer

L'atto del leggere è una condivisione. L'autore costruisce una casa, ma è il lettore ad abitarla.

 
Titolo: Incantesimo tra le righe
Autrici: Jodi Picoult & Samantha Van Leer
Editore: Corbaccio
Numero di pagine: 310
Prezzo: € 18,60
Sinossi: Cosa succede se "...e vissero felici e contenti" non si rivela affatto essere tale? Delilah è una ragazza piuttosto solitaria che preferisce passare i pomeriggi in biblioteca, persa nei libri. In uno in particolare: "Incantesimo fra le righe" che in teoria è un fantasy ma che sembra terribilmente reale, al punto che il principe Oliver, oltre a essere coraggioso, avventuroso e focoso, parla a Delilah. Cioè: le parla sul serio! E salta fuori che Oliver è ben più che un personaggio di carta: è un teenager che si sente intrappolato nella sua vita letteraria e che non sopporta l'idea che il suo destino sia segnato. Oliver è certo che il mondo là fuori possa offrirgli qualcosa di interessante e vede in Delilah la sua chiave di accesso alla libertà. I due si buttano a capofitto nell'impresa di tirare fuori Oliver dal libro, un compito difficile e che li spinge ad approfondire la loro percezione del destino, del mondo e del loro posto nel mondo. Contemporaneamente cresce l'attrazione reciproca, un sentimento forte e tutt'altro che letterario.
                                                    La recensione
L'amore dà colore alla vita.” Impossibile, quando si parla di libri per l'infanzia, evitare di aprire piccoli spiragli nei territori poco esplorati del nostro passato di bimbi. Impossibile, quando si parla di fiabe, trattenere un sorriso leggerissmo e celare un tono di voce che, senza accorgercene, abbiamo reso involontariamente e naturalmente più dolce. Non in tanti, forse, abbiamo avuto l'amico immaginario che tanto spesso si vede nei film per famiglie e che tanto sicuramente avrebbe fatto preoccupare e straparlare il sospettoso e melodrammatico Freud, ma tutti – e su questo ci scommetto – abbiamo avuto la nostra dose di amicizie... be', speciali. Erano animali di peluche o bambole di pezza, supereroi o barbie dai capelli perfetti, fumetti o libri illustrati, ma noi volevamo loro bene al pari di un compagno d'asilo o di un fratello maggiore. Al pari di una persona vera. E avevamo anche la nostra dose di buoni motivi: perché noi con quegli oggetti inanimati, o magari animati appena dalle comunissime batterie, ci parlavamo e, di nascosto, quando non c'era nessuno a guardarli, sapevamo bene quanto amassero risvegliarsi magicamente e parlottare tra loro; vivere le loro vite di pupazzi e compagni di gioco, lontani dagli sguardi dei loro affettuosi e legittimi mini-proprietari. 
C'era sempre un gioco che mi piaceva fare: una sorta di nascondino a metà. Mettevo tutti in fila i miei amati giocattoli e correvo a nascondermi, chiudendomi la porta della cameretta alle spalle. Poi, zitto zitto, andavo a spiarli dal buco della serratura, sperando di coglierli sul fatto mentre Action Man faceva il cascamorto con Lara Croft, il mio peluche Chicco litigava con il permaloso Prezzemolo di Gardaland, Goku proponeva una nuova acconciatura al Genio delle Tartarughe. Niente: personalmente, non sono mai riuscito a beccarli, ma non ho mai smesso di fantasticare, anche davanti alle loro furbastre dissimulazioni, sulle loro vite segrete. Incantesimo tra le righe parte esattamente da questo preciso pensiero, ma sposta il tutto dai giocattoli – i nostri amici di infanzia – ai personaggi dei libri – i nostri amici di sempre. Il titolo del romanzo si riferisce a un vecchio volume di fiabe che la protagonista, Delia, ha trovato, per caso, tra gli scaffali della biblioteca: l'unico posto in cui lei, tutta grandi sogni e letture, si sente spesso a casa. C'è, tuttavia, un ma, per lei, bello grosso: lei ha quindici anni, non otto, e l'età per leggere quelle romantiche storie di cavalieri, principesse, draghi e sirene assassine l'ha passata da un po'. Il suo hobby non l'ha mai resa Miss popolarità, presso i suoi tecnologici e frivoli coetanei, ma si ripete che ci sono letture e letture: comprare graphic novel ti dà un fascino nerd, declamare a voce alta Tolstoj ti rende un geniale idiota, leggere di nascosto favole, però, è da perdenti e basta. Solo sua madre è a conoscenza di questa sua dipendenza da storie a lieto fine, ma nemmeno a lei Delia ha potuto rivelare tutta la verità: lei si è innamorata del ragazzo perfetto. Dei suoi occhi così chiari in contrasto con i capelli così scuri, della sua simpatia, del suo sorriso disarmante, delle tante cose che hanno in comune. Un ragazzo troppo perfetto per essere vero, che vive tra le pagine di quel volume incartapecorito dal quale lei non si stacca mai. Scommetto che molte lettrici conosceranno benissimo la sensazione, o forse mi sbaglio? Per tutte, ai primi posti, ci sono il Signor Darcy, Heatchliff, Mr. Rochester, magari il novello Edward Cullen, ma Delia ama solo e soltanto il suo principe Oliviero e, steneterete a crederci, non si tratta di un eccesso adolescenziale di fangirlismo. Lui è vivo; tutto il suo mondo è vivo. Ogni volta che il libro viene richiuso, i personaggi che lo abitano abbandonano i loro ruoli di attori e vivono le loro altre vite, lontani dalla sceneggiatura che una scrittrice introversa e misteriosa ha scritto per tutti loro. L'antagonista colleziona farfalle e ha il pallino dell'arte, il destriero reale è un vanitoso e insicuro cavallo bianco, le temibili sirene che vivono negli abissi sono bellicose e convinte femministe, il drago di turno ha bisogno solo di un nuovo apparecchio odontoiatrico, l'amico a quattro zampe del principe prova sentimenti impossibili per la capricciosa e bionda donzella da salvare. 
E poi c'è il protagonista, Oliviero, a cui le fate hanno dato tutto fuorché il coraggio di suo padre. Un ragazzo sensibile ed ironico che vuole tutto ciò che ogni adolescente in carne ed ossa desidera, niente di più e niente di meno: scappare (ma dalla sua favola) e innamorarsi (ma dell'unica, lontanissima Lettrice che riesce veramente a sentirlo). Incantesimo tra le righe è un romanzo di rara dolcezza, che porta lontano, incanta e stupisce. Un racconto consigliato ai lettori di ogni età che, fluttuando tra i turbamenti del cuore dei moderni young adult e l'ultima riga delle favole, ha in sé il tutt'altro che scontato pregio dell'imprevedibilità. Mette in discussione il classico the end, sabota i lieto fine scritti con l'abusata tecnica del copia-incolla, riscrive le identità di due personaggi che le consuetudini vorrebbero o troppo impavidi o troppo fragili. Soprattutto, contiene manciate luccicanti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. E' un libricino, ma, allo stesso tempo, ha il peso greve di una solenne, inviolabile e magica promessa. Il patto d'acciaio non scritto - ma su cui tutti noi giureremmo, con una mano piantata con convinzione sul cuore - tra lettori e autori. Migliori amici e promessi sposi nell'arco di un'unica lettura. Questo è un romanzo che celebra quel sodalizio di affinità elettive e quell'amore cieco sbocciato tra le pagine. Il candido e frizzante sentimento nato tra Oliviero e Delia è l'ennesimo volto di un lungo e immortale amore che io conosco bene e che, se in questo momento state leggendo le mie parole, sono certo riconoscerete anche voi: infatti, è lo stesso che noi percepiamo, come reale e vivo, quando, aprendo un libro, ci abbandoniamo anima e corpo ad esso. Incantesimo tra le righe, tuttavia, con inventiva, grazia e spigliatezza, propone originalmente il processo inverso, classificandosi anche come la dichiarazione di poetica più bella che abbia mai letto prima d'ora. Come il Joyland di Stephen King, inoltre, sa sorprendere grazie a una leggerezza di cui solo i più grandi sono capaci. A firmare il tutto e a dare parte di lei a questa deliziosa storia, infatti, è l'acclamata Jodi Picoult, che, per la prima volta, dopo aver scritto lo struggente La custode di mia sorella e altri romanzi carichi di attualità, denuncia sociale e controversie, si è messa magnificamente in gioco con una storia per adolescenti e non solo. L'autrice fittizia di cui leggiamo nel libro, architetto del mondo di avventure e parole in cui inciampa Oliviero, dopo aver volontariamente abbandonato la stesura dei suoi celebri e apprezzati romanzi gialli, scrive un libro di favole non per sé stessa, ma per suo figlio. Esattamente come ha fatto, in quest'occasione, la Picoult, che ha deciso di scrivere questa carinissima storia con e per sua figlia Samantha. Questa riunione di famiglia davanti alla macchina da scrivere ha il più positivo degli esiti: diverte, emoziona, dà pace e ci ricorda i piaceri benefici di una buona e sana lettura. Basta davvero aprire il libro, come è successo alla nostra Delia, per liberare la fantasia. Le stupende illustrazioni a colori, i disegni a bordo pagina, il font vario e mutevole, poi, faranno il resto, risvegliando un incantesimo antico quanto il mondo che dormicchiava beatamente tra le righe, in attesa del nostro arrivo.
Il mio voto: ★★★★
Consiglio musicale: Take That – Rule the World 

giovedì 26 settembre 2013

I ♥ Telefilm: Under the Dome, Devious Maids, Orphan Black

Ciao a tutti, amici miei. Come state? Giornate piene per me: lunedì dovrei stabilirmi al campus a pochi passi dall'università che frequenterò, quindi sto sistemando le ultime cose: scatoloni e bagagli ovunque. Oggi vi voglio parlare di tre telefilm che, recentemente, sono giunti a conclusione. I primi due potete – o potrete, a breve – reperirli in italiano, mentre l'ultimo è ancora inedito, anche se vi straconsiglio di seguirlo in lingua: capirete il perché leggendo il mio breve commento. Inoltre, nell'ultimo periodo, stanno approdando negli USA telefilm molto promettenti: vi consiglio al volo Hostages, Sleepy Hollow e la simpatica sit-com Mom, con Anna Faris. Su Fox, invece, ho beccato un'altra serie molto carina: Ben & Kate. Nei panni della protagonista, la giovane attrice che – per sua sfortuna – reciterà nelle Sfumature di grigio: è brava, vivace, di una bellezza autentica e poco convenzionale. Forse, tra un anno, mi rimangerò tutto, ma credo che dal romanzo di E.L James potrebbe venire fuori qualcosa di molto dignitoso. O almeno spero. Un abbraccio e ditemi, come sempre, la vostra. M.

Under The Dome era una di quelle serie che aveva tutti i presupposti per diventare la più interessante ed originale dell'anno. Effetti speciali più che dignitosi, un cast variegato che univa volti noti a volti meno noti, un plot che era un intrigante incrocio tra X-Files e Lost, un autore straordinario su cui fare affidamento: il fantasmagorico Stephen King. Il romanzo da cui è stata tratta questa serie venne pubblicato in un periodo in cui io e il Re eravamo in crisi: cose che capitano anche alle coppie più unite! Era arrivato a deludermi spesso e quindi guardavo con un certo timore le mille pagine e oltre del romanzo, l'ennesimo mattoncino portato qui da noi dalla fedele Sperling & Kupfer. Dopo la lettura del meraviglioso 22/11/63 e del nostalgico e toccante Joyland, io e zio Steve siamo tornati ad essere amici come prima. Potevo mai perdermi l'ennesimo telefilm tratto da una delle sue creaturine? L'ho visto dall'inizio alla fine, ma se io sono stato costante e puntuale come un orologio svizzero – e ogni settimana, quindi, ero lì al pc a guardare un nuovo episodio – la serie TV lo è stata decisamente meno. Il pilot l'ho trovato splendido, sensazionale, con la giusta dose di violenza, azione e dramma. Come nel caso di The Following, tuttavia, andando avanti, si perde parte del mistero e parte dell'interesse. Under the Dome non mi ha conquistato e sono arrivato a vedere il dimenticabile e poco efficace season finale spinto più dall'abitudine che dalla curiosità. Una volta isolati gli abitanti di questa “ridente” cittadina sotto una cupola infrangibile, intrighi e scandali rubano il posto alla fantascienza e all'orrore. E, in ogni episodio, si scopre che Chester's Mill è tutt'altro che ridente come appare dall'esterno. Scoppiano rivalità e tensioni, amori e ossessioni, ma, per quanto siano credibili gli attori, non tutte le storie dei personaggi catturano l'attenzione. Mentre il Mike Vogel di Bates Motel sventa istituzioni criminali e conquista il cuore della bellissima Rachelle Lefevre, la rossa vampira di The Twilight Saga, sfidando a spada tratta il Don Rodrigo del paese – Big Jim, coinvolge particolarmente la sottotrama che vede come protagonisti assoluti i più giovani della squadra. Non tutti convincono, ma sono belli, affiatati, simpatici e sembrano rubati – con le loro visioni e i loro poteri – da uno di quei romanzi young adult/ urban fantasy che tanto ci piacciono: Britt Robertson (The Secret Circle, Life Unexpected), Alexander Koch (Underemployed), Colin Ford (Supernatural), Mackenzie Litz (Hunger Games). Sperando che con la seconda serie arrivi tutto ciò che nella prima mi è mancato, confido di comprare presto il romanzo e, soprattutto, di dare una seconda possibilità al telefilm. Gli ingredienti giusti ci sono tutti, ma manca uno chef che sappia come valorizzarli a dovere. Sono quattro anni che guardo Pretty Little Liars – meglio conosciuto come l'allegra fiera del trash – quindi, secondo voi, volterò proprio adesso le spalle al Re? Il nuovo bambino di Stephen King è “intelligente, ma non si applica”. Chissà cosa ne penserà il suo papà...

Quest'estate, durante il periodo della maturità, cercavo sul web una serie che potesse rilassarmi a dovere. Ero troppo stanco per uscire la sera, ero troppo stanco per leggere libri impegnativi ed ero troppo, troppo stanco per guardare telefilm che richiedessero la partecipazione attiva e la viva attenzione dello spettatore. Come una sorta di diligente addetto ai lavori, ho visionato più pilot ma, tra delusioni e noia, alla fine se n'è salvato solo uno: quello di questo frizzante e grazioso Devious Maids, che, giusto in settimana, è giunto in America all'ultimo episodio. Impossibile non cogliere il parallelismo tra queste novelle ambigue domestiche e le più note casalinghe disperate. I creatori sono gli stessi, come lo è anche il target. Se, al contrario mio, avete seguito qualche stagione di Desperate Housewives su Lifetime, allora capirete benissimo cosa intendo. E se è quello che state cercando, be', non posso che consigliarvi questo simpatico telefilm. L'ho trovato carinissimo, dall'inizio alla fine. Non mi ha deluso, perché non mi aspettavo praticamente niente. Non mi ha annoiato perché, tra misteri e scandali, le cinque e affascinanti domestiche portoricane hanno saputo mantenere vivissima la mia attenzione. Il sentiero della soap è giusto dietro l'angolo, ma Devious Maids non lo imbocca mai completamente. Sarà che gliene frega pochissimo di cercare nuove vie e di conquistare i critici più severi ed esigenti. Mi è piaciuto per questo. E' rimasto onesto, leggero, fedele a sé stesso e ai gusti degli spettatori, comodamente seduti in poltrona, fino alla non definitiva conclusione. Mi ha fatto fare parecchie risate e quei piccoli e banali colpi di scena, di tanto in tanto, mi hanno sorpreso, quasi come se di gialli non ne sapessi granché. Mi ha ricordato l'epoca in cui, in TV, davano l'esilarante Ugly Betty, storia della bruttina più simpatica dei palinsesti Mediaset, che si era fatta voler tanto bene sin dall'episodio pilota. Devious Maids è ambientato nelle case dei ricchi, tra piscine limpidissime, feste raffinate, vestiti firmati, adulteri e segreti. Si apre con un omicidio a sangue freddo. La vittima è la giovane e conturbante Flora, una domestica uccisa da uno dei suoi numerosi amanti durante un party. La polizia, convinta di aver trovato il colpevole, ha chiuso in carcere un giovane cameriere, che, da dietro le sbarre, urla la propria innocenza. Solo sua madre, una professoressa universitaria di origine spagnole, gli crede: certe cose i genitori le sentono. E da insegnante a domestica sotto copertura il passo è breve. Con una nuova identità, Marisol (Ana Ortiz: Ugly Betty) si intrufola – armata di grembiule, divisa e spazzolone – nelle vite di persone al di sopra di ogni sospetto, scoprendo gli scheletri nell'armadio di chi vorrebbe metterla a tacere e diventando amica di quattro domestiche a cui non può rivelare la verità: la bella Carmen (Roselyn Sanchez: Senza Traccia), che vuole diventare una cantate alla Jennifer Lopez; Zoila (Judy Reyes: Scrubs), la cui figlia adolescente è perdutamente innamorata del ragazzo per cui entrambe lavorano; Rosie (Dania Ramirez: American Pie – Ancora insieme), una giovane vedova che, con un figlio al di là del confine messicano, ricomincia a vivere grazie al suo gentile e fascinoso datore di lavoro. Una schiera di attrici brave, sorridenti e in gamba, dall'orecchiabilissimo accento spagnolo, che recitano a contatto con ottimi comprimari: l'algida, cinica e sorprende Rebecca Wisocky (The Mentalist) e, tra gli altri, il viscido Tom Irwin (Saving Grace) e l'insospettabile e familiare Stephen Collins (Settimo cielo). Con domestiche di questo calibro in giro nessun segreto è al sicuro! Se voi volete scoprire i loro, in veste di complici o spettatori, non posso che consigliarvi questa intrigante, pepata e adorabile serie americana. Quel pizzico di cinismo vi solleticherà i palati e la curiosità e, davanti a qualche trovatella un po' tamarra, chiuderete volentieri un occhio. L'anno prossimo non mi perderò di sicuro la seconda stagione, già ve lo dico. Un The Help in salsa latina, con manciate abbondanti di Desperate Housewives: la prima stagione sarà trasmessa da noi a partire dal 9 Ottobre.

Sarah: una ragazza madre con un brutto passato alle spalle, un compagno violento, una figlia lontana, nemici ad ogni angolo di strada. Elizabeth: una detective con una misteriosa vita privata, un matrimonio pieno di segreti, una colpa traumatica da scontare. Cosima: studentessa, hacker, scienziato, genio. Alison: la casalinga perfetta, la mamma perfetta, la perfetta vicina di casa. Helena: capelli ossigenati, occhi vacui, una mente confusa, cicatrici sanguinanti che formano ali di graffi e lividi dietro la sua schiena. Cosa hanno in comune queste donne? Hanno la stessa età, hanno gli stessi geni, hanno lo stesso viso. Sono identiche, sono cloni. Vivono vite diverse, sembrano aver ignorato a lungo la loro reciproca esistenza, abitano in città distanti. E qualcuno vuole ucciderle: tutte. Le loro esistenze, in Orphan Black, si intrecciano tra misteri, delitti ed equivoci. Lo stesso Orphan Black, che è decisamente una delle serie più belle che siano state girate in questo 2013. Imprevedibile, imprevisto, originale, pauroso, forte, architettato da menti superiori. Ma, in 45 minuti ad episodio, si scopre anche divertente e, a tratti, passionale. La storia, all'inizio, ricorderà in maniera preoccupante quella di Ringer e The Lying Game. Voi dimenticateli. Non sono nulla, se confrontati con questo superbo e contagioso intrattenimento. In due giorni, la scorsa estate, ho visto tutti gli episodi della prima stagione. Perché quando una cosa è così – ben scritta, ben diretta e recitata ancora meglio – non basta guardarla. E' necessario divorarla tutta d'un fiato. Questo è il telefilm, non un telefilm. Un taglio cinematografico, una trama che non regala nessun momento di noia gratuita, una sfilza di scene velocissime e memorabili, perfette eppure così poco americane, anche se la fattura è ottima e a dir poco hollywoodiana. La serie è stata prodotta in Canada e non ha nulla da invidiare alle statunitensi, spesso inutili e scadenti perdite di tempo. E' favolosa. Soprattutto, è favolosa la protagonista, che – quasi sconosciuta – interpreta una miriada di ruoli diversi con una bravura sorprendente e fuori dall'ordinario. La domanda sorge spontanea: dove diavolo è stata nascosta Tatiana Maslany per tutto questo tempo?! E' bellissima, è giovanissima e vederla recitare senza doppiaggi aggiunti, ma in lingua originale, è un spettacolo inenarrabile. Non solo perché è espressiva e convincente in ogni ruolo, ma perché, per ogni ruolo, sfoggia un accento diverso: inglese, americano, russo. Credo sia un extraterrestre, e io ho scoperto la sua vera identità. Non ci sono altre spiegazioni. Insieme a lei, la morte sempre più vicina, un amico gay esilarante e unico, un marito che sotto il cuscino nasconde pistola e segreti mortali... L'ultimo episodio è esaltante, frenetico, semplicemente da fiato sospeso. Come l'intera serie. Guardatela e basta. Io, per una volta, non dico più niente. Shhh...

lunedì 23 settembre 2013

Recensione: Nell'angolo più buio, di Elizabeth Haynes

Buon pomeriggio, amici! Nonostante sia reduce da una lettura terrificante, ma a dir poco ottima, e nonostante abbia iniziato un libro originale e tanto tanto dolce per riprendermi da questo thriller coi fiocchi, oggi è una giornata no. Power Point si è volatilizzato dal mio computer, Facebook non collabora da un giorno intero e, cosa peggiore, sono venuto a sapere che i corsi per l'università inzieranno prima del previsto. Panico totale. I calendari delle lezioni sono incomprensibili, gli orari si accavallano tra loro continuamente e ho seriamente bisogno di un tutor o di uno psicologo, a seconda dei punti di vista. 
Ma basta parlare. Piuttosto, vi lascio con la recensione di questo romanzo, crudele, bello e immensamente attuale. A presto, da un confuso e affranto Mik che vi abbraccia a distanza.
Vorrei potermi scrollare di dosso questa sensazione. Non si tratta del timore che un giorno possa venire a cercarmi. Più che altro, è una certezza. Non mi chiedo se scoprirà dove vivo, ma quando.

Titolo: Nell'angolo più buio
Autrice: Elizabeth Haynes
Editore: Giano
Numero di pagine: 445
Prezzo: € 12,90
Sinossi: È un venerdì sera del 2003, a Lancaster. È Halloween e i bar in città sono pieni come calderoni straripanti. Vestita da sposa di Satana, con scarpe di seta color ciliegia e un abito di satin rosso aderente con cui ha già rimediato più di un palpeggiamento nei bar dove si è rifornita di sidro e vodka, Catherine Bailey entra al River, l'ennesimo club della serata. Per stare dietro a Kelly, una tizia incontrata al bancone di un bar eccentricamente vestita come una strega senza scopa, punta verso il prive. Bloccata da un muro in abito color carbone, solleva lo sguardo e incrocia due incredibili occhi azzurri sormontati da capelli corti e biondi. È il colpo di fulmine per Cathy, l'incontro che pone fine alla sua spensierata esistenza di ventiquattrenne single attratta dai tipi di una notte soltanto, di cui non ricordare nulla, nemmeno un dettaglio, perse, come si è, nei fumi dell'alcol... È un giorno del 2008, a Londra, quando Catherine Bailey si accinge a uscire da casa. Tira le tende del salotto e della sala da pranzo lasciando la solita apertura, passa e ripassa la mano sul telaio delle finestre per verificarne la chiusura, controlla che la maniglia della porta sia girata sei o, meglio, dodici volte. Deve essere precisa, perché se trascura una sola piccola cosa, se sbaglia di un solo centimetro nel sistemare, per esempio, le tende, occorre ricominciare daccapo.
                                                    La recensione
Voglio non essere più vittima, di me stessa, o di chiunque altro. Ho bisogno di diventare più forte, per affrontare le cose brutte che ci riserva la vita. Ho bisogno di riprendere il controllo. Storie di ordinaria violenza domestica riempiono le colonnine grigie dei quotidiani, i salotti fasulli dei talk show, la cronaca nera, gli ospedali. Le donne che, in lacrime, parlano delle loro storie da incubo sembrano apparentemente tutte simili, figlie dello stesso dolore e madri degli stessi lividi violacei. Gemelle nella morte. Sono piccole, spaventate, indifese, schive, con le ossa fragili di un uccellino implume che, troppe volte, è stato sbalzato fuori dal nido da una forza superiore. La forza degli uomini. Chi assiste alla loro sofferenza dall'esterno vede tutto in bianco e nero, con i paraocchi che il suo comodo divano gli garantisce ogni benedetta volta. Gli spettatori o i lettori si ripetono che non tutti gli uomini sono potenziali carnefici e che non tutte le donne sono potenziali vittime, che c'è sempre una scelta. Le spettatrici o le lettrici, invece, assistono alle confessioni mormorate da quei resti sanguinanti di donne e, con la loro bella laurea appesa al muro, con i loro capelli freschi di parrucchiere e con una città civilizzata ed evoluta che romba fuori dalle finestre, sono sicure che a loro quello non succederà mai: perché hanno cultura, non vivono nella desolazione della provincia, hanno rispetto per loro stesse. Farsi picchiare non è da loro. Si commuovono per quelle donne ferite nel corpo e nell'anima, firmano petizioni per combattere le scariche di calci e pugni che hanno ricevuto spaventosamente a lungo tra la camera da letto e la cucina, ma, come rivela una giornalista inglese che prima di me ha recensito il grandioso esordio di Elizabeth Haynes, sono fermamente convinte che quella drammatica sorte non toccherà anche a loro. Nei panni delle vittime, loro che hanno studiato e conoscono le leggi a menadito, denuncerebbero immediatamente le violenze del loro compagno. Non si farebbero schiacciare. Come sempre accade, più di conferenze e servizi alla TV, basta un buon romanzo per mettersi dall'altra parte: nei panni di chi non ha potuto scegliere di essere libero. Di chi non aveva pianificato che il suo matrimonio sarebbe sfociato nel rosso del sangue caldo e non delle rose appena colte. Di chi, come la donna in ombra sulla copertina, con le ginocchia strette e le mani tremanti, si è reso conto troppo tardi del mostro in incognito che dormiva dall'altro lato del letto. Nell'angolo più buio racconta la storia di due donne che, in realtà, sono la stessa persona. O, almeno, così era un tempo. 
Cathy Bailey, la protagonista assoluta del romanzo, è morta e rinata nell'arco di un paio d'anni soltanto. Tra la vecchia e la nuova lei, un abisso buio che ha gli occhi di ghiaccio di Lee Brightman. Vedendola adesso, la noteresti a stento per strada: capelli cortissimi, vestiti monocromatici, occhi bassi, fianchi spigolosi. Ha paura dei rumori improvvisi, degli estranei, degli uomini. I colleghi parlottano tra loro; fanno commenti sessisti e sospettano che, androgina com'è, sia segretamente lesbica: ecco spiegato il perché rifiuti ogni avance e qualsiasi invito a cena. Tre anni prima era un'altra donna. Bella e seducente, sicura di sé e sfrontata, amava i colori accesi e il sesso occasionale, fare le ore piccole e andare in giro per night con le sue amiche. Era un sensuale e fiero animale notturno; poi un amore sbagliato l'ha messa in gabbia, riducendo le sue ali di seta scarlatta a brandelli. Il suo personale cacciatore aveva le spalle larghe e i capelli biondi, i denti perfetti e la pelle olivastra anche nel bel mezzo dell'inclemente inverno londinese: era un agente di polizia. Cathy ha dovuto sopportare una serie infinita di torture fisiche e psicologiche prima di vederlo dietro le sbarre, ma la Giustizia ha parlato in fretta e ha detto che tre anni di carcere, per Lee, bastano e avanzano. Presto sarà un uomo libero. E Cathy sa che tornerà per lei, seguendo la scia della sua paura che cresce.  
Elizabeth Haynes firma un'autentica storia del terrore. Un thriller a tinte fosche che ti inchioda alla sedia, ti rende cieco per la rabbia, ti fa orrore. Puzza forte di violenza e urina calda - perché nessun detersivo può combattere certe macchie e nessuna medicina può cancellare certi traumi – ma non è totalmente senza speranza. Sprizza forza e voglia di vivere da tagli ancora non rimarginati e, a piccoli passi, prende le distanze dall'angolo più buio del titolo. La protagonista si è ammalata della terribile malattia dei ricordi e guarire in un solo giorno non è possibile, se non si vive in un film horror con un consolatorio lieto fine. Il film di Cathy non ha ancora avuto fine del tutto: il portone spalancato, un'ombra in un vicolo, un vecchio bottone ritrovato nelle tasche dei jeans o i cassetti della cucina messi a soqquadro potrebbero farla piombare, da un momento all'altro, nel temuto sequel che, al solo pensiero, la fa tremare come una foglia. Nella seconda parte del film che non vorrebbe vedere. Tenere le cose sotto controllo l'aiuta, anche se ai suoi traumi si è aggiunto un maniacale disturbo ossessivo-compulsivo che l'ha resa schiava ancora: non di un uomo, questa volta, ma di sé stessa. Controllare per sei volte che le porte e le finestre siano perfettamente chiuse è bene. Prendere il tè alla stessa ora e non uscire di casa nei giorni dispari è tranquillizzante. Evitare gli spazi chiusi, la folla e gli abiti rossi è necessario per respirare. Ancora più disturbante che leggere degli stupri a cui venne sottoposta, dei tagli che le furono inflitti, della sua prigionia forzata presso il suo stesso appartamento, più inquietante ancora, è vedere il modo in cui un solo essere umano può ridurne un altro, diventando il suo Dio e rendendolo vittima delle sue stesse fobie. La descrizione minusiosa e reiterata delle ossessioni delle protagonista è da infarto ed è molto complicato stare al passo con i suoi pensieri. 
Non è una narratrice affidabile e, come nei migliori noir, fino alla fine, si ha un dubbio strisciante, ma del tutto umano. Si ci chiede a che punto si ci possa fidare di una ragazza tanto disturbata nel profondo. I cuori spesso vacillano, vedendola camminare tra le strade di un'Inghilterra piovosa e indifferente, in cui tutti i volti maschili – per un attimo – sono quello di Lee. In un mare di facce tutte uguali, in una stanza degli specchi in cui il nostro nemico ci fissa da ogni lato lasciato al buio, come sapere dove finisce l'incubo e inizia la verità? Come sapere se lui è lì insieme a noi, o si tratta soltanto di un flashback particolarmente vivido e violento? Di chi fidarsi? Elizabeth Haynes scrive il diario di una persona spogliata della sua dignità di donna, della sua vitalità di essere umano. Lo fa splendidamente, in una maniera lucida e secca che non lascia mai fuori il sentimento. Uno spiraglio piccino è lasciato per l'amicizia, per il lavoro ed i colleghi, per la scoperta di un nuovo amore che abita giusto al piano di sopra. Un amore giusto, sano; un amore vero, incarnato nella persona del gentilissimo Stuart - uno dei personaggi più affettuosi e disponibili di cui io abbia memoria, nella mia carriera di lettore, e di persona. Profondamente affascinate e malato è il personaggio di Lee, figura che, a prima vista, farebbe innamorare qualsiasi donna. Quasi l'Ufficiale Gentiluomo di Richard Gere, ma con la doppia e insospettabile vita del Christian Bale di American Psyco. Un uomo crudele e sadico senza un perché, come ce ne sono tantissimi anche tra noi, che ricorda in maniera impressionante, nelle fattezze e negli atteggiamente, il noto Christian Grey e il prototipo di uomo ideale che tanti insulsi romanzi stanno spacciando, in maniera errata, per verità. L'autrice, con voce forte e chiara, urla a tutte le donne che no, quello non è amore: anche se dopo il primo pugno sferrato si chiede umilmente scusa. A differenziare questo romanzo dai vari Via dall'incubo e Attrazione Fatale c'è il fatto che il nero dell'inchiostro si mescoli in maniera omogenea e naturale con il nero della cronaca odierna. Non è un thriller fine a sé stesso, con colpi di scena annunciati e immagini da film hollywoodiano. E' ripetitivo, lento, faticoso, estenuante, spaventoso. Un romanzo scritto sul filo del rasoio, con un esemplare struttura ad anello e i nervi ben saldi di un'autrice dal sangue freddo. Paradossalmente, bello e orribile. Uno di quelli che apri con i brividi e chiudi con i brividi; però acuiti, raddoppiati... triplicati. 
Il mio voto: ★★★★ ½
Il mio consiglio musicale: Skin – Tear Down These Houses 

domenica 22 settembre 2013

Vinci "Forte come l'onda è il mio amore". Il Blogtour giunge all'ultima tappa.

Ciao a tutti, amici lettori. Oggi, come da programma, si chiude il Blogtour dedicato allo splendido Forte come l'onda è il mio amore. Dopo tre tappe interamente dedicate a Francesco Zingoni e al suo mondo di scrittore, è arrivato il momento del giveaway finale. Un fortunato tra voi avrà la possibilità di ricevere a casa una copia del romanzo. Vincere è facile. Alessia, Monica e io abbiamo voluto che ci parlaste un po' di voi. Rispondete alla domanda obbligatoria e colui (o colei) che ci stupirà maggiormente con le sue parole avrà il romanzo tutto per sé. Ringraziando le mie carissime compagne di viaggio, voi lettori e Francesco per aver dato vita a questo piccolo capolavoro e a questa interessante e sincera serie di risposte, vi saluto lasciandovi le pochissime regole da seguire. Il GA si concluderà il 2 Ottobre 2013.
    • Essere follower dei tre blog (Books Land, Il Profumo dei libri, Mr Ink)
    • Unirsi alla pagina facebook del romanzo (qui)
    • Commentare le tre tappe del blogtour
    • Lasciare il vostro indirizzo email
    • Rispondere alla domanda: Se vi capitasse di perdere la memoria, come succede al protagonista di questo libro, c'è un oggetto particolare che vi potrebbe aiutare a riacquistarla?

      sabato 21 settembre 2013

      Blogtour: Forte come l'onda è il mio amore, di Francesco Zingoni. Terza Tappa.

      Quasi un anno fa leggevo Forte come l'onda è il mio amore, un romanzo che sarebbe finito ai primissimi posti delle migliori letture del 2012, accanto agli ultimi capolavori di J.K Rowling e Stephen King. Quasi un anno fa, della storia e del suo fantastico autore, scrivevo questo: “Zingoni mi ha portato alla deriva, lontanissimo dal mondo e dalla riva. Tra un kolossal hollywoodiano, una melodia new wave, un concerto suonato negli anni ruggenti di Woodstock e un visionario film di Terrence Malick, l'opera prima di Francesco Zingoni è un esordio che gareggia per la perfezione.” Quasi un anno fa recensivo questo romanzo, pubblicato dalla Fazi Editore dopo una piccola Odissea, e, di lì a poco, avrei visto amici e colleghi blogger scrivere pensieri perfettamente in linea con i miei, con parole diverse, ma con lo stesso, identico entusiasmo. 
      Come potevo dire di no, quando Monica e Alessia mi hanno proposto di ospitare la terza tappa del blogtour ad esso dedicato? Volevo parlarne ancora e volevo che un fortunato  avesse la possibilità di vincere un copia di questo gioiello di libro – pieno di poesia, intrecci sontuosi, colpi di scena spiazzanti, acque gelide e correnti tiepide. Pieno d'amore. Giovedì, su Books Land (qui), Monica ha ospitato la prima parte dell'intervista; ieri, su Il profumo dei libri (qui), Alessia ha intrattenuto i suoi lettori con un'altra serie di domande e risposte, a cui il gentile e disponibile Francesco ha risposta nella maniera originale e completa che gli è sempre propria. Oggi, invece, a me tocca ospitare la terza tappa del tour: l'ultima prima del giveaway finale, che ospiteremo tutti e tre sui nostri blog domani, 22 Settembre. L'autore, questa volta, ci parla della colonna sonora del suo romanzo d'esordio. Quindi – è il caso di dirlo – buona lettura e buon ascolto. Anzi, buon viaggio. La parola al nostro Francesco...
      Innanzitutto, grazie per l'idea della playlist! Mi ha dato il coraggio, dopo un anno, di riaprire il mio romanzo. Poi la musica è il mio argomento di conversazione preferito, potrei andare avanti per ore. Quindi, per non dilungarmi troppo, ho deciso che sarà una playlist un po' particolare: ho scelto solo due canzoni. Delle altre, mi limito a dire che sono tutte legate a un genere particolare: la strana legge emotiva che ci fa amare per sempre la musica dell'adolescenza, mi ha fatto riempire questo libro di grunge. Erano i primi anni '90, e noi (Demian e io) eravamo appunto due (stupidi) adolescenti. 

        - 1 - "Cogli una canzone, e canta una gialla nettarina Fai un bagno, io berrò l'acqua che lascerai". La prima canzone che ho scelto è il cuore stesso del libro. Restando sull'adolescenza, il suo ritornello rappresenta l'anello che tiene saldamente unita quell'età caotica con la mia vita da adulto. C'è un verso bellissimo in quel ritornello. Qualcosa che può sembrare solo una sciocca promessa d'amore tra due ragazzini. E invece, vent'anni dopo, quel verso resta ancora la verità più grande della mia vita.
      "Se tu dovessi morire prima di me chiedi se puoi portare un amico." La canzone è "Still Remains", e loro sono gli Stone Temple Pilots.

         
      - 2 - La seconda canzone l'ho scelta perché vorrei raccontare dell'uomo che la cantava. La sua storia è poco nota, nonostante la fama raggiunta dal suo gruppo: gli Alice in Chains, una delle icone del grunge. Il suo suicidio non ha avuto lo stesso clamore di quello di Kurt Cobain. A differenza di Kurt Cobain, il suo fu un lento suicidio d'amore. Lui si chiama Layne Staley. Ha un voce unica e una sensibilità che sfiora il patologico. E quando il successo lo travolge, la sua indole autodistruttiva prende il sopravvento. Ma non è un atteggiamento costruito, non lo fa per lo spettacolo. Tra le tante donne che attraversano la sua vita ce n'è una speciale, che forse può salvarlo. Si chiama Demri Lara Parrot. L'unica che Layne ama davvero. Ma il loro sogno dura poco. Il 29 ottobre 1996, a ventisette anni, Demri muore per un'endocardite batterica. Layne non regge più. Lascia la sua carriera all'apice del successo, azzera le uscite in pubblico. Si rinchiude nel suo appartamento di Seattle, dove vegeta per quasi sei anni, incapace di reagire al dolore, estraniato da tutti e tutto. Il 19 aprile 2002 viene trovato senza vita, il corpo tumefatto. E' morto due settimane prima, un'overdose di speedball. La canzone è "Nutshell", degli Alice in Chains. Una nota sul video: è incompleto. Ho scelto proprio questo, tra i tanti disponibili su YouTube, perchè a un certo punto compare una foto di Layne e Demri che si baciano. La trovo commovente.


      - 3 - Ok, ho barato. In realtà nella playlist ci ho messo tre brani. Solo che il terzo non è una canzone, ma un poesia. Ogni volta che ammiro un paesaggio particolarmente suggestivo e selvaggio, chissà perchè, questa poesia irrimediabilmente mi risuona in testa. Ma lascio dire ogni cosa ai suoi meravigliosi versi. Fotografata direttamente dal mio libro (sperando che Dylan Thomas non si rivolti nella tomba), questa è "Distesi sulla sabbia".
      PS. Ringraziando ancora Francesco e tutti coloro che prenderanno parte a questa preziosa iniziativa, vi lascio un bannerino che ho creato per il Blogtour: se volete, siete liberissimi di esporlo sui vostri blog o sulle vostre piattaforme. Un abbraccio a tutti, e a domani, M.

      venerdì 20 settembre 2013

      Mr Ciak #18: Big Fish, Burton and Taylor, Le 5 Leggende

      E, questa volta, si parla di... Leggende.
      Buona lettura, e buona visione!

      Se dico Tim Burton, cosa vi viene in mente? Nebbie e corsetti, ghirigori ed effetti speciali, atmosfere gotiche e personaggi bizzarri. Magari, la bruma della Londra vittoriana e il volto dell'affascinante Johnny Depp nascosto da strati di trucco ben fatto, che una volta ce lo trasformano nel Diabolico barbiere di Fleet Street, un'altra nel romantico, mostruoso e malinconico Edward Mani di Forbice. Quando penso a Tim Burton, invece, io penso a questo film, unico nel suo genere e splendido proprio per questo: Big Fish. Il meno celebrato, il meno noto, ma decisamente il più suo. Uno dei miei preferiti. In esso brilla forte il sole, i colori sono vivi e sgargianti, i campi sono invasi da asfodeli giallo canarino, i boschi nascondono pericoli striscianti e villaggi da sogno, la magia nuota in fotogrammi pieni di vita. La vita che, come primo motore immobile, informa di sé ogni cosa, piccola e grande che sia. Questa è la storia di Edward Bloom, dell'unica esistenza che visse e delle tante esistenze che sfiorò. Vita, morte e miracoli di un uomo che fu marito, padre, avventuriero, cantastorie, inventore. Un uomo che visse una vita incredibile, dentro e fuori la sua testa. Essere suo figlio non è mai stato facile per Will, uomo razionale e monolitico che, quando ne ha avuto la possibilità, è volato a Parigi, lontano da un padre anziano e malato, ma ancora intrattabile. Edward, da giovane, non c'è stato mai e ha sempre colmato le sue assenze con scuse inverisimili, che una volta lo vedevano a lavorare in un circo, un'altra in guerra contro i giapponesi, un'altra ancora a un'asta per comprare una città abbandonata. Fantasia e realtà si intrecciano nella lunga vita di quell'uomo, che seguiamo dall'infanzia alla vecchiaia con interesse immenso e con i brividi a fior di pelle, onnipresenti com'è la maestria e l'eleganza del regista. Come in una raccolta di novelle, in un'antologia perfetta, gli episodi si intrecciano in maniera splendida, formando ghirlande variopinte, corone di fiori, le fasce colorate di un arcobaleno perenne sotto cui si nasconde una pentola d'oro o un drago sputa fuoco. Dipende da cosa vorrà creare l'arma più potente a disposizione dell'uomo: la sua immaginazione. Un potentissimo e indistruttibile carro armato che spara margherite, rose e tulipani: non proiettili. Molto curata la fotografia, che mescola colori cupi a toni pieni di candore, sole e crepuscolo; sensazionale il cast, che, grazie a grandi e intense prove, sa riassumere e mettere a confronto due generazioni. Uno stanco e triste Billy Crudup è Will, il figliol prodigo che, con la sua consorte, interpretata da una dolcissima e giovanissima Marion Cotillard, ritorna al capezzale del padre morente, dove tutto ha avuto inizio. L'Edward Bloom schiacciato da una malattia di nome vecchiaia è Albert Finney e Sandra, la donna della sua vita, è la sempre fantastica e affascinante Jessica Lange. Le loro copie carbone, da giovani, sono Ewan McGregor e Alison Lohman, il cui magico primo incontro, avvenuto nel circo errante gestito da Danny De Vito, è pressoché indimenticabile. Il tempo si ferma, perché così deve essere quando sai che hai incrociato lo sguardo della tua anima gemella, e poi riparte, inaspettatamente, a velocità raddoppiata. Tra di loro si ci metteranno tre anni di lontananza, la guerra in cui Edward sarà dato per disperso, un romantico campo di asfodeli in cui lei gli dirà sì. Scena memorabile, come lo è quella in cui Jessica Lange, ridendo tra le lacrime, vestita di tutto punto, si sdraia nella vasca accanto a suo marito, con la telecamera che inquadra i loro piedi nudi ed intrecciati. Non potevano mancare cameo di tutto rispetto: Steve Buscemi, nei panni di un poeta poco... poetico, e Helena Bonham Carter, nel duplice ruolo di strega cattiva e ragazza innamorata. Big Fish è un contagioso inno alla fantasia e al miracolo della vita. Pirotecnico, spettacolare, commovente, è un trionfo. Un film da sogno. Per me, il capolavoro imbattuto di Burton, insieme al suo buon vecchio Edward mani di forbice

      Due stelle sul nostalgico viale del tramonto. Richard Burton ed Elizabeth Taylor. La coppia più bella, problematica e affiatata che la vecchia Hollywood ricordi. Un breve sodalizio artistico, un amore profondo che nemmeno il loro travagliato divorzio potè spezzare. Loro erano più di due semplici innamorati. Si appartenevano, si tempravano: erano amici grandi. L'elegante e validissimo film firmato dalla BBC, tanto bello da poter meritare anche la distribuzione nelle sale, a mio avviso, si focalizza su un periodo preciso delle loro vite. Gli anni '80 stanno finendo, una Taylor – ormai cinquantenne – sta invecchiando, Burton ha abbandonato il cinema per il teatro. Ma Private lives, un'importante produzione teatrale, li unirà ancora, portandoli a recitare sullo stesso palco e per la stessa platea, davanti a un pubblico più attirato dal gossip che da un copione frizzante e vivace che, forse forse, parla anche un po' di loro. Burton & Taylor è un film privato, intimo, dal tocco delicato e dal marcato umorismo british, più attento ai reali retroscena che alle luci della ribalta. E' intelligente e si avvale di un sublime script dai dialoghi brillanti e profondi che permettono all'abile regista di ricostruire una finzione sottratta silenziosamente alla realtà. Non ha il taglio amatoriale di un documentario, con le sue scene patinate e la sua fotografia limpida, ma è come se, per tutto il tempo, una telecamera fissa, puntata sui camerini delle star, riprendesse i corteggiamenti, le schermaglie e le debolezze dei due divi. Il Richard e la Liz di questo film sanno ridere del loro matrimonio fallito, delle loro rughe, delle recensioni negative. Forti, autoironici, sinceri, realistici. Tutto grazie a loro, Dominic West e Helena Bonham Carter: clamorosamente, sorprendentemente bravi. Straordinari. Lui, visto giovane e arzillo in 300, è invecchiato e ingrigito da un curato lavoro di make-up, ma il resto lo fa da sé: voce bassa e cavernosa, modi da galantuomo, un self control tipicamente anglosassone, le mani che tremano davanti a un bicchiere di alcool a cui rinunciare. Se la sua ottima prova è stata una sorpresa inaspettata, in quella di Helena ho trovato la meravigliosa conferma che cercavo. Vedendola sempre nei soliti ruoli bizzarri, legata anche lei sentimentalmente e professionalmente a un altro Burton (Tim), avevo dimenticato quanto fosse talentuosa e affascinante. Veste i panni di un simbolo mai tramontato e lo fa con bellezza, raffinatezza, umiltà, garbo. Alcuni giochi di luce e  alcune acconciature le rendono incredibilmente simili, e sembra di vedere la vera Liz, davanti ai suoi capricci e ai suoi ritardi continui o quando, entrando in un ristorante, si procura gli sguardi incantati dei paparazzi, che hanno occhi solo per lei, mentre il forse più talentuoso ex marito vive nella sua ombra immensa. Un personaggio umano e tragico al tempo stesso, che fa ridere insieme a lei, mentre si diverte in mezzo a una folla che la ama, e fa commuove, mentre, sola, piange nel suo camerino vuoto. Supportato da due attori da Oscar, da una regia asciutta e da una coinvolgente colonna sonora, questo biopic si fa guardare con un sorriso e qualche brivido inevitabile. Degno di nota l'ultimo scambio di battute tra i due, sempre sospeso – come fu anche il loro rapporto – tra scherzo e verità. Da vedere!
       
      Basta una parola sola per descrivere tutto ciò che Le 5 leggende è: meraviglia. Meraviglia allo stato puro. Meraviglia incontaminata e vitale. Io sono un tradizionalista: amo i vecchi cartoni della Disney e, nella maggior parte dei casi, queste fiabe moderne di ultima generazione mi lasciano del tutto indifferente. E' per questo che, lo scorso novembre, quando questo film d'animazione è approdato in sala, l'ho del tutto snobbato. Come mio solito. In una sera di noia totale, su consiglio dei miei genitori, che l'avevano adorato come due bambini troppo cresciuti, ho deciso di vederlo. Ed è stato amore al primo fotogramma, credo. Perché, come dico sempre, quando una cosa è bella è bella. La bellezza di questo film non è nascosta, ma è ovunque, in ogni minuto e in ogni secondo della sua durata complessiva. Figlio di una fantasia senza limiti e di una resa originale e coraggiosissima, Le 5 leggende narra della lotta contro il male di alcuni, mitici personaggi che tutti noi conosciamo: Jack Frost, Babbo Natale, il Coniglio pasquale, la Fatina dei denti, l'Omino del sonno. Il loro nemico è l'uomo nero che sta strappando via i sogni ai più piccoli: Pitch Black. La loro missione è stanarlo e sconfiggere il buio. Difficile, dal momento che i nostri eroi formano una squadra particolare e male organizzata, ma del tutto adorabile. Quando Babbo Natale è un omone tatuato che sembra un magnate russo – con un colbacco rosso e una slitta che è una limousine ultratecnologica – e il Coniglio pasquale è un animaletto scontroso e alto quasi due metri, come può Jack Frost – un ragazzino vivace e dispettoso senza ricordi suoi – considerarsi uno dei Guardiani? Scoprirsi parte di quella famiglia di creature magiche sarà la sorpresa più bella, entusiasmante e avventurosa: con gare per aiutare la Fatina dei denti, sprovvista di valenti aiutanti, a sostituire i denti perduti da ogni bambino con una moneta, con la neve che cade a Pasqua, con l'Omino del sonno – un essere paffutello, dolce e... dorato – che tesse “sogni d'oro” per contrastare gli incubi alimentati da Pitch Black. Incubi che, in maniera intelligente e pregevole, sono raffigurati con cavalli neri e dagli occhi spalancati, proprio come nel capolavoro artistico di Fussli. Divertentissimo, ma anche coinvolgente ed emozionante, in 3D dev'essere uno spettacolo come pochi: anche con la mia comunissima TV ho percepito la grande cura dei dettagli e mi sono sentito parte della magia. Il motivo per cui non abbia vinto l'Oscar, a Febbraio, mi sfugge davvero. Poi, in lingua originale, i personaggi hanno le voci di doppiatori e un altro po': Hugh Jackman, Jude Law, Isla Fisher, Alec Baldwin, Chris Pine. Guardandolo, proprio come mi è capitato recentemente con Monsters University, mi sono sentito di nuovo piccino. Guardandolo, anche se era ancora estate, mi è sembrato che fuori fosse già arrivato Natale.

      mercoledì 18 settembre 2013

      Recensione a basso costo: La Sogneria, di Andrea Storti

      Ebbene, il fine principale dei sogni è quello di donare uno scopo e, di conseguenza, la felicità, perché la felicità non è altro che un senso di aspettativa per qualcosa.

      Titolo: La Sogneria
      Autore: Andrea Storti
      Editore: Lettere Animate Editore
      Formato: Ebook
      Numero di pagine: 63
      Prezzo: € 1,99
      Sinossi: L’autore conduce il lettore in un mondo incantato, dove la perdita della connotazione spazio temporale diventa strumento per coinvolgere quanti si affacceranno a questo romanzo in un’atmosfera fiabesca, ricca di sfumature facenti riferimento a una letteratura fantastico/paradossale. Il mondo dei sogni, da sempre considerato quanto di più effimero e intangibile, assume in questo romanzo una dimensione reale e vendibile. La Sogneria diventa la metafora di una felicità ritrovata da una popolazione che ha perso la capacità di sognare, dove il sogno non è limitato a essere ospite dei dormienti, ma importanza primaria dell’esitenza.
                                                  La recensione
      Dalle mie labbra uscirà più spesso questa solita frasetta che il mio nome, ma tant'è: che strane le coincidenze. Davvero! Giusto qualche giorno fa, un'amica blogger mi chiedeva, per un suo giveaway, cosa fosse la magia e se ci avessi mai creduto. La risposta alla seconda domanda era ovvia: certo che ci credevo. A diciannove anni, così come a dieci. Ma cos'era, per me? Avevo scritto una lista di cose – molto poco magiche, eppure così essenziali ed importanti – che più o meno faceva così. C'è magia quando, con l'animo in pena, aspetto l'arrivo di un corriere che proprio non vuole passare sotto il mio portone. Poi suonano al citofono: volo dalle scale in pantofole e pigiama, un signore tutto affaticato mi fa firmare e io, tutto contento, ho un nuovo libro che mi fa compagnia. C'è magia quando l'orologio segna la doppia ora e io sono sicuro che qualcuno, lassù o in un altro posto altrettanto irraggiungibile, abbia piani misteriosi per me: Google e Yahoo! Answers certificano. C'è magia quando, davanti a un cartone targato Disney, sento il mio cuore diventare grande grande e il mio corpo farsi piccino piccino. Dopo la lettura del breve romanzo d'esordio di Andrea Storti – saggio e responsabile papà del blog Le mele del silenzio – potrei aggiungere un'altra voce alla lista: perché c'era magia, per una volta, anche tra le pagine impalpabili e gelide del mio Kobo, con me immerso – in tutto il mio metro e settantacinque scarso – nella lettura di La Sogneria. 63 pagine appena che sanno far tanto. Parlano di sogni e, forse, in esse brucia il fumo colorato e profumatissimo che brilla nelle sfere trasparenti della bottega tanto speciale del simpatico Signor Cioccomenta, che tutti voi potete trovare, quando vorrete, al n°3 di Piazza delle Falene o sul meno esotico Amazon. In un'epoca in cui l'inquinamento, la malvagità e le invidie hanno imprigionato i sogni, lui si spinge a realizzare i desideri di tutti - uomini e donne, giovani e vecchi. In una piazzetta piena di casupole sbilenche e di strade acciottolate, in un angolo di mondo che ricorda nostalgicamente la nostra amata Diagon Alley, egli apre una Sogneria. Fabbrica, progetta, pesa e vende sogni a buon prezzo. Ha un locale dalle vetrate luminose, un bancone spazioso e tirato a lucido ed un adorabile carlino come usciere ed aiutante part-time. Come accadeva in Chocolat, quel borgo un po' triste si risveglia di colori che, puntualmente, si trovano a fare pendant con il sempre in voga verde speranza. Ma, quando si parla di sostante fragili come i sogni, non vale il comodo motto “Soddisfatti o rimborsati”. E un cliente arrabbiato con il mondo e sì, decisamente insoddisfatto, è un pericolo che il paffuto e giocondo protagonista non aveva calcolato. Inizierà una guerricciola di quartiere a colpi di dispetti e rara bontà, tra mercanti che propongono ai loro acquirenti merci decisamente agli antipodi: sogni ed incubi a seconda delle occasioni e dei perché.
      Bene e male, anche in tempo di crisi economica e morale, hanno lo stesso prezzo e lo stesso peso: siamo noi, con il Destino che ci dà una spintarella leggera, a decidere da che parte oscillerà l'ago della bilancia. Andrea, lettore onnivoro ed entusiasta, firma un tenero esordio che si rivolge al pubblico più attento e severo di lettori: i nostri bambini. Scelta coraggiosa e originale, esattamente come questa piccola e deliziosa novella che, in un calderone di rame e oro, aggiunge un pizzico di Lyman Frank Baum, concentrato di J.K Rowling, glassa riderella di Roald Dahl. Storie nuove e vecchie, in cinema scope e in 3D, in bianco e nero e a colori sgargianti... La sua prosa è piacevole e morbida; la sua trama è facile da seguire e talora piacevolmente semplice da prevedere; i suoi personaggi saltellano sulle loro gambine tozze o sui loro piedoni grandi, sporchi, brutti e cattivi, tra fantastiche avventure e dinamici capitoli. La Sogneria è una gita nottura e sotterranea, in mezzo a tunnel alla Goonies rischiarati dal candore dell'immaginazione più incontaminata e a porte sospese sul confine del sogno (e dell'incubo!) nello stile unico di Monsters & Co. Come la mitica Melevisione che guardavo da piccolo, su Rai Tre, anche La Sogneria ha il suo buon Tonio Cartonio a condurre l'incantevole show di turno. E' una macchina magica e buon gustaia che si nutre di mele glassate, barrette di cioccolato al latte, tè inglese e invitanti squisitezze simili. Ma non vi preoccupate per il vostro peso forma: si corre parecchio, e in lungo e in largo, all'inseguimento di un inquietante alano nero e delle vesti turchine e vaporose della bellissima Regina dei Sogni! Per una volta, inoltre, ho trovato che l'oggettiva brevità del racconto non fosse un difetto di fabbrica, ma un pregio introvabile altrove. Andrea Storti ha firmato una storia della buonanotte come se non se ne leggono più da secoli remoti. Forse la dimenticherò in fretta, ma forse, altrettanto in fretta, troverò una scusa come un'altra per rileggerla ancora e ancora. Da solo, o a nipotini, fratellini e figli – ipotesi lontana lontana, quest'ultima, almeno quanto il castello abitato dai principi azzurri e dalle principesse in rosa delle fiabe antiche – che, per una sera, con me che leggo a voce alta alla luce delicata di un abat-jour di Mickey Mouse – avranno il permesso di andare a letto un po' più tardi. Solo e soltanto quando la storia sarà finita.
      Il mio voto: ★★★ +
      Il mio consiglio musicale: B.o.B - I've Got The Magic in Me