martedì 31 marzo 2015

I ♥ Telefilm: Glee, The Casual Vacancy, Looking

Glee
The Final Season
Al tramonto del Glee Club, ho rinnegato l'universo e cuore a cuore con la tivù, pronto ai playback – perché ero certo che Don't Stop Believing sarebbe rispuntata – e a tamponare qualche lacrima furtiva. Questione di moscerini nell'occhio. O magari di sciami d'ape, o di ante di armadie a muri. Cose così. Non ho il pianto facile, è che sono un nostalgico. Pensavo che mi sarei commosso per quello che era stato e perciò mi ero barricato nella mia ricercata solitudine: se ci fossero stati i lacrimoni, ci sarei stato solo io. Non mi piace che ci sia gente intorno, quand'è così. Gli addii sono cosa personalissima: gli addii sono cosa mia. In pubblico pare brutto. Uno si trattiene. E l'ipotetico pubblico, a meno che non sia cresciuto con noi, non sa che cosa ha significato Glee all'epoca del ginnasio, dei passi incerti, delle cuffie dell'iPod fuse nelle orecchie, col mondo e i genitori contro. Chi guarda abitualmente serie Tv lo avrà sentito nominare: sa che è quella serie sugli adolescenti canterini, di cui la giovane star principale è morta in un'estate crudele per overdose, lasciando la produzione in balìa di scritture incerte, comprimari jolly, stagioni improvvisate da scordare. Lo scorso anno, una stagione scritta a mo' di fanfiction, quando tutto sembrava perduto, mi avrebbe risollevato: sarebbe stata il male minore. Se lo avete abbandonato, recuperate a tempo perso questi rassicuranti tredici episodi per vedere che lo cose vanno come era giusto che andassero: la morte di Cory ha messo in ballo tutto e il finale con Lea Michele che, dopo Broadway, torna a casa, dal suo Finn, è un'immagine bella e commovente che, purtroppo, non può essere. Era stata evocata in The Quarteback, quel vecchio episodio commemorativo che mi aveva fatto piangere il mare. Lucidamente, posso dirvi che qui c'è troppo. Mi piacciono le storie sospese, i sapori agrodolci e tutto mi è sembrato troppo affollato, troppo colorato, troppo felice, come se ci fosse il bisogno di mettere tutti i puntini sulle loro care i. Quella atmosfera di festa contagia, I lived la canti appresso a loro e ai OneRepublic, ma pensi. Pensi e dici che l'episodio della stagione scorda – “New Directions” – sarebbe stato senz'altro più perfetto per tirare le somme, beccandoti inconsolabile. Io la quinta serie l'ho detestata e non potevo credere che a Glee avessero fatto quello. Lo avevano forzato, scardinato, trasferito a New York. Ma Glee era roba di provincia e ragazzi qualunque, di hit da karaoke e buoni sentimenti, di aule e corridoi: una compagnia per superare gli anni del liceo. Va avanti da sei anni; tanti. Mi sfiora questo: la consapevolezza di quanto veloce passi il tempo, di cosa cambi e cosa invece no; l'immagine del vecchio me che, come il nuovo, d'altronde, stenta ad accettare i mutamenti tutt'intorno. Questo serial mi ha preso ragazzino e mi ha lasciato sulla soglia dei ventuno, proprio come Harry Potter – che, per carità, ha avuto ben altro significato – mi aveva conosciuto alle elementari e abbandonato otto film (e sette romanzi) dopo. L'ultimo episodio di Glee si è concluso all'insegna del benessere e della leggerezza e sono andato a dormire con l'animo sereno, quando invece mi aspettavo – emotivamente – meglio e peggio insieme. A scuotermi è l'idea che non ci sarà la settimana prossima, che dovrò trovarmi altri compagni di viaggio per altre avventure quotidiane: la chiusa mi ha lasciato soddisfatto, ma con gli occhi asciutti e con un po' di cose da dire. Dio, sono più Sue Silvester che Will. Preoccupante? A onor del vero, dunque, i due episodi conclusi – un ritorno al 2009 e un rigoroso The End – si trascinano gli stessi difetti di un'ultima stagione imperfetta, frettolosa, ma con la dote generosa della coerenza. Passi avanti rispetto allo scatafascio dello scorso anno. Ci si poteva comunque auspicare qualcosa di maggiormente curato, ma se hai resistito per sei anni – nella buona e nella cattiva sorte – eri preparato ai nuovi personaggi poco incisivi, alle punte kitsch, a una colonna sonora che purtroppo regala stentati picchi. Ma la cosa più bella e più brutta che posso dire della sesta stagione sapete qual è? Glee sembra scritto dai fan. C'è un certo provincialismo in questo, vero; una tendenza ai finali più che rosei rosa shocking - con matrimoni, futuri gloriosi, salti avanti e indietro, nodi che vengono al pettine -; ma c'è anche fedeleltà, amore. Sconfinato, cieco e stupido amore da parte di chi gli ha voluto tanto bene, mentre lo rendeva così, su misura di spettatore, e lui ci rendeva di conseguenza così, a un passo dal sogno. (6/7)

The Casual Vacancy: Il Seggio Vacante
Miniserie tv
Quando è arrivato in libreria, Il seggio vacante ha fatto parlare di sé. Prevedibile quando una dell'autrici più influenti del mondo, nome di spicco nel mondo della narrativa per ragazzi e non solo, si presenta con un imprevisto malloppone giallo e rosso, in cui tutto ruoto attorno alle imminenti elezioni cittadine e a un microcosmo perfettamente reso in cui ci si comporta da razzisti, traditori, egoisti: esseri umani. Il seggio vacante era una lunga commedia dai toni sarcastici, con personaggi popolosi e un umorismo britannico che lasciava scie velenose. I capitoli erano una finestra segreta sulle famiglie di Pagford. La scrittura, ora elegante e ora cruda, dava voce a giovani e vecchi impegnati in una lotta di classe di notevoli proporzioni: cosa farne dei Fields, quelle vecchie case popolari, covo di drogati e accattoni, che deturpano il volto di una ridente cittadina? Alcuni volevano smantellarle e fare spazio a hotel di lusso. Altri pensavano, invece, che sbattere per strada famiglie a casaccio non fosse per nulla cortese. Nelle discussioni, si era raggiunta la parità: i Fields restavano. Ma morto l'uomo più generoso della comunità, il suo posto al consiglio sarà occupato dal figlio di un viscido conservatore, da un timido prof del liceo o dal subdolo fratello dell'estinto? Mentre le mogli modello danno forfait e la prole ribelle urla la propria insofferenza, con un misterioso hacker disposto a portare alla luce del sole i loro sporchi segreti, i tre candidati ci diverteranno – perché loro si divertiranno un po' meno – con una galleria di intrighi, rivelazioni, inciuci. Il The Casual Vacancy col marchio BBC si segue bene, risulta ben scritto e ben recitato, ma tre episodi bastano giusto per dare una vaga idea di quel che è. E non parlo da lettore che si diletta coi soliti paragoni e che dice che tanto il libro è meglio: il libro lo ricordavo poco, sinceramente. Il primo episodio, introduttivo e minuzioso, mi ha lasciato stranito. Era la Londra di Skins, a tratti, non quella di Downtown Abbey e leggendo lo immaginavo più raffinato... ma penso fossero semplici suggestioni da Harry Potter. Al secondo mi sono ricreduto: perfetto. Il terzo, per me decisivo nella valutazione, finisce e tu, quasi quasi, aspetteresti il successivo, pur sapendo che non c'è. Si stenta a cogliere il punto, insomma, quando nel romanzo tutto mi era parso al proprio posto. Relegate a personaggi di contorno Gaia, la nuova arrivata in città, e la taciturna figlia della Dottoressa Jawanda, anche se accanto ai veterani Michael Gambon (ma sì, è lui: Silente), Rory Kinnear e Julie “Miss Marple” McKenzie, rivelazione sono i giovani del cast: l'esordiente Abigail Lawrie, ad esempio, è la Krystal che ricordavo. Sputata. Blogger mi dice che, nel 2012, Il seggio vacante lo avevo amato: i dialoghi dal forte impianto teatrale sono pane per i miei denti e lo stile della Rowling restava comunque una garanzia. La notizia di una miniserie tv, quando la stessa autrice si era detta dubbiosa, mi aveva reso a mia volta dubbioso, ma curiosissimo. Sono passati tre anni. Nonostante la trama semplice, The Casual Vacancy in tre ore stenta a starci. Si guarda, ha il giusto mix di cattiveria e leggerezza, una fotografia splendida, ma quel romanzo tutto pensieri, pieno di nomi e situazioni, rende poco così, come renderebbe altrettanto poco in un film. Non che la resa non sia all'altezza della situazione, ma l'idea di una riduzione – e parlo di riduzione non a caso; di un riassunto alla buona – era difettosa a priori. (6)

Looking
II Stagione
Lo scorso anno, al suo inizio, Looking sembrava promettente. La HBO ad assicurare indiscussa qualità (e non manca), un cast tutto al maschile (e quello c'è), atmosfere da Sundance (presenti all'appello, insieme a un immancabile fare hypster, a una colonna sonora dai colori indie, a una San Francisco piena di malinconica e luci baluginanti), amori che vanno ma amici che fedelmente restano (ed eccola qui la promessa mancata, e non è cosa da poco). Alla fine di una seconda stagione non attesa, consumata tutta insieme, senza dilungaggini o momenti di noia, potrei ancora dire che Looking sembra promettente. Ma il promettente è un qualcosa che di per sé è destinato a prendere forma in tempi ragionevoli. Qui sono passati due anni e ci si rende conto che l'aggettivo promettente è andato in giacenza; lascia il tempo che trova. In parte, colpa della cancellazione, che ci priverà di una terza stagione che nessuno piangerà davvero; in parte, colpa dei creatori, abili con i loro corposi dialoghi e il resto, ma incapaci di dare al prodotto una direzione marcata. Lo spettatore armato della pazienza che non ho avrebbe potuto aspettare una necessaria messa a fuoco, ma quanto? E ci sarebbe stata, alla fine? Un senso di irrisolto, di incompiuto, mi rendono perciò critico verso questo nuovo ciclo di episodi che, in realtà, mi sono parsi anche più spediti di quelli dello scorso anno. Ma con il guaio di risultare al solito autoreferenziali, chiusi, compiaciuti. Come è stato un anno fa, ho apprezzato l'intimità che si respira, gli attori credibili e una macchina da presa poco invadente. Quello che avevo sperato – e mi è venuto in soccorso un vecchio post affidato alla lunga memoria di Blogger – era il rimarcare, in futuro, la “s” dei plurali. Era paragonato a Girls, ma a Looking mancava quel senso di collettività e amicizia che ancora manca. Ho trovato Patrick, Dom e Augustine ancora più distanti e la scelta di focalizzarsi sulla vicenda sentimentale del primo e di mettere in ombra gli altri due pesa: il nerd Patrick, con le sue insicurezze e la cotta per il capo, ha più personalità dei suoi amici, destinati a essere comprimari di passaggio, ma è colpa di una struttura che dà eccessiva importanza al primo e troppa poca agli altri, eternamente macchiette. A fare bella figura è il bravo Jonathan Groff scoperto con Glee, ma Dom è fermo dove l'avevamo lasciato e Augustine, strampalato ed eccentrico, si è dato al volontariato. L'unico a essersi messo in marcia, in cerca di solo lui sa cosa, è proprio Patrick E sembrava averla trovata, quella cosa, vicino al simpatico e traditore Russell Tovey, prima che il finale mettesse in discussione tutto. Finale che ho trovato cresciuto, significativo, ma col problema di essere indeciso come il resto. Con Patrick che confessa umanamente i suoi bisogni e le sue gelosie, Kevin che si mostra terrorizzato dalla convivenza, poligamia sì e poligamia no, tagli di capelli indici di cambiamento. Looking ha il pregio, per me, di fare passi avanti episodio dopo episodio – ai primi, insinceri e statici, se ne affiancano alcuni degni di nota e, a sorpresa, sono proprio quelli che chiudono il cerchio – ma con troppa indolenza di fondo. Resta e resterà una di quelle cose bollate come eternamente promettenti, ma destinate a non fare il botto. Tipo quell'allievo spigliato e versatile che si ritira dagli studi prima di prendere la laurea, mentre gli ultimi della classe si sposano e cominciano a comportarsi finalmente da grandi. (6,5)

sabato 28 marzo 2015

Recensione: Un amore di carta, di Jean-Paul Didierlaurent

Mi piace pensare che durante la notte quegli scritti siano maturati, come pasta di pane che si lascia lievitare e che all'alba ritroviamo bella gonfia e profumata. E allora, il ticchettio dei tasti alle mie orecchie è la musica più bella del mondo.

Titolo: Un amore di carta
Autore: Jean-Paul Didierlaurent
Editore: Rizzoli
Numero di pagine: 190
Prezzo: € 15,00
Sinossi: Guylain Vignolles è un invisibile, uno di quegli esseri solitari che nessuno nota. Lavora in una fabbrica di riciclaggio, al servizio di un'impietosa trituratrice di libri invenduti soprannominata "la Cosa". Nient'altro gli dà gioia, se non leggere a voce alta ogni mattina, sul solito treno delle 6:27, qualche pagina scelta a caso tra le poche che il giorno prima è riuscito a salvare dai denti d'acciaio dell'infernale macchinario. Questo fin quando, un mattino, sul treno trova una chiavetta USB. Rosso granata, che contiene il diario di una giovane donna: settantadue file scritti al computer da una certa Julie, signorina addetta ai bagni di un centro commerciale, pagine su pagine che irrompono come un diluvio nella sua vita sempre uguale. E dalle quali Guylain non saprà trovare riparo. Jean-Paul Didierlaurent ha scritto una storia d'amore al quadrato tra un uomo e una donna che si scoprono legati dalla passione per la lettura e ha dipinto un universo positivo nonostante tutto, perché sopra la coltre grigia di un'esistenza scandita da una routine desolante qualcosa c'è che solleva il cuore e apre lo sguardo: le parole, e le storie che le parole raccontano.
                                                      La recensione
Guylain Vignolles, nel monotono tragitto fabbrica-lavoro, sul solito treno, a voce alta legge i fogli che ha salvato. Si sveglia quando fuori albeggia, accanto a una boccia che ospita un pesce rosso che ha nome, cognome e dignità umana, e dà libri dimenticati in pasto alla "Cosa": una macchina infernale che tritura, macina, sputa e schizza. A fine turno, ne spegne i motori roboanti e, con i suoi sessanta chili scarsi, si intrufola tra ingranaggi e presse, come Charlot in Tempi Moderni, per pulirla al meglio e vedere se ha risparmiato qualcosa: uno stralcio dell'ultimo best seller giramondo, il prologo di un manuale di botanica, la scena osè di un romanzo erotico. I suoi migliori amici sono un portiere che declama a campanello i metri greci e un anziano operaio in sedia a rotelle che cerca tra i libri le sue gambe. Guylain non parla se non è interpellato, ama i vecchietti e soprattutto la sconosciuta Julie, che fa il lavoro meno poetico del mondo ma - i guanti alle mani e la dignità immensa - non si sporca. Julie non ha un cognome né una faccia, almeno non ancora, è sulla trentina ed è l'addetta ai bagni in un centro commerciale: con il suo piattino per le mance e gli appuntamenti combinati, annota su un taccuino i suoi sogni e le abitudine fisiologiche di chi va e chi viene. La poetica dell'andare di corpo, la filosofia disincantata della brava sguattera, il potere bistrattato di chi detiene la carta igienica e i cuori degli uomini. Ah, lei conta i boccioli che fioriscono sulle mattonelle laccate anno dopo anno; lui i lampioni e i suoi passi. Che coincidenza. Inguaribili sognatori al tempo della crisi, operai sottopagati perché di arte non si vive, ladri di bellezza come capita. Anime gemelle... Il mio problema con i francesi sono gli italiani. I cugini d'oltralpe – secondo la leggenda, perpetuamente sulle loro, spocchiosi, con la puzza sotto il naso – non c'entrano. Le mie lotte sono contro i mulini a vento e i nostri connazionali, lettori o spettatori che siano, che partendo da chissà quale convinzione – traumi da Tempo delle mele? fratture permanenti causa memorabile capocciata di Zinédine Zidane? - saltano a piè pari qualsiasi cosa abbia quel suono scivoloso e musicale che è gioia per le mie orecchie, odioso strazio per altri. Cinque anni di francese e una pronuncia abominevole – è che mi vergogno proprio a parlarlo in pubblico: mi sento sgraziatissimo, un imbroglione, come se dovessi indossare il tutù sfoggiando peli ispidi su gambe che rifuggono la ceretta, capito? – ma una convinzione, nonostante le sufficienze stiracchiate che, a giusta ragione, mi beccavo all'epoca delle interrogazioni-strage su Hugo e su quel periodo ipotetico che non ho davvero mai capito. Come parlano d'amore i francesi nessuno. Suggestioni dalla città più romantica del mondo, forse, o semplice questione di cuore. Ci sanno fare, e c'è poco da dire. Basta aprire le orecchie. 
Anche se ti mandassero a quel paese, cosa che con alta probabilità può accadere, conoscendoli, più che di rispondere per le rime saresti tentato di ringraziare: vero che le parolacce sono universali, ma per chi non mastica la lingua anche quell'improperio sgarbato suonerebbe come una mezza poesia. Un concerto di insulti e maledizioni suonato con quell'accento lì, dedicato solo a te, è la cosa più belle delle cose brutte. All'inizio mi davo questa spiegazione per spiegare l'effetto rilassante, magico, che il cinema francese aveva sul sottoscritto; ma, colpo di scena, cose come Il favoloso mondo di Amelie anche doppiate restavano comunque perle di grazia. Sono le immagini a parlare, è l'intenzione a conquistare: ho imparato, insomma, ad andare in brodo di giuggiole per le commedie francesi, e a difenderle a spada tratta, senza pormi domande di sorta. Mi accorgo che sono non il solo, ma senz'altro uno dei pochi. Perchè ehi, voi, denigratori del romanticismo europeo, sbucate come funghi! Quando parlo di tuttò ciò che suona come vagamente lirico, decisamente di classe, inguaribilmente parigino mi tocca prima farvi il lavaggio del cervello, poi proseguire per la mia solita strada. Anche se, soprattutto nei libri, mi sono reso conto di quel che ogni tanto non arriva: Le cose che non ho e Io, te e la vita degli altri – per esempio - sono letture piacevoli sì, ma freddine. 
Mentre al cinema rinnovo a colpo sicuro il mio colpo di fulmine, coi romanzi è diverso: l'ultimo di cui conservo un ricordo pieno e bellissimo è il famoso L'eleganza del riccio, che ricorderete aveva fatto furore. Ora si aggiunge in punta di piedi, con la timidezza e il passo ciondolante che lo caratterizza, l'adorabile Un amore di carta: l'ho amato da pagina uno, ma anche da prima. Guardate: la copertina di un intramontabile bianco e nero, il tema che è quello dei libri che parlano di libri, la relazione di un lui e una lei che, se tutto va bene, s'incroceranno solo alla fine ma si ameranno già da lontano, da metà in poi. E io che, parlandovene a modo mio, farei una figuraccia. Mi credete equilibrato e sensibile, ma è un falso d'autore. Io sono tutto il contrario di questo romanzo: sbadato, brusco, dai modi spicci. E' come se Lucifero scrivesse le referenze per gli Arcangeli: vi riconduco perciò al drammatico binomio me e tutù rosa confetto. Ricordate? Idem. L'esordio di Didierlaurent perciò impari a gustartelo, a cullarlo tra pollice e indice come si fa col vino dolce e il cristallo. Ha la brevità del racconto, la durata dell'apertivo, ma appaga quanto un pranzo con dieci, venti portate: ti riempie la pancia, ti consola i sensi e non hai bisogno di caffè e digestivo, tanto che è lieve e salutare. Sapori troppo forti ne ammazzerebbero la disarmante delicatezza dei contenuti. Un amore di carta è vietato spiegarlo: se si vuole, si legge. Centonovanta pagine e un intreccio semplice, buffo e sognante, che si potrebbe riassumere in una parola; ma che ne sarebbe poi dei sorrisi che sbocciano incontrollati, dei sospiri di pace, dei capi malefici, dei lieto fine sospesi e di quell'aria che non sai spiegare, che cerchi di mettere a fuoco, per poi renderti conto che è una cosa impossibile: un Wes Anderson (e a me Wes Anderson non piace manco un po') che si è dato ai languori del non-colore, ma non ha rinunciato alle sue forme voluttuose da pasticcino; da dolce così esteticamente perfetto, e questa volta senza stucchevoli coloranti artificiali, che ti dispiace quasi di ferirlo col cucchiaino, fargli male, mangiarlo in un boccone. “Aggiungerò infine che da qualche tempo ho scoperto l'esistenza, su questo pianeta, di una creatura capace di far apparire i colori più vivi, le cose meno gravi, l'inverno meno duro, l'insopportabile più sopportabile, il bello più bello, il brutto meno brutto, insomma, di allietarmi la vita. Quella persona è lei, Julie.”
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Edith Piaf – La vie en rose

mercoledì 25 marzo 2015

Recensione: Io, Romeo e Giulietta, di Rebecca Serle

Shakespeare ha sbagliato tutto.

Titolo: Io, Romeo e Giulietta
Autrice: Rebecca Serle
Editore: DeAgostini
Numero di pagine: 317
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Rose è una ragazza acqua e sapone. Frequenta l'ultimo anno di liceo, ha due amiche di cui si fida ciecamente, ma soprattutto ha Rob, suo confidente da sempre. Solo che, ultimamente, quando lo vede, lo stomaco le si contorce e lei non capisce più niente. Potrebbe fare il primo passo ma... Rob la invita a cena e succede proprio quello che lei sperava. Sembra l'Inizio di una favola d'amore perfetta, ma Rose non ha messo In conto l'arrivo di sua cugina In città: bella, blonda, affascinante e... diabolica, Jullet è una seduttrice nata. E al ballo della scuola, quando la magica atmosfera creata dalla musica e dalle Luci promette una notte romantica, Rose la sorprende proprio con Rob. Come se fosse stato stabilito dal destino che dovesse finire così, con un lieto fine per Rob e Jullet e non per lei. L'ultima parola però non è ancora stata scritta. La più grande storia d'amore di tutti i tempi come non ve l'hanno mal raccontata.
                                                    La recensione
Io questo libro lo aspettavo. Proprio così. Poi, semplicemente, me n'ero dimenticato e, all'improvviso, eccolo apparire dal nulla, con un altro titolo e la stessa trama, dopo un periodo in cui, tra ricerche e attese, alla momentanea ispirazione era sopraggiunta la classica dimenticanza. When you were mine mi era passato di mente. Mi ci ero avvicinato per caso, grazie alle voci di un film in uscita: non sono il tipo da andarsi a tradurre le trame da Goodreads, ma un sito o due mi aveva solleticato la fantasia, per via di quella strana ambientazione liceale e di quella narratrice inedita, messa in ombra nell'eterno capolavoro del Bardo, che ti raccontava la storia d'amore più famosa della storia a modo suo; dal suo angolino di ragazza abbandonata. Si parlava di un nuovo titolo per quando sarebbe arrivato in sala, un semplice Rosaline, ed erano volati nomi per il cast. Ma slittamenti, cambiamenti e rimandi a data da destinarsi mi avevano fatto capire che, probabilmente, Rebecca Serle non avrebbe visto il suo romanzo d'esordio ad Hollywood. Anche se mai dire mai. Felicity Jones, in odore da Oscar e volto del cinema indipendente, aveva impegni più grandi; Lily Collins, adorabile anche con quelle sue discutibili sopracciglia al seguito, era stata un'altra Rosie nel passaggio di un altro romanzo al cinema; Hailee Steinfeld era stata in tempi recenti Giulietta in persona. Come essere l'altra senza mancare di credibilità? Mentre io e i tipi dei casting ci facevamo qualche ovvia domanda, la DeAgostini ha rispolverato questo romanzo dal vissuto turbolento, dandogli una copertina rosa confetto (che però non dispiace, essendo meno sdolcinata dell'originale) e un titolo simpatico, che gioca con un triangolo che neppure Renato Zero aveva considerato: Io, Romeo & Giulietta. Ma io chi? Chissà in quanti lo sanno, ma nell'iconico ballo in cui gli amanti di Shakespeare si erano dati il primo bacio, ignari di ciò che sarebbe stato, Romeo aveva un'accompagnatrice: si chiamava Rosaline, ed era la cugina di Giulietta. Un sonoro due di picche, ma con la giustificazione del colpo di fulmine, del gioco del destino e di quelle stupidaggini lì: sapete com'è andata a finire, e avessimo noi maschi sempre scuse così solide. A Rosaline, prima che la Serle la inserisse in un pimpante young adult come tanti e come nessuno, pochissimi aveva pensato: qui, proprio quello fa spiccare Io, Romeo & Giulietta dalla massa; un guizzo niente male, che lo rende un libro per ragazzi alquanto diverso, da consigliare e da prendere semplicemente per come è. Qualcuno potrebbe dire, però, che il rischio è di quelli grossi. Come non far sembrare il tutto una fanfiction; come non offendere il fantasma del Bardo e il gusto sopraffino di chi non ha mai smesso di studiarlo? Avventata e di pancia, l'autrice non si è posta il problema: scrive come sa, e devo dire che se la cava meglio di altre, e doma al meglio una materia ricca ma spinosa, che ha il pregio di non imporsi come un retelling in pieno stile, ma più come un omaggio in salsa pop a una pietra miliare e a un determinato filone di commedie romantiche che si noleggiavano in VHS, ai tempi nebbiosi dei videoregistratori e di Blockbuster. 
A mancare, forse, è un briciolo di consapevolezza: poteva giocarsela meglio, anche se non ho la tentazione di divorarmi i gomiti per i nervi, come ogni tanto capita. Alcune cose le ho viste io, tra le righe, e ho provveduto di persona a richiami intertestuali sparsi: avrei voluto che Juliet, per esempio, la sera del ballo, indossasse un paio di ali d'angelo come in Lurhmann; soprattutto, avrei immaginato una versione alternativa – produttori statunitensi, prendete nota - ambientata negli anni novanta. Perché la Serle, forse per caso, cita cricche al femminile che ricordano Ragazze a Beverly Hills, tipi capelluti che non possono non citare il ribelle Heath Ledger di 10 cose che odio di te (tra l'altro, altra teen comedy, altro Shakespeare: La bisbetica domata); rimaneggia una vicenda che, in un trionfo di poesia e kitsch, nel cuore di quel decennio futurista, Di Caprio e la Danes aveva genialmente stavolto; ancora, l'autrice fa sfilare bulle in gonnella che ricordano le future Meangirls e un genere che – da Hamlet a O come Otello, fino ad arrivare all'italiano Iago, al tempo di Vaporidis – richiede inverosimiglianza, abiti a quadrettoni, colonne sonore invadenti. L'ambientazione è quella odierna, invece, ma i bulli e le pupe sin dai tempi di Grease sono gli stessi, e la fantasia glissa in fretta sugli iPod e i cellulari di ultima generazione. Compilation con dediche, mangianastri e gesti eclatanti: cose che avrei voluto come il pane. 
Nelle prime pagine, la descrizione particolareggiata della flora e della fauna dei licei californiani fa storcere il naso ma, quando la traccia parte, ti prende per il cuore: allora alzi il volume e sei curioso di sapere, dopo l'inciso da canticchiare, cosa ci sarà. Romeo e diventato Rob; Rosaline ha sposato un pratico diminutivo; Juliet, da giovincella inesperta, ha abbandonato la famosa balia e il suo castello, e vive l'amore come fosse una vendetta, influenzata da genitori infervorati, sullo sfondo delle elezioni cittadine, e invischiata testa e cuore in una relazione che aveva bramato giusto per ripicca. L'esilio a Mantova diventa una sospensione, Romeo fa un occhio nero a Tebaldo, le coversazione tra dame d'alto lignaggio si traspormano in pettegolezzi e gossip da parrucchiere, Verona è solo il lontano ricordo di un viaggio estivo. Davanti a cambiamenti radicali, ma che si accolgono con il sorriso, ci si domanda: e l'ultimo atto, quello cambierà? Si crea, così, un gioco leggero e accattivamente di attese e riflessi, analogie e differenze, che ti fa indossare gli stessi panni dell'anziano protagonista di Gemma Bovery – e chi l'ha visto sa. Perchè Rosie, Rob e Juliet conoscono Shakespeare, ma chissà se questo li aiuterà a scrivere una chiusa diversa per la loro personale tragicommedia liceale. Io, Romeo & Giulietta è un romanzo senza troppe pretese, ma che per freschezza, buona volontà e note inaspettatamente toccanti sa il fatto suo. A chi non legge abituamente il genere, piacerà. Situazioni e personaggi, grossomodo, sono quelle che lo schema del young adult base prevede, ma le migliori amiche oche hanno temperamento, la cugina vipera che – da bambina – staccava la testa alle Barbie altrui ha momenti di fragilità, il "principe azzurro" fa danni e Len, una voglia che gli corre tutto il braccio e la passione per il pianoforte, bollato come giullare di corte, si rivela un chiodo scaccia chiodo dotato di umorismo e pazienza. A raccontarceli, a raccontarsi, Rosie: innamorata cronica del suo migliore amico, figlia modello, che, con uno stile scorrevole e pensieri comuni, spostando l'asse dalla letteratura alla realtà, ti ricorda quando sia stato indimenticabile il primo amore e quanto dannatamente male ti abbia fatto. Dietro quell'aria stupidotta, un po' trash, un libro che è mille volte meglio di come appare e che si arriva a prendere sul serio strada facendo, spingendoti ad ammettere che – se non fosse per le briglie tirate dinanzi a un genere soft e qualche scivolone nel mezzo – si sarebbe meritato anche mezza stella in più, nella valutazione finale. Ma parlandosi di coppie maledette dalle stelle... “La vita non è qualcosa che capita, ma qualcosa che è possibile attraverso di noi e con noi. Facciamo tutti parte di qualcosa. Abbiamo la facoltà di scegliere. Fare progetti è fantastico, ma poi si può finire per accorgersi che ciò che vogliamo per davvero è l'unica cosa che abbiamo dimenticato di mettere in lista.”
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Taylor Swift – I Knew You Were Trouble


When your sadest fear comes creeping in
That you never loved me, or her, or anyone, or anything...”

lunedì 23 marzo 2015

Recensione: Prendi la mia vita, di Lottie Moggach

E forse ero nel punto esatto in cui era morta Tess. Magari era ancora , sotto di me. L'avrei raggiunta, e le nostre molecole si sarebbero fuse col terriccio. Un'immagine che trovavo quasi affascinante...

Titolo Prendi la mia vita
Autrice: Lottie Moggach
Editore: Nord
Numero di pagine: 300
Prezzo: € 16,40
Sinossi: Leila ha sempre avuto difficoltà a fare amicizia e, fin da bambina, ha condotto un'esistenza solitaria, senza quasi nessun contatto umano. Ancora oggi, il suo unico legame col mondo è Internet. Ecco perché è la candidata ideale per far parte del cosiddetto Progetto Tess, organizzato dal carismatico moderatore di un forum. Dapprima scettica, Leila si convince a partecipare e, senza mai incontrarla di persona, memorizza ogni dettaglio della vita di una ragazza, Tess Williams: dalla sua canzone preferita al compleanno della madre, dalle allergie alimentari al nome del suo primo amore. Poi, una volta pronta, inizia a usare l'indirizzo di posta elettronica e i social network di Tess, facendo finta di essere lei. Anzi, diventando lei. Così, senza che nessuno dei suoi amici e parenti lo sappia, Tess può andare via, per sempre... Nel giro di qualche tempo, però, Leila viene contattata da un uomo che sostiene di conoscere un segreto gelosamente custodito da Tess, un segreto che instilla il seme del dubbio nella mente di Leila. E quello che doveva essere un nuovo inizio, si trasforma all'improvviso in un'ossessione e in una corsa contro il tempo per trovare la risposta alle domande che la tormentano. Chi è veramente Tess? Dov'è adesso? Perché ha deciso di scomparire?
                                                  La recensione
E' stato un weekend di pioggia e fuoco. Il bel tempo mi ha lasciato solo con i miei libri, con la classica fretta con cui si diverte a rovinare i giorni festivi, quando io non avevo fretta alcuna, invece, di preparare un nuovo esame. Ma un appello saltato fuori all'improvviso, mi sono detto, era un'ottima occasione per allegerire la sessione estiva e così mi sono messo sotto: non mi andava, ma il cielo cospirava contro di me e la data di quell'esame prenotato d'istinto, così, su due piedi, si avvicina: Sociologia della comunicazione. Non una cosa mia. Era tra gli esami a scelta, due volumi in cambio di sei crediti, e dopo le lingue morte finalmente qualcosa nella mia lingua: mica poco. I primi giorni di preparazione, strano, lo so, li amo; non avendo seguito il corso, questa volta non sapevo bene di cosa si trattasse. Mi armo di evidenziatore, matita appuntita e tanta curiosità; ma gli evidenziatori si scaricano, la punta si spezza e non ho il temperino a portata di mano, la curiosità si va a depositare lì dove, tanti anni e tanti libri (scritti in piccolo) fa, ho abbandonato le diottrie. In quel famoso weekend in solitaria che non vedevo l'ora finisse, restituendomi alle lezioni e alle file chilometriche in mensa, ho finito il primo manuale e il romanzo che avevo in lettura. Perché dico questo? Be', per dimostrare che studio e hobby, per uno di quei giochi del destino o dell'inconscio che mi stregano, sono andati di pari passo. Mai capitato che i romanzi che mi concedo quando fa buio siano l'applicazione di una materia: un po' come passare dalla teoria alla pratica, per indenderci. L'esordio di Lottie Moggach e la Sociologia parlavano – oltre dell'alienazione, delle identità online, dei pregi e dei difetti dei new media – del Cyberspazio come di un luogo vero. Il World Wide Web non era più astratto di un parco in centro. Potevi ritrovaci qualcosa che avevi perso. Potevi perdertici, con un click. In Prendi la mia vita accadono entrambe le cose: incontri a una frontiera virturale, oggetti (e persone) smarriti. Io, smarrito negli occhi di quel viso di donna in primo piano, ipnotico e sbarrato da una “X” con le sbavature e il colore del sangue. Sapevo pochissimo della trama, all'inizio nebulosa e distorta, e la mia missione giornaliera era venire a capo di quei capitoli lunghissimi che prendevo quasi come un affronto personale; leggere con attenzione quei periodi fitti e intricati; capire chi erano Tess e Leila e cosa avevano in comune - seducente, nevrotica e disperata la prima; remissiva, taciturna, servizievole la seconda. Mi è venuta in mente, leggendo, una vignetta famosissima. Due topolini da laboratorio, chiusi in gabbia, parlavano sotto gli occhi dello scienziato di turno; un topo diceva all'altro qualcosa come: “Guarda, se premo questo pulsante, ogni volta lo scienziato mi dà un pezzo di formaggio!”. Un rovesciamento di situazione, perciò: chi studiava chi? Tornando alla nostra storia, Leila è lo scienziato, Tess la cavia... oppure viceversa? 
Le fa conoscere Adrian, carismatica figura dietro al forum Red Pill, che pone alla duttile Leila una domanda – lei che interviene attivamente nelle discussioni di carattere etico, che sa che non c'è confine tra giusto e sbagliato, che ha sofferto appresso a una madre malata: se una persona ha deciso di farla finita, è giusto aiutarla? Lo chiedo a voi: è giusto? Per me suicidio assistito ed eutanasia non sono argomenti tabù: sono cattolico, ma sono della scuola di pensiero che la vita è nostra, la morte è nostra: è nostra la scelta. C'è una giovane donna che vuole suicidarsi, una sconosciuta, e Leila la aiuterà: non le terrà la testa sott'acqua, quando avrà l'istinto di prendere fiato; non le spiegherà in quale senso recidersi le vene. Il suicidio dell'una sarà il morboso segreto dell'altra: perché Tess non vuole più vivere, ma non vuole dare un dispiacere ad amici e parenti. Perciò, quando sarà il momento, Leila prenderà il suo posto nel mondo virtuale. Risponderà alle sue email, aggiornerà il suo profilo Facebook: farà proprie le sue abitudini, metterà a soqquadro la sua vita, userà le stesse abbreviazioni e gli stessi periodi sgrammaticati. Per la Rete, lei sarà Tess. Ma quando, attraverso una corrispondenza, Leila si innamora di Connor e prende a cuore le tragedie di una famiglia a cui non avrebbe dovuto avvicinarsi, quella vita virtuale popolosa e soddisfacente vorrà sostituire quella vera, che è spoglia e impersonale. La sua stanzetta tappezzata di fotografie e informazioni, come fosse la tana di un serial killer, diventerà tutto il suo mondo. 
La Moggach ha dalla sua una trama originale e accattivante, uno stile maturato con la carriera giornalistica, una vicenda triste e inquietante che ti tiene sul chi va là. Prendi la mia vita è una di quelle storie ambigue tra donne disconnesse, su legami intimi e situazioni al limite, che ricordano Il cigno nero e Sils Maria: spaccati psicologici perfetti, protagoniste ossessionate da una professione che va a rimpiazzare una vita amorfa, registri indefinibili per relazioni indefinite. Rapporti che non capisci bene ma che ti affascinano, avvenimenti difficili da ingabbiare in un genere. La mia confusione nei riguardi del romanzo della Moggach è orientata proprio verso etichette che sfuggono: ha l'aria tenebrosa di un thriller, promesse di bugie a non finire, ma è e non è quello che sembra. Imprevedibile, sotto questo punto di vista, quando purtroppo nella parte finale – quella per me decisiva – non fa un ulteriore passo avanti: l'epilogo si legge come un semplice ritorno alla normalità; senza scintille. Manca di non so cosa e quel non so cosa lo rende un romanzo mancante, nonostante la ricchezza dei temi e una narrazione prolissa che non dà tregua. Mi è piaciuto, ma se me ne aveste dato in pasto uno stralcio solo, tralasciando le ultime pagine, ve ne avrei parlato con entusiasmo maggiore. Non c'è un momento in cui ho detto che qualcosa non andava, ma a un certo punto si è come adagiato sugli allori, rischiando di passare – se affidato a un lettore che non ha pazienza e si aspetta un tradizionale giallo all'inglese - per un piattume ravvivato da innegabili picchi di suspance e intelligenza. Effettivamente, sotto il nostro titolo manca la tipica dicitura “thriller”. C'è scritto genericamente “romanzo” - definizione furba, vaga, come il volume in sé e un titolo originale, Kiss me first, che suona meglio del nostro ma non ha molto senso. Lottie Moggach è abile e padrona, ti tiene in scacco; ma c'è il rischio di non cogliere quello che c'era in gioco, durante la partita della vita. Senza un necessario coupe de théatre, non coglie nel segno, quando invece avrebbe tutti i mezzi possibili per farsi ricordare. Il suo Prendi la mia vita si rivela mascherato, come Leila, da quello che non è, ma risulta più realistico e angosciante del previsto, grazie a due protagoniste che si completano, completandoci, e a domande che non abbandoni tra le pagine. Viviamo immersi nel Web: ci chiediamo a sufficienza chi siano i nostri vicini di posto? Chi sono io, chi siete voi: chi c'è dall'altra parte? Un'indagine vertiginosa contro le porte chiuse. Un Disconnect coi pretesti di un thriller. Un giro di vite inestricabile a tal punto che, a fine lettura, che sia piaciuto o no, sarà difficile ritornare alle nostre.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Lykke Li – I Follow Rivers (Acoustic Version)

sabato 21 marzo 2015

Mr. Ciak: Cenerentola, Sils Maria, Birdman, Ida, Laggies


Quando al cinema arrivano le favole mi scatta qualcosa dentro. Le rotelline si muovono, gli ingranaggi scricchiolano e l'infanzia ha bisogno di essere un po' oleata – altrimenti poi cigola – e di tornare a vedere per un'ora e mezza la luce, ma al buio di una sala. Eppure le riscritture passate mi hanno lasciato più deluso che soddisfatto, quando il gioco sembrava tanto facile: come si fa a rovinare un film di cui conosci la fine? Possibile, invece. Lo dimostrano le riproposizioni più recenti che, o per infelici stravolgimenti della trama o per un apparato scenografico opulento che distraeva e si nutriva come un vampiro di tutto il resto, sono risultate dimenticabili o pessime; comunque, poca cosa. Meno legato alla fiaba di Cenerentola, perché femminile e stucchevole, cosa di bimbe, non sarei ritornato sui miei passi, se non avessi notato il nome di Branagh. Perché il caro Kenneth, studiato anche all'università nel più piacevole degli esami dati, non è uno a caso. E' elegante, mai pacchiano: è un maestro di galanteria. L'unico al mondo che mi ha fatto guardare con rilassatezza un cinecomic, mettendo in scena un Thor che, nell'incipt, somigliava a una tragedia shakesperiana. La Cenerentola incarnata della candida Lily James? Comune, fragile, con una grazia innata anche con gli stracci e la cenere. E così è il film. Dolce, con il viso pulito. Visivamente è una gioiello, ma non c'è ostentazione. L'equilibro è perfetto – e solo un veterano alla regia poteva ricrearlo – e così come i sontuosi costumi non appesantiscono l'incedere a ritmo delle danze, così quella matrigna che ha i tratti affilati di una magnetica Blanchett non ruba la scena alla fresca debuttante di turno. Al contrario della Roberts, ingombrante nel Biancaneve di Tarsem, la Blanchett sa lasciare lo spazio necessario alla bionda di Downtown Abbey e all'erede al trono di Games of thrones. Tra Richard Madden e la James, un'alchimia tutta sospiri – e lui, quando Cenerentola scende le sue mille scale, l'ho beccato davvero col cuore in gola – garantita da una naturale avvenenza, da uno script ad hoc e, infine, dai colpi di bacchetta di una fata madrina un po' Marilyn che ci mostra la solita Bonham Carter passeggera, alle prese col comprimario più sulle righe in circolazione e con i modi svampiti di cento film fa. La favola con la firma di Branagh è la migliore che ci hanno proposto. Sai tutto, dall'inizio alla fine; non ci sono brutte sorprese. Il nuovo Cenerentola è discreto e rispettoso. Cambia poco e quel che cambia è solo in meglio – un coprotagonista maschile che trova un nome e un'identità propria, un altro nemico del lieto fine, una mamma e un papà che hanno un amore e una storia passata, una chiusa meno macchinosa. Gli unici meccanismi manifesti sono quelli dell'orologio che, scoccata la mezzanotte, rintocca ma non segna il finire di questa favola “gentile e coraggiosa”, come suggerisce la saggezza delle mamme, e magica quanto l'originale. Il cinema, ovviamente, era un asilo. Sala pienissima e io e i miei amici – due ragazzi e due ragazze – sembravamo adulti sospetti in un parco giochi. All'inizio ho condiviso l'entusiasmo dei piccoli davanti al corto di Frozen. Quando hanno iniziato, dopo un'ora, a piangere, gettare pop corn, innaffiarci di Coca Cola, mi sono sinceramente augurato che i padri, la prossima volta, affinché non ci fosse una prossima volta, prendessero in considerazione la vasectomia. Ma quando nel cielo è comparso un The End su una nuvola, mi sono unito a loro, in quel grande applauso suonato con piccole mani. (7)

Sils Maria è la verità che mi è mancata in Birdman. Potrei partire così, potrei fermarmi già qui. Nel film di Inarritu mi era sembrato tutto talmente falsato e sopra le righe da far sì che non ci fosse scarto tra la messa in scena e la realtà, in quell'acclamato – e sopravvalutato – film nel film. Tutto così eccedente, tutto così carico da distrarmi. Vedevo Keaton che interpretava un altro sé stesso, vedevo Emma Stone che sbarellava, vedevo il professionista che voleva stupirmi. E pensavo al professionista, ma al tribolato Riggan e alla sua figlia tossicomane, per dirne una, non ci credevo. Invece, io ho creduto nell'esistenza di una Maria Enders che faceva l'attrice di teatro e che invecchiava benissimo ma che, purtroppo, invecchiava. Da persona che da lontano spia l'arte, non potrò mai capirlo, e invece l'ho capito: com'è retrocedere nelle gerarchie dello spettacolo, che significa arrendersi al tempo, quanto rode un copione viscido che ti ricorda che sei vecchia e che per te, da allora in poi, solo ruoli di madri. Solo ruoli di martiri. Maria Enders, con un cognome che ne preannuncia quasi la fine, è Juliette Binoche – meravigliosa cinquantenne – ma, analogia più e analogia meno, tra lei e la sua Maria c'è un'identificazione che non si nutre di suggestioni e di gossip – perché Keaton aveva fatto Batman, e bla bla bla – ma di un mondo di espressioni e vulnerabilità esposte. L'identificazione si costruisce sotto i nostri occhi, perciò, e non c'è già: preconfezionata per l'occasione. Il film, denso e sottile, stratificato e brillante, nonostante le danze e le maschere poliformi, ha una trama semplice che va avanti senza la voglia di compiacere uno spettatore ideale. Che tu guardi o non guardi, il treno va al di là delle alpi e, in mezzo alle vette innevate e a quelle nuvole avvolgenti che è una violenza tagliare via dal titolo, ci sono due donne che leggono copioni all'ombra dei monti. Tutto è così essenziale da superare le soglie del classico metacinema e da andare ad occupare un'indefinita valle che sta in mezzo, tra la ribalta e il retroscena; da nessuna parte. Morto improvvisamente un maestro, in sua memoria, riproporre la sua pièce più controversa, ma con un inversione dei ruoli: alla Binoche la parte della vittima, a una giovane attrice emergente quella della sua carnefice. Accanto alla magistrale protagonista, comunque al di sopra del resto del cast, due piccole dive rubate alla Hollywood commerciale. Cosa ci fanno Kristen Stewart e Chloe Moretz nel nuovo film di Assayas? La sorpresa, oltre allo script vertiginoso, è che quel cast variegato e (male) assortito funziona a tal punto che, senza le coprotagoniste, il personaggio di Juliette non avrebbe senso. La Moretz – diciassettenne sulla cui validità non ho mai nutrito dubbi – presta quell'aria da precoce stronzetta al personaggio di una diva in erba. Alla Stewart, invece, il personaggio più misterioso: quello di un'assistente fedele che, a stretto contratto con Maria Enders e i suoi dubbi, potrebbe diventare un'altra fatale Sigrid, in un gioco di inversioni e riflessi. All'ex stella di Twilight, universalmente sbeffeggiata, un primato impensato: è la prima attrice americana nella storia a portarsi a casa un César. Ma non è la fortuna della principiante. Kristen – coi capelli lavati, quel volto duro che si apre ai sorrisi, il fisichetto niente male – è una rivelazione. Il Cigno Nero della non troppo candida Maria; il suo alter ego. Inscenato nella sontuosa cornice delle alpi svizzere, Sils Maria è un Birdman meno svenduto e più autoriale, con rimandi al miglior Aronofsky e allo Swimming Pool di Ozon. La storia straordinaria di tre donne in cerca d'autore, in cui le retrovie del mondo del cinema – mostrate, di solito, nella maniera mostruosa e caotica degli americani – si manifestano per come sono. La Settima Arte è un'invenzione dei francesi, d'altronde. Come ne parlano loro, nessuno. (7,5)

Ecco, doveva capitare. Di trovare, tra i film in lizza per i premi maggiori, quel film che piace a tutti, ma a me no. Il nuovo film del regista di 21 grammi sembrerebbe, in mezzo a biopic e prodotti costruiti a tavolino, la reale novità dell’anno. La palma di bell’outsider, in realtà, rimane all’indipendente Whiplash. Questo, film d’autore ma non troppo, è un esperimento meno sui generis del previsto. Birdman è innegabilmente un bel film – perché io sono un grande estimatore delle cose belle, degli strepiti, del pavoneggiarsi – ma non mi è arrivato. Frase che fa tanto talent show da quattro soldi, ma tant'è. Lo guardavo ed ero distratto. E’ un film che va sezionato per capire quanto lavoro c’è dietro, un unico piano sequenza – quasi – dal montaggio invisibile, ma che non mi ha intrattenuto. Una lezione di cinema in cui la trama è un pretesto. Il finale, da interpretare anche se io l’ho trovato chiarissimo, si immagina. I richiami al mondo dello spettacolo sono meno caustici e pungenti che in un Maps to the stars, ma sono gli stessi, gira e rigira. Interessante la scelta di un attore che si identifica perfettamente con il ruolo che interpreta: un professionista versatile, talentuoso, imprigionato dall’armatura di un supereroe che, nelle orecchie, continua a parlargli: l’ha reso speciale, famoso. Giocando con i meccanismi sempre accattivanti del meta cinema, si fa qualcosa di geniale. Se non fosse che, mezzo secolo fa, verità simili ce le aveva sussurrate nell’orecchio un capolavoro di nome Sunset Boulevard. La protagonista: una Gloria Swanson destinata a un oblio crudele, divorata dal progresso inarrestabile, lasciata crudelmente fuori - complice il delicato passaggio dal muto al sonoro. Il cinema d’autore, poi, si apre al genere nemico per eccellenza del film di nicchia: il cinecomic. A raccontarci una cosa già intuita, attori eccellenti, ma di cui Keaton – capace di scivolare dentro e fuori dal copione, di intristirti con la sua tensione disperata verso il vuoto - è il migliore. Discreta Emma Stone, ma per me fuori posto tra le migliori attrici. Leziosa Naomi Watts, capace di brillare perfino nel modesto St. Vincent, e istrionico e divertente un Edward Norton a nudo. Mi avrebbe fatto piacere assistere al trionfo di Keaton. Doverosa, invece, la vittoria per la miglior regia. Piani sequenza strepitosi, colonna sonora jazz, la scena onirica di un poetico volo su una New York indifferente che – volando volando – entra dritta nella storia del cinema. Il film più personale presente sul Red Carpet, ma forse non il più immediato. Tecnicamente straordinario, ma troppo cerebrale per divertire o emozionare a dovere, è intelligentissimo – e lo sa – ma non si rivela così unico come appare a una prima occhiata. Pensavo mi sarei dovuto sforzare di più per stargli dietro, ma ho trovato tutto così sputtanato. Quello che ho visto con gli occhi mi ha colpito. Il resto non mi ha fatto né caldo né freddo. Da vedere, per capire se ti piace. Da rivedere, per capire cosa non ti è piaciuto. Oltre al virtuosismo da fuoriclasse che c'era? (6,5)

Un film polacco. In bianco e nero. Con protagonista una suora. E lo so, certo che qualcuno poi dice “ma che due palle!”. Quel qualcuno, prima di vedere Ida, ero io. Nelle premesse, uno di quei pipponi intellettuali che piacciono solo ai grandi critici; uno di quei film d'autore che non va a vedere neppure un cane. Forse sarà piaciuto più al grande critico di turno che a me, ma l'importante è che sono arrivato a fine visione non solo totalmente soddisfatto, ma anche sano e salvo: non ho tentato il suicidio nel mezzo, capito? Perché Ida dura qualcosa come un'ora e sedici e la noia non è contemplata. Motivo altrettanto prezioso: perché Ida è la bellezza. Non la mia idea di miglior film – sapete che io sono più per il pane col prosciutto che per il caviale; più per il filmozzo di cuore che per quello da festival – ma certe cose sono belle per forza, a meno che non si sia stupidi o ciechi. Una giovane suora, una zia sopra le righe, un viaggio in macchina alla scoperta delle proprie origini perdute. La fotografia – di una cura mai vista prima: estasi pura per il cinefilo navigato; un piacere quasi carnale – è uno specchio nitido di luci e di ombre. Algida mai, nonostante i colori vadano semplicemente dal freddo siberiano al gelo artico. Nonostate i capelli dell'incosapevolmente seducente protagonista non si vedano mai così come devono essere: caldi, rossi, fammeggianti. Il bianco e nero ammanta tutto con un velo di sacralità e nobiltà e, insieme alla fotografia magistrale, crea scene costituite da dettagli minuti e da raggi e foschie mai uguali tra loro. Ida, se solo ci stesse tutto, sarebbe da custodire in una cornice; purtroppo non ci sta, e allora tocca necessariamente vederlo. E al di là della forma c'è un'essenza distante dalla nostra, timida e sottaciuta, misteriosissima, che rende il film vicino e lontano, ma coinvolgente e godibile. I personaggi, volutamente incompleti, comunicano sensazioni delicate e a volte stacchi naturalmente l'occhio da quella cornice per concentrarti sulle loro vicende umane: ebrei morti nel folto di un bosco; un'unica sopravvissuta; un destino di sottomissione accettato per fede, senza avere mai conosciuto il tocco di un uomo. La felicità che altro è? La ricerca delle risposte in un dramma spartano, in cui le strade di campagna, le balere dove suonano musica italiana e balconi che danno le vertigini si preoccupano di fornire indizi, spunti, riflessioni. Un minuscolo romanzo di formazione, il riassunto di una frettolosa e tardiva educazione all'amore, dove aggettivi come “minuscolo” e “frettoloso” non vogliono affatto suonare come negativi. E' che Ida è così minuto che potresti stringerlo in una mano. (7)

Megan vive quei fatidici anni in cui tutte le amiche del liceo stanno per sposarsi e avere figli, mentre lei – legata ancora al fidanzato di sempre e ai ricordi dei vecchi giorni di cazzeggio e gloria – non riesce a fare passi avanti. Quando il suo ragazzo le farà la proposta, lei dirà di sì e e la sua storia si scriverà da sé. Ma all'ennesimo matrimonio, davanti a una scoperta che mette in dubbio tutto ciò che sa sull'amore, decide di scappare dalla sua vita, fingendo un importante quanto inesistente impegno lavorativo – al suo ritorno deciderà cosa fare del suo anello di fidanzamento. Per una sola settimana, troverà ospitalità presso Annika e il suo giovane papà fresco di separazione: peccato che Annika, sua nuova migliore amica, abbia la metà dei suoi anni: che ci fanno una quindicenne e una trentenne al Homecoming, ai pigiama party, alle feste alcoliche del liceo? Laggies è una commedia semplice e graziosa, sulla moderna paura di crescere e sui dubbi che, prima o poi, nel mezzo del cammin di nostra vita, tutti ci porremo indiscriminatamente. Lynn Shelton, regista apprezzata al Sundance e dintorni, dirige una commedia ben poco indipentente, ma nemmeno tra le più commerciali. Si capisce dalla discrezione usata per affrontare temi veri ma abusati e da un ovvio lieto fine che, seppur presente, non ricorda quella vecchia commedia con la Goldberg in cui si innamorava del padre della bambina che sorvegliava; ve la ricodate? No? Be', meglio così. E dimenticherete, dopo poco, anche Laggies – che chissà se arriverà mai da noi – ma un'occhiata, per il buon cast e per un andamento pimpante che non va a passo di lumaca, dategliela. Per la Moretz e per Rockwell, figlia e padre per copione, che ti accolgono nella loro calorosa famiglia a cui manca un pezzo. Per una Keira Knightley leggerissima e in parte che - qui sprovvista del famoso accento british che su di lei, già seriosa ed eterea, suona come troppo... tutto - abbandona i soliti film in costume e, in jeans e maglietta (e coi pantaloni del pigiama), si diverte e ci diverte, con un personaggio dall'epilogo scontato, ma particolarmente verisimile: forse uguale a noi. (6)

mercoledì 18 marzo 2015

Recensione: La casa dei fantasmi, di John Boyne

Se mio padre è morto è colpa di Charles Dickens.

Titolo: La casa dei fantasmi
Autore: John Boyne
Editore: Rizzoli
Numero di pagine: 300
Prezzo: € 18,00
Sinossi: La vita cambia all'improvviso nell'arco di una settimana per Eliza Caine, giovane donna beneducata ma di carattere, amante dei buoni libri e di famiglia modesta ma rispettabile. Un'infreddatura le porta via il padre che, a dispetto di una brutta tosse, ha voluto ad ogni costo assistere a una lettura pubblica del grande scrittore inglese in una sera di pioggia londinese. Disperata per la morte del genitore, Eliza risponde d'impulso a un annuncio misterioso che la conduce nel Norfolk, a Gaudlin Hall, dove diventa l'istitutrice di Isabella ed Eustace, due bambini deliziosi ma elusivi. Nella grande casa sembra che non ci siano adulti, i genitori dei piccoli Westerley sono di fatto assenti in seguito al terribile epilogo di una storia di abusi, ossessioni e gelosie. Ma contrariamente a quel che sembra, nei grandi ambienti della villa non è il silenzio a regnare: in quelle stanze vuote spadroneggia un'entità feroce e spietata, decisa a imporsi sulla donna per impedirle di occuparsi dei bambini.
                                                  La recensione
L'ultimo John Boyne e le giornate slavate fanno pendant. I proverbi dicono che non ci sono più le mezze stagioni, e uno ci ride su, ma questa quasi primavera che fa il filo all'inverno e dialoga con l'autunno, nel suo limbo fresco e opprimente, ci offre un cantuccio su misura. Inutile dire, inutile fare. Mettiamoci comodi e fingiamo che le feste natalizie non ancora debbano venire e che gli esami siano, dunque, cosa lontanissima – e se solo gli ombrelli non mi abbandonassero per strada e le macchine veloci non mi inzuppassero i pantaloni, facendo tuffi nelle buche ribollenti, io mi fingerei anche contento. Sono pigro e lento, fatto apposta per l'inverno. L'estate mi stanca. La stagione degli amori in ritardo ha visto uscire in ritardo un romanzo figlio di una Londra ottocentesca uggiosa e pesta: una creatura di carta che mi avrebbe portato compagnia nei mesi notoriamente più crudeli. Adatissimo ai bar con gli sbuffi dei tè e i pasticcini, i vetri appannati e le luci basse. Una visione molto british, troppo per la misera provincia italiana, anche se scommetto che caffè istantaneo e biscotti del discount, con la luce dell'abat jour che ha assistito a tutte le mie letture quando, in soggiorno, con una scintilla e uno scoppio sordo si erano fulmine di comune accordo tutte le lampadine, avrebbero reso altrettanto suggestiva l'atmosfera che La casa dei fantasmi si merita. Da sé, soprannaturale e prepotente, ha chiamato a raccolta le nuvole, in mancanza dell'inverno. Un inverno finto, questo, in cui incastonare un romanzo gotico bello, riuscito, rigorosamente vecchio stile, che ha diritto alle sue misteriose presenze, alle notti buie e tempestose delle frasi fatte, alla sua modica dose di spifferi. Inizia con Charles Dickens e, apparentemente, lo abbandona al secondo capitolo, ma Dickens resta – spettro tra gli spettri – insieme alla più passionale delle sorelle Bronte, in un volume che vive di citazioni alte e basse, di sacro e profano fusi insieme, e che spazia con tocco fatato dall'alta letteratura di genere alla Susan Hill di The Woman in Black, dalle pellicole a basso budger – ma ad alto fascino – con il logo della Hammer al Guillermo Del Toro che verrà. La trama, sentita mille volte ma d'effetto, segue la giovane protagonista – sfortunata ragazza dotata di una bellezza sgraziata e acerba – alle prese con una settimana in cui tutto cambia: il padre, accanito lettore di salute cagionevole, si ammala per colpa di Charles Dickens, in occasione di una lettura pubblica per via della quale, al braccio dell'unica figlia, aveva voluto sfidare il freddo; la casa in cui è cresciuta è venduta al migliore offerente; c'è un certo H. Bennett, sul giornale, che cerca un'istitutrice. Sarà parente di Liz e Darcy? 
Dietro quel lavoro stimolante, al di là di quell'identità mascherata da un'abbreviazione, una casa stregata di cui tutti parlano, due bambini che – senza adulti – fan da padroni, l'inquietante susseguirsi di sei governanti. Sei governanti morte in un anno. Le finestre si spalancano all'improvviso, mani gelate ti artigliano le caviglie, i bambini hanno un inseparabile amico immaginario, si avvertono rumori in soffitta. Eliza capisce di non essere la benvenuta e che quel piccolo castello di carte nella nebbia è infestato; ma da chi? L'indagine per portare alla luce alla verità richiederà intraprendenza, coraggio e un pizzico di sconsideratezza. Non immaginatela come un percorso spettacolare, fisico, scandito da insidie continue e sparizioni, ma più come una chiacchierata davanti a un tè fumante che, sorso dopo sorso, non finisce più. Alla porta di Eliza si presenteranno grandi opportunità e ospiti casuali e, come da buone maniere, il dialogo schietto con vicini e vecchi amici della traviata famiglia di cui è ospite le permetterà di dare finalmente un senso agli incubi notturni, alle sinistre presenze, al suo vero compito. La curiosa mancanza d'azione, nella parte centrale, fa sì che siano le voci degli altri prima a tessere, poi a disfare le fitte trame del mistero. Quella è la sua peculiarità più grande: la scoperta – attreverso conversazioni signorili – di ciò che è accaduto e di ciò che potrebbe accadere. Quella narrazione non più a senso unico si fa dialogo e, parlando di spose selvagge e matrimoni fatali, ti mette la suggestione addosso. Ti fa voltare, nei corridoi, al minimo sussurro. L'originalità non è il suo punto forte, e si capisce già dal titolo, coraggiosamente scontato. Ma letto per quel che davvero è, ossia un elegante e sentito omaggio alla narrativa di genere, La casa dei fantasmi – Bignami, per temi e struttura, di ghost story con la lettera grande, vecchi e nuove che siano – è una prova maiuscola di scrittura e imitazione. Un gioco (con le parole, con i classici intoccabili, con tutti i luoghi comuni possibili) garbato, allusivo e divertito che in pochi, autori navigati soprattutto, possono saltuariamente concedersi. Boyne, scrittore da me mai letto prima, ma nome di punta nella narrativa per ragazzi – suo il famosissimo Il bambino col pigiama a righe – può permetterselo. Credibile alle prese con un punto di vista femminile e con un periodare tutto infiocchettato che richiama alla lontana quello tardo ottocentesco; scontato un po', ma banale mai. La casa dei fantasmi è uno di quei romanzi che ti fanno essere grati alla pioggia, al freddo, alle nebbie al mattino. A un marzo pazzo, che affoga le pratoline nelle pozzanghere sporche e ti lascia in balia del cattivo umore. Le giornate si allungano, ma un cielo nero è un cielo nero e tu non distingui alba, crepuscolo e quello che c'è al centro. Col buio fuori, si accendono le luci a qualsiasi ora del giorno. Il caminetto che non c'è, un termosifone goggiolante che adempie quindi al suo dovere. Atmosfera perfetta per concedersi un romanzo perfetto forse no, ma preciso, puntuale. Squisitamente in tema. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: P.J Harvey – Red Right Hand

venerdì 13 marzo 2015

Mr. Ciak: Nessuno si salva da solo, The Voices, Two Night Stand, Honeymoon, The Best of me, La Piramide

Avevo lasciato Delia e Gaetano a un tavolo, mentre la pioggia faceva venire giù il mio cielo. I vetri appannati: appannato pure io. Non sapevo se Nessuno si salva da solo m'era piaciuto oppure no. Mi aspettavo una trasposizione indigesta, per rendere giustizia a quel libro brevissimo, ma un po' mattone: cena di qualche ora consumata all'impiedi, con le scarpe che stringevano. Invece Nessuno si salva da solo si è rivelato una parziale epifania, come era già capitato con Non ti muovere. La storia si è ripetuta; l'ultimo progetto della storica coppia si tiene a galla a furia di spinte convulse e, nonostante qualche scenetta sopra le righe che avrei troncato, la voglia di sopravvivere è più forte di uno scivolone. L'attenzione filologica per il romanzo manca e si riscrivono dialoghi e situazioni. Lo zampino della Mazzantini si nota e, a parte la discutibile abitudine di lasciare a comprimari abbozzati il compito di fare spaccati della nostra società, la riuscita generale convince. Meno crudo e più passionale, istintivo, il film incastra nel mezzo dell'ultima cena le immagini liete dei tempi che furono. Foto ricordo di due cambiati poco nell'aspetto, ma stravolti nel sentimento. Lei che gli tiene il muso, lui che le risponde col sorriso fiducioso di tutti gli uomini – perché noi siamo fessi e ci dispiaciamo per tutto. Ai due estremi del ring, Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca: bravissimi, soprattutto lei, alle prese con dialoghi lunghi, che strizzano l'occhio al teatro. Si spremono. Per cacciare le lacrime, per sputare fuori le parole più aspre. Le masticano e le digeriscono, le sputano, anche se - tratte da un romanzo pesante e lirico - a volte sono pesanti e liriche anch'esse, ma grazie a protagonisti validi, tu ne senti il peso smorzato. Scamarcio, grandi passi in avanti dai tempi di Tre metri sopra il cielo, ma si sa; la Trinca, bellissima e furiosa, sempre vista da me qui e lì in ruoli piccoli, è una rivelazione: la sua Delia è un personaggio sgradevolissimo, ma lei ha un'intensità forte e sa renderla tollerabile. Il loro dramma è a voce alta. Schiamazza e urla e le loro nevrosi di giovani genitori e di amanti finiti toccano, perché, da figlio di genitor spigolosi, certi litigi li hai origliati. Altre volte, invece, il loro rapporto è violento, ma tenero, e le scene di sesso mostrano due attori uniti da una grande alchimia – anche fisica. E loro sono ottimi soprattutto allora, in armonia col mondo e con loro stessi. I baci in bocca, la saliva, il dare morsi allo stesso cornetto. Perché fingersi tristi non è impossibile, ma fingersi felici sì che è difficile. La pellicola è girata d'un fiato. Si intravedono la Galiena e Angela Molina; alla fine esce Roberto Vecchioni – cantastorie, cantamore – a ricordarci di brindare alla vita. In un melò classico e solido, agrodolce, portatore di tanti difetti del nostro cinema, eppure diretto da un Castellitto abile nel maneggiare i punti di vista e le sue punte di diamante, si giunge a quel finale che, nel romanzo, mi aveva lasciato di sasso. Benché lontano dall'idillio, qui, c'è un ospite a sorpresa: la speranza. Allora, ho detto che questi Delia e Gae, egoisti ma capaci di un concederci un sorriso, mi sono piaciuti di più. A metà tra i finali sospesi prediletti da lei e la consolazione cercata da lui, nelle sceneggiature grossolane con la sua firma. Un punto e si va a capo, nel momento delle mance ai camerieri e dei dessert - e degli amori - buttati in faccia. Quando ritorna la fame. (7)

Potrei essere pazzo, e tutto può essere. Ma non vedevo un film così convincente da un po'. Non mi sono sbilanciato nemmeno per gli Oscar, pensate, sarà che i film che sono piaciuti a tutti io li ho trovati compiaciuti e antipatici. Fatto sta che questo The Voices, notato su un sito di cinema e beccato poi in rete, mi è piaciuto troppo. Inaspettato ma vero, è uno dei prodotti più fighi visti di recente. Una sorpresona di quelle spietate, divertenti, originali: rare. Nei titoli di coda leggo un nome straniero, alla regia, e indago. Ma sapete che Marjane Satrapi, qui per la prima volta lontana dall'Europa, è l'ideatrice di quel Persepolis che io non ho visto, ma che tutti hanno apprezzato? Be', io non lo sapevo. La mia ignoranza ha fatto il suo, come quando mi sono drogato di How to get away with murder senza sapere chi fosse la Rhimes. Lecito, per gli estimatori veri, dunque, aspettarsi una commedia nera sveglia e fuori. Per me, che la Satrapi la scopro qui e che volevo solo guardare una sottospecie di horror, The Voices è stato un colpo di genio. La storia di un efferato serial killer mostrata come fosse una commedia romantica, coi toni pastello, le farfalle che svolazzano, le fabbriche antracite che – nella mente di un sognatore o di un pazzo – diventano ospitali come se le gestisse Willy Wonka. Il mondo di Jerry, imprevedibile sociopatico, è una fiaba. Per essere un individuo che colleziona teste umane, reduce da un' infanzia tribolata, è uno a posto. Stravede per i suoi cuccioli: un cagnone bavoso che è il suo angelo custode e un gatto dal pelo rosso fuoco che, diavolo tentatore, lo squadra da capo a piedi con cattiveria e lo spinge ad uccidere. La confezione, particolarissima, è a metà tra gli splatter movie anni '80 e le velenose commedie musicali di John Waters – non perdetevi l'assurda scenetta da musical, prima dei titoli di coda, in cui gli attori fanno sfoggio di bacini snodati e doti vocali. Si alternano interiora e zucchero filato rosa, perché la Satrapi segue il suo protagonista dentro e fuori dalla sua psiche contorta, e se l'appartamento di lui, nella realtà, è una macelleria di sangue secco e cadaveri, nell'immaginazione di Jerry è lindo e pinto e la testa di Gemma Arteron, che nel frattempo marcisce nel frigo, non va a male. L'amore con Anna Kendrick è possibile e le donne non devono per forza fare la triste fine della sua cara mamma... Con un cast credibilissimo e una resa, ora cupa e ora tutta cuori, che metterà d'accordo chi ama generi cinematografici agli antipodi, è un film assurdo nelle premesse, ma che in realtà ho preso sul serissimo. Ne avrei voluto di più, come se Jerry – come il collega omicida Dexter – potesse avere una serie tutta sua. Impiegatuccio stressato e quieto che ha la faccia di un Ryan Reynolds mai così versatile e convincente. E' sempre il solito lui ma c'è qualcosa – lo sguardo timido, le camicie floreali, il fatto che presti la voce a gatto e cane – che lo rende il più looser dei sex symbol. Tant'è vero che mio fratello, nel mezzo del film, mi ha chiesto se fosse lo stesso tipo piacione di Lanterna Verde & Co. Un tenero Norman Bates, nel suo fiabesco non-mondo di gatti luciferini, teste chiacchierone e Gesù pop star. (7+)

Dopo un amore tramontato, ci vuole un rimpiazzo. Una cosa da poco. Questione di una notte e via. Ed è così che si incontrano Megan e Alec, finiti a letto grazie a un sito d'incontri. Ma svegliandosi... sorpresa! Sono bloccati a casa di lui, per via di una di quelle tormente di neve che ogni tanto paralizzanno la City, e scoprono – abbandonate le lenzuola, recuperati i vestiti – di trovarsi irritanti. Pensavano di concordare su cosa fare a letto, ma lei fingeva l'orgasmo e lui trovava poco sexy il suo modo di liberarsi di jeans e maglietta e cose simili. Calzini sì o calzini no? Luce accesa o spenta? Bacio o non bacio? Alzarsi di soppiatto o addormentarsi abbracciati? Two Night Stand è una commedia semplice, pulita, retta da due giovani attori in gambissima che duettano con leggerezza e malizia: si stuzzicano e parlano per tutto il tempo dei segreti del piacere, senza mai risultare volgari. L'impredibilità delle previsioni meteo e quelle del corazòn li porteranno a una seconda notte insieme, ma in nome della scienza, puramente per la felicità degli amanti che verranno. Come finirà lo sapete già, ma il film è così sorridente e spensierato che è di un già visto che... riguardi. Miles Teller, la rivelazione di Whiplash, e l'adorabile Analeigh Tipton, stella tra le altre cose dello sfortunato Manhattal Love Story, sono belli in una maniera non convenzionale e convincono, perché meno prestanti e molto meno nudi della Kunis e di Timberlake si guardano in quel modo . Quello che gli amanti non si dicono. Quello che lo spettatore sa, ma che comunque si diverte a vedere succedere. Tra The First Time e What If – ugualmente inediti in Italia. Tra Venere e Cupido. (6+)

Honeymoon per molti è uno dei film di genere più interessanti dello scorso anno. Un ritorno alla fantascienza vecchio stile, in cui tutto si intuisce già, ma in cui nulla viene mostrato prima del tempo pattuito. In realtà, non mi ha impressionato come mi avevano assicurato – la storia è risaputa, le svolte sono prevedibili e non è paragonabile a perle inedite come The Babadook – ma è una visione che funziona, soprattutto lì dove l'horror comune toppa: nella parte iniziale. Honeymoon – luna di miele nel profondo del bosco, con donne mantidi e laghi mortali – colpisce per l'aspetto di dramma indie. I dialoghi sinceri, la fotografia mossa, attori affiatati. I canonici venti minuti iniziali degli horror annoiano e, spesso, hanno svolte ridicole: questi, romantici e profondi, invece funzionano a tal punto da risultare quasi meglio del resto. Prendi a cuore quei due giovani e assisti angosciato alla degenerazione del loro sentimento, che è soprannaturale anche se ricorda da vicino il comune tramonto delle storie d'amore. Merito di una scrittura notevole, di una regia che gioca coi rimandi e di due protagonisti che reggono da soli il tutto – giacché i mostri non si vedono; giacché loro, preoccupati e atterriti come fossero in un Paranormal Activity d'autore, convincono pienamente. Da Games of thrones, Rose Leslie – qui molto inquietante. Conosciuto per Penny Dreadful, Harry Treadaway: un giovane talento con la faccia giusta e tutte le carte in regola. Honeymoon è un po' un Amityville Horror al femminile, che cita Antichrist, Funny Games e lo sci-fi d'epoca: una riscrittura detta e non, inserita nella parentesi graffa di un matrimonio che va allo sfascio. Uomini e donne si sa che vengono da pianeti diversi. (6,5)

Capita con le cose che ti porti appresso dall'infanzia. Di guardarle, anche adesso che sei grande, con occhi buoni. Le boy band, i cartoni animati che non danno più in tivù, gli autori che piacevano a tua mamma e che, quando in casa non c'era nient'altro, leggevi anche tu per noia. Sparks è da inserire lì. Una volta all'anno, mi ci riavvicino e, nella noia di una sera infrasettimanale, se sono a casa e non all'università, me lo recupero: mia mamma sul divano, ma tanto si addormenta. The Best of me è una storia delle sue. Questa volta, talmente sfigata che Paul Walker era in lizza per il ruolo del protagonista e, be', sapete che fine ha fatto. L'ha sostituito James Marsden, bello accanto alla sua bella Michelle Monaghan, e i due interpretano una coppia di innamorati che, a vent'anni di distanza, si rincontrano. Sapete come vanno le cose: gente che si bacia sotto gli acquazzoni senza prendersi un coccolone, lunghe lettere, famiglie che si mettono in mezzo perché lei è ricca e lui è povero, amori doppi che esistono solo nei libri, una New Orleans senza uragani ma piena di sole. E non scordiamoci i flashback. Partono, e la Monaghan diventa Liana Liberato, dolce e somigliante, mentre Marsden tale Luke Bracey – un tipo più giovane no, eh? La solita formula. Però, più di tanto, non saprei che dirgli di male. Scrive sempre la stessa storia – cambiano i punti, le virgole, i nomi – ma, purché venga a trovarti ogni tanto, riconosci che nella sua retorica c'è educazione e una certa magia. L'importante è sapersi accontentare di una vicenda che fa un po' estati di Canale Cinque. Perché nessuno ti amerà mai come se vivessi in un suo libro, eppure consolati: non sei in un suo libro, ergo la persona che ti è accanto e non ti ama così forte, probabilmente, non è condannata a lacrimose morti. (5,5)

Ci sono i classici archelogici che vanno a visitare il classico luogo misterioso e inaccessibile, nel classico horror tremolante e buio, uscito addirittura nelle nostre sale. La Piramide oggettivamente non è niente di nuovo. Certo, non è inguardabile, non è la più brutta delle visioni augurabili al nostro nemico, ma è inutile e trascurabile, soprattutto considando il fatto che venga proposto sulla scia del più recente e interessante Necropolis. Stile simile, trama in rima, ma idee giocate meglio, lì, e con più genuinità. Quello, nel profondo delle catacombe parigine, con la Divina Commedia che scendeva a patti con le avventure di Dan Brown, si era guadagnato una sufficienza. Questo, scimmiottando il predecessore – troppo recente e troppo poco importante per essere imitato – e alla lontana il cult Quella casa nel bosco, ci parla di leggende e dinvinità incazzose, ma oltre al sano brivido manca anche il mistero. Il found footage non stanca, vero, ma gli effetti visivi non sono, a tratti, all'altezza della situazione. Descritto così penserete che è uno schifo, ma invece no. Si segue, nonostante il tipico inizio pallosissimo, e l'improbabile svolta finale – costellata di buchi narrativi, ma fantasiosa il giusto – diverte. La mitologia egizia, accanto ai gatti carnivori e alle figure leggendarie dei libri di storia, avrebbe potuto offrire dritte più suggestive. Invece, l'autore del meritevolissimo Alta tensione – splatterone francese con una De France bestiale; l'avete visto? – non fa il massimo con una sceneggiatura esile scritta dagli americani, né con un cast modestissimo, in cui spicca giusto Denis O'Hare. Ma, ottimo in American Horror Story, con le sue mille facce da caratterista, qui non salva una barca che ha accolto acqua nera a bordo e, se non fosse per i canonici novanta minuti, andrebbe miseramente a fondo. (4,5)