venerdì 29 gennaio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Steve Jobs, Joy, Brooklyn

Migliore attore, Migliore attrice non protagonista
Faccio parte di una generazione recente, quella cresciuta con un computer in casa. Era il 2001 e avevo più o meno sette anni, quando mio padre tirò fuori dagli scatoloni il primo monitor, la prima tastiera e il primo mouse con cui, pian piano, avrei imparato a interagire. Ma, stranezza grande per un blogger, alla tecnologia non sto granché appresso. Mi basta un portatile con tutti i tasti al posto giusto e una connessione internet decente. Mi basta un cellulare che riceva chiamate e invii SMS. Non ho un solo prodotto Apple, tra le mie quattro mura, né sento il bisogno di averlo: sono belli ma cari e, per il modesto uso che ne faccio, hanno fin troppe funzioni. Che farci? E perché guardare l'ultimo film su Steve Jobs, se non sono tra coloro che l'hanno fatto arricchire e se, in passato, avevo accuratamente evitato al cinema I pirati della Silicon Valley e il pare evitabile biopic con Ashton Kutcher? Più che altro, per dovere: sono stato guidato dalla presenza di un grande cast e dal lavoro di un grande regista; soprattutto, dal bisogno di arrivare preparato alla notte degli Oscar. Del padre della Apple, ricordo i funerali di qualche anno fa: se l'era mangiato un brutto male e, su Facebook, in tanti avevano voluto ricordarlo con il maglione a collo alto, gli occhiali sottili e il tormentone che faceva: “Stay hungry, stay foolish". Mi hanno incuriosito, poi, le polemiche che non conoscevo e le questioni burocratiche in cui non mi addentrerò: qualcuno gli dava del genio – parlano di un moderno Leonardo Da Vinci, qui e lì – e qualcuno del ladro senza scrupoli. Sullo Steve Jobs di Danny Boyle, ingiustificato fiasco al botteghino, ne dicevano di cotte e di crude ma, solo da poco, blogger fidati hanno detto tutto quello che c'era da dire a riguardo, senza spaccare in quattro il capello. Jobs, nel privato, era così o non era così? Sorkin, mirabile drammaturgo, per il suo ritratto si è preso più di qualche licenza poetica? Francamente, non mi interessa. Francamente, non m'interessava neanche guardarlo, l'ennesimo film su Steve Jobs. In due ore, ho conosciuto meglio l'uomo? Ho capito finalmente cos'ha fatto e cosa no? So riassumervi così, su due piedi, perché lo si venera e perché lo si scredita? No, no e no. Ho assistito a due ore di gran cinema, però, e posso dirmi in paradiso. Come in La teoria del tutto – in cui, tra i tanti randez vouz dei due ottimi protagonisti, questa benedetta teoria non l'avevo mica capita -, in Steve Jobs non ci si addentra nel tecnicismo, ma nel lato umano (e disumano) dell'uomo e dell'inventore. Biopic atipico, parziale, per nulla agiografico: non in ordine cronologico. Tre atti, come a teatro, e quindici anni in pillole: il lancio Macintosh, la fondazione di quella NeXt dalla vita assai breve, l'iMac. I backstage, tutto ciò che non sapevamo, giochi di simmetrie perfette: Steve, negli anni, alle prese con gli amici (Seth Rogen), i nemici (Jeff Daniels) e una figlia che cresce lontano da lui. A cordinare affari e affetti, la fedele assistente dell'adorabile Kate Winslet, che gli fa da segretaria, manager e coscienza part-time. Il tutto, verso un finale toccante, all'insegna dei flash, degli applausi scrocianti, delle parziali riconciliazioni. Quanta invidia, diciamolo, per questo attore impegnato e versatile, che è addirittura più bravo che bello – alla faccia mia? La somiglianza non è così forte, ma è questione di approccio al ruolo, di spirito. Fassbender, tra i miei preferiti nella competizione, dal reale Jobs prende lo spirito d'onnipotenza, il cuore freddo, la cura maniacale. Non perde neanche una battuta, prende fiato come un rapper battagliero. O un sommozzatore. C'è chi suona gli strumenti, dice Jobs ai collaboratori che lo accusano di essersi appropriato delle loro idee, e c'è chi dirige l'orchestra. Al direttore manca forse il talento? Un impianto fortemente teatrale, dunque, dialoghi pazzeschi e un personaggio dalla levatura shakespeariana. I personaggi non sputano una parola e, grossomodo, parlano, parlano, parlano. Non c'è il tempo, però, per la noia: la scrittura fiume di Aaron Sorkin, più che una garanzia, è una goduria. Acuta, travolgente, di classe. E ho capito perché, agli scorsi Golden Globes, una vittoriosa Winslet si era detta, nel discorso di ringraziamento, tanto ammirata dalla tempra d'acciaio e dallo sterminato copione di Michael Fassbender: d'acciaio e sterminato, appunto, per essere all'altezza. (7,5)

Miglior attrice protagonista
Una casa che ospita quattro generazioni di donne e la voce dell'anziana matriarca che le descrive, incantate davanti alle soap opera in tivù: ora alla ricerca ora del principe azzurro, ora di un piano di riserva. Come in una favola anni novanta. A inorgoglirla, quella nipote bella e intraprendente che è giovane ancora, ma ha un vissuto intenso – due figli piccoli, una doppia ipoteca sulla casa e, ospiti nel seminterrato, un ex marito e un padre tornato all'ovile – e che, sin da bambina, si muoveva in quella cornice di signore e guai con lo spirito dell'inventrice. L'immaginazione fervida e le mani miracolose. L'ultimo film dell'incensato David O'Russell, tornato appositamente per prendere posto a sedere durante la stagione dei premi, con l'immancabile cast di fedelissimi, è una strana commedia che ci racconta la vita e i miracoli di Joy Mangano, casalinga disperata a cui si deve la prodigiosa scoperta della Miracle Mop. Chi? E, soprattutto, cosa? Un incipit interessantissimo, da saga familiare, apre la fiaba a lieto fine di una donna che, dal nulla, si costruisce un nome, una solida notorietà, una pagina su Wikipedia e un biopic sui generis che – con le sue straordinarie presenze – non è sfuggito alla critica e al pubblico. Sebbene, questa volta, il regista non abbia replicato il successo o i calorosi consensi di Il lato positivo, pellicola da me non particolarmente apprezzata. La domanda, spontanea e quantomai ragionevole, è una sola: a chi interessa la fortunata ascesa di questa Joy, lontana parente di Giorgio Mastrota? O'Russell, con toni pimpanti ma discontinui e, a lungo andare, stancanti, firma l'ennesima vicenda sul sogno americano. Una storia piccina, ma dalla morale universalmente valida, con una Lawrence sempre in tiro che tenta di essere abbastanza grande per tutto e tutti. Ma non ha l'età – i rimpianti, la disillusione e i sogni alternativi lasciamoli agli adulti, per favore – e, nel tentativo di riempire i vuoti di comprimari sottotono, mette un'irrealistica grinta nella sua performance, fin troppo carica. Non manca infatti il momento topico in cui la nostra eroina, disperata, impugna un paio di forbici per dare un taglio netto alla chioma – e scoprirsi più figa di prima. E, nella scena finale, eccola lì che marcia, con il vento tra i capelli e gli occhiali da sole; a latitare, giusto una macchina che esplode sullo sfondo. Fa sorridere sotto i baffi, ma involontariamente, il parlare di moci e scope rotanti con toni tanto enfatici e solenni. C'è in ballo la pulizia dei pavimenti, la lotta allo sporco ostinato. La Mangano non ha mica debellato la peste bubbonica, no? Di lodevole, gli scenari natalizi e le punte kitsch degli interni domestici: l'arredamento un po' pacchiano e, nella prima parte, gli incubi e i sogni di Joy in formato telenovela; la scrittura personale di un professionista del campo, che ci parla di televendite, brevetti e casi giudiziari da poco, come se fossero davvero cosa importante. Nella seconda parte, invece, con più adesione ai fatti che ai colori del surreale, Joy diventa una specie di prodottotino Lifetime. Una versione in rosa di La ricerca della felicità, in cui si segue una protagonista sull'onda del successo: da inventrice a presentatrice, fino a ritrovarsi a capo di una discreta impresa indipendente – il tutto, ovvio, senza sconciarsi un singolo boccolo biondo. Come per magia. (5,5)

Miglior film, Miglior attrice, Miglior sceneggiatura
Dovete sapere che, in anni e anni di film condivisi, in famiglia abbiamo coniato generi cinematografici su misura. Pensavate che i romanzi che, nel dubbio, definisco boh, né belli né brutti, oscuri, fossero una mia invenzione? Nello specifico, oggi, vi dirò di un'etichettà inventata da papà che, ancor prima di vederla, pensavo stesse bene a una pellicola come Brooklyn: dal cartone Lovely Sara, che forse conoscerete meglio per uno dei primi film di Cuaròn, La piccola principessa, nascono i prodotti del cosiddetto filone “Povera Sara”. Quelli vagamente dickensiani, su orfane spiantate e pure d'animo, a cui ne succedono di cotte e di crude, in città di altri tempi, prima del lieto fine desiderato. Brooklyn, su una giovane migrante di buon cuore nella New York dei primi anni cinquanta, fortunatamente – con sorpresa mia e del genitore pieno di inventiva - non racconta la vicenda accidentata, angosciosa e, in fondo, buonista che s'immaginava in partenza. Cosa c'è nella valigia di cartone di Eilis, fanciulla di sani principi e dalla bellezza ancora acerba, che lascia mamma e sorella, in una Irlanda non così religiosa o bigotta, all'insegna della terra promessa? Una punta di malinconia, che è inevitabile, positività e umorismo. Ovviamente, nel bagaglio a mano, viaggiano i sentimenti: ben riposti, trattati con garbo, essenziali e puliti, come in una commedia retrò con Audrey Hepburn. Il cuore che galleggia tra due mari e due terre, a metà strada, perché negli Stati Uniti c'è l'accogliente Tony – italiano che incarna il meglio di noi – e, nei pressi di Dublino, quel Jim che le ricorda chi non c'è più. Richiamata in patria per un imprevisto, Eilis dovrà capire, adesso, dov'è che è casa sua. Una Saoirse Ronan sempre più donna, sempre più brava – anche se equilibrio e giusta misura, in Eilis, si fanno meno ricordare della detestabile Briony di Espiazione, o della tribolata Susie di Lovely Bones – ci ospita, insieme ai caratteristi Jim Broadbent e Julie Christie, in un mondo in cui le ragazze, in pista, aspettavano che i ragazzi le invitassero a ballare e in un'epoca in cui, dopo le due guerra, c'era voglia infinita di vivere. I grandi magazzini, simbolo della modernità, luogo clou delle prime commedie a colori, e il fascino dai colori pastello degli anni cinquanta, in un romanzo dolceamaro, perciò, delicato e ironico, con un Hornby molto in forma, alla sceneggiatura, e due parti speculari. Nella prima, romantica e solare, i siparietti umoristici che nascono in un appartamento di giovani donne e l'insicurezza della protagonista – le sue prove, ad esempio, su come mangiare gli spaghetti, per non sporcare tutto di sugo in casa Fiorello – fanno bene alla testa e al cuore; nella seconda, con un ritorno forzato e un cenno di triangolo sentimentale, si rischia spesso di non comprendere le scelte amorose di un personaggio che, in corner, poi sa rimediare agli errori di percorso. Quanti drammi struggenti, nella storia del cinema, hanno descritto la condizione degli immigrati in terra straniera? Quanti sogni illusi nel bruciante In America, quante sofferenze nel tradizionale C'era una volta a New York? In Brooklyn, più lieto e coinvolgente del previsto, non ci sono i tipici fazzoletti bianchi, sventolati quando si parte o quando si arriva; non c'è la morsa allo stomaco. Il melò di John Crowley, autore del triste e intenso Boy A, ha la joie de vivre che non pensavi e che, eppure, gli si addice: come un costume nuovo, col sole, in un pomeriggio al mare. (7)

mercoledì 27 gennaio 2016

Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the Tour

Ho letto Il piccolo principe quando non avevo l'età. Mi ero lasciato ingannare dalle poche pagine, dalla semplicità delle illustrazioni e, a otto anni, più o meno, lo avevo messo da parte senza cerimonie. Cosa voleva dirmi quell'apologo di fiori vanitosi e animali parlanti, pianeti sperduti e bambini che, trainati da stormi in volo, si spostano nell'aria? Se lo chiede anche la protagonista senza nome dell'ultima fatica di Mark Osborne, ideatore di Kung Fu Panda. Il piccolo principe, infatti, con cui ho inaugurato al meglio un altro anno di cinema, non è la trasposizione del capolavoro – da me a lungo incompreso – di Saint-Exupéry. Un po' ideale seguito e un po' parafrasi a voce alta, parla di una bambina che ha tante cose in comune con il me di adesso e con quello di dieci, dodici anni fa: coscienziosa e indipendente, si è addossata i problemi dei genitori e il fardello delle alte aspettative di una mamma in carriera, che ha schematizzato le giornate della figlia su una lavagna grossa così. L'amicizia è giusto una parentesi per l'estate che verrà. Non è estate, quando si trasferisce nel nuovo quartiere residenziale, e non è l'Aviatore, un vecchio inventore sui generis, l'amico che le ci vorrebbe. Oppure sì? Le racconta i suoi viaggi per terra e per mare, i suoi ricordi di gioventù. L'incontro nel Sahara, ad esempio, con un bambino biondo caduto da un altro pianeta – un completo verde, una sciarpa soffiata dal vento, un'amata rosa da cui fare ritorno. Un mondo a cui trovare un senso, a furia di interrogativi. La storia che tutti noi, grandi e piccoli, almeno una volta abbiamo sentito, s'intreccia con quella della nuova protagonista, con un domani tutto da scrivere, e con quella dell'Aviatore – ormai affaticato, vecchio – che ha i giorni contati. La bambina, a bordo di un elicottero sgangherato e in compagnia di una volpe di peluche, scoprirà cos'è stato del bambino del mistero, dopo sessant'anni. I prodigi dell'animazione invecchiano una figura leggendaria, la rendono adulta, e mostrano, con occhi lucidi e meravigliati, ciò che c'è stato dopo l'addio. Cancellano il punto fermo, la fine, e ne scrivono un'altra. Impresa rischiosa, ma portata a termine con rispetto, che mescola due stili e, a sorpresa, regala immagini di sconfinata bellezza e brividi a fior di pelle. La sua sensibilità, poco disneyana, adulta, è inguaribilmente francese, insieme a una colonna sonora che non si esprime che nella lingua più musicale e carezzevole che c'è. Come nel tanto osannato Inside Out, ma per me con maggiore coerenza di fondo, si parla infatti della paura di crescere e di spiccare il volo. Dell'ansia di dimenticare sé stessi, strada facendo, e le promesse fatte alle rose e agli amici cari: allora, un'aspirapolvere risucchia gli acari e le stelle. La vita vissuta in fretta ci ruba il cielo dalla finestra. L'essenziale è invisibile agli occhi, ma qui – con tutti i colori immaginabili, una rilettura discreta e, a prestare le voci, un cast di signori interpreti – si vede chiaro e tondo. (8)

La prima sessione estiva della mia vita, l'esame di Storia del Teatro Inglese e, oltre al manuale di base, un paio di tragedie da leggere in lingua originale. Più paura per l'impresa – acquisire familiarità con il suono dei versi cinquecenteschi, avvicinarmi alle opere di Shakespeare come fossero romanzi – che del prof, uomo sempre sovrappensiero e chiacchierone, ma preparatissimo. All'esame, qualcosa come il diciotto luglio, mi aveva dato il la per parlare della blood imagery in Macbeth. Mi aveva chiesto se, giovane com'ero, avessi mai visto Shining. “Ha presente le porte dell'ascensore che si aprono sulla hall dell'Overlook, e da cui si riversano fiumi e fiumi di sangue? La tragedia più breve del Bardo è così: splatter.” Quattro atti, l'ascesa di un tiranno: da uomo d'onore, soldato fedele, a usurpatore. Per amore del denaro e di una donna. Macbeth è un fulmine. Un temporale. Un lampo che passa in fretta. Un regno corto, il suo, che poggia sulla solitudine del sovrano, colpe che offuscano il lume della ragione, un potere che reclama altro potere. Dalla tragedia, la trasposizione cinematografica del promettente Kurzel prende la natura crepuscolare e sanguinaria, l'intramontabile musicalità del pentametro giambico. I traumi di guerra e i fantasmi dei figli morti prima del tempo, uno spaccato psicologico che sembra scritto l'altro ieri. Ma anche l'onirico, il fantastico, con le immancabili streghe all'orizzonte e misteriosi presagi in rima baciata – un bosco che avanzerà per rovesciare il protagonista dal trono, la giustizia ristabilita da un uomo non nato da donna. Macbeth, così, è una visione che non risulterà agevole ai più, ma anche una trasposizione solenne, asciutta, meticolosa. Filologicamente accurata. Forse troppo? Kurzel ha un cast di fuoriclasse, il Bardo che sceneggia, una Scozia naturalmente scenografica. Gli manca, pur nella sua attinenza al canone originale, il guizzo di uno sguardo nuovo; il compromesso di un linguaggio fiume, ma arginato, tamponato, per la gioia dello spettatore che ama molto i conflitti ben coreografati e poco parole d'altri tempi. Una colonna sonora essenziale, paesaggi accattivanti e, nell'incipit e nell'epilogo, le spade sguainate, i cieli rossi di una brughiera di rara magnificenza. La guerra in slow motion. Il pulviscolo e le scintille controluce. Al centro, tutto lo Shakespeare che c'è: nudo, crudo, recitato senza scorciatoie. Il linguaggio aulico, i versi perfettamente scanditi, i cantucci privati – come a teatro – per monologhi d'importanza capillare. Lì, i personaggi, rosi dal senso di colpa, possono dialogare con la loro coscienza sporca. Qui, gli impeccabili protagonista possono dare sprazzi del meglio di sé: la follia di un delirante Fassbender; l'intensità di una Cotillard da applausi, che raccomanda al suo bambino di andare a dormire. Ma il bambino è morto, arso nella prima sequenza, e dalle sue piccole mani non va via il sangue versato. Lui, selvatico e passionale, con il physique du role e un connaturato carisma. Lei, francese in terra straniera, particolarmente sorprendente con una Lady Macbeth dal viso dolce e dalla sensualità glaciale, l'aria perenne da Madonnina velata e vendicativa. E quanto possono essere belli, padroni e complici, i due, nello stesso dramma in costume? (7)

David, accigliato quarantenne, è stato abbandonato dalla moglie. Il suo mondo, però, non perdona chi è solo e infelice. Nella Città, fredda e senza nome, non ci sono che coppie allegre, che per mano tengono allegri bambini. Ha un mese scarso per trovare una compagna, altrimenti sarà trasformato, come suo fratello prima di lui, in un animale a scelta. Luogo neutrale per tentare le ultime combinazioni, un albergo che provvede al destino sentimentale dei suoi ospiti: usciranno di lì o in coppia, oppure bestie da soma. A unirli tutti, il countdown che li fa tremare e la caccia ai Solitari che, come ribelli, vivono nel bosco. Meglio la metamorfosi o la fuga? Meglio, soprattutto, un albergo in cui ci suggeriscono che dovremmo appaiarci a tutti i costi, o un'anarchia alternativa dove l'amore – all'interno del gruppo dissidente – va punito affilando i coltelli? The Lobster, storia romantica contro le convenzioni, m'ispirava dall'autunno scorso e, a ben vedere, da molto prima. Premiato a Cannes, è infatti il primo film in lingua inglese del regista ateniese Yorgos Lanthimos, che mi sono più volte promesso e ripromesso di vedere – il controverso Kynodontas, ad esempio, è stato sulla bocca di tanti a lungo -, ma che mi frenava un po'. Ci voleva l'input di qualche attore di richiamo – un eccezionale Colin Farrell, Rachel Weisz – e un genere, in questo caso il distopico, che mi è familiare leggendo. L'autore greco, che strizza l'occhio a Kubrick e ricorda il cinema rigoroso di Haneke, architetta un futuro che è sinistro, grottesco, alienante. Turba per la violenza insensata su uomini e animali, i meccanismi schematici, pensieri che puntellano le coscienze. A una prima parte orginalissima e tragicomica, ne segue un'altra meno riuscita senz'altro, in cui ogni cosa è allegoria. Io ci penso ancora adesso a una parafrasi, a come sciogliere i periodi e i nodi intricati. Potrei pensarci qualche giorno ancora, ma qualcosa sfuggirebbe. E non è un male. The Lobster, tentativo di fuga di un'aragagosta prigioniera di un acquario grande, in realtà, quanto il mondo, intenerisce, diverte e disgusta. La malinconia fa paura, il solitario fa pietà; ci si omologa tutti all'amore, scambiandolo per illusoria gioia. Si ricercano le cose in comune – sui siti d'incontri c'è chi si piglia perché ama le passeggiate sulla spiaggia, in The Lobster chi ha l'epistassi o la miopia, sintomo vero di affinità elettive – e ci si soffia fumo negli occhi a turno, per non capire quanto contro natura sia l'amore, se forzato o condannato, e su quanta pochezza si regga l'idea dell'anima gemella. La solitudine è un diritto, non una colpa. (7,5)

In un periodo complicato come questo, lo scorso gennaio, avevo trovato serenità e sorrisi nei programmi culinari in tivù. Ho scoperto infatti che cucinare mi piace e mi rilassa. Ma se mancano il tempo e la fantasia, meglio mettersi comodi e lasciare che chi sa il fatto suo si metta all'opera. Metteteci un montaggio forsennato, sfide settimanali e scenate teatrali. In cucina l'inferno, in sala neanche un tovagliolo fuori posto. Se certe cose funzionano sul piccolo schermo, perché non al cinema? Dopo il linguaggio colorito e gli scatti di ira di Gordon Ramsey – e, spostandoci al jazz, Whiplash – ci volevano adesso uno chef rockstar, una cucina piena zeppa di stelle, la direzione del produttore di Shameless. Adam Jones, bello e dannato, è una firma nota della gastronomia, in rehab e in fuga dai debiti. A Londra, in cerca di una terza stella Michelin, si imbatte in vecchi rivali e in un ambiente ribelle. Lancia piatti e padelle, insulta tutti, spezza il cuore della sua promettente sous chef e quello di un maitre spagnolo innamorato perso di lui. In cerca, sempre, della ricetta per ricominciare. Qual è Il sapore del successo? Burnt, diretto da John Wells, è una commedia ai fornelli che punta su ritmi veloci, interpretazioni maiuscole, cene da gourmet. Un bravissimo Bradley Cooper può gigioneggiare alla grande, parlare un fluente francese e regalare l'ennesima prova degna di nota, con il personaggio di un professionista arrogante, spregiudicato, bellicoso. Insieme a lui, la romantica Sienna Miller e Daniel Bruhl sono gli unici che non devono fare la fila per mangiare da re e catturare l'attenzione della macchina da presa – il cast, infatti, affollato, comprende il nostro Scamarcio, Omar Sy, Emma Thompson e, in quelli che sono poco più che cameo, la Thurman e la splendida Alicia Vikander. Burnt ti prende per il naso e la gola, rapido e brillante, sebbene ci si aspettasse qualcosa di più. Una scrittura più mordace e un mix senza grumi. Ma restano l'armonia, le passioni non corrisposte, il rumore sinfonico di piatti e stoviglie, i colori basici e gli accenti variegati. L'orchestrazione di un Cooper antipatico ma mattatore, che ha gioco facile nell'affascinare lo spettatore e nel dare ordini. Tant'è. Io non ho rinunciato al mio posto a sedere prima del dessert. (6,5)

David Lipsky, modesto romanziere e articolista per il Rolling Stones, è indispettito. Il suo ultimo romanzo è passato inosservato. A monopolizzare le attenzioni, Infinite Jest. Un volume immenso, di mille e passa pagine, firmato da uno spiantato trentenne che la critica, all'unanimità, ritiene il moderno Zola. Decidere di intervistarlo, dunque, per curiosità e un po' di sano opportunismo: capire, così, i segreti, le ambizioni e i dolori del compianto David Foster Wallace, morto suicida, prima del suo estremo mal di vivere. Ci sono due David che viaggiano nella stessa macchina perciò: uno guida, l'altro fa domande su domande. Fumano, bevono Coca Cola, mangiano cibo spazzatura. Uno cerca la notizia e l'altro un migliore amico, in un viaggio promozionale che dura poco – tre giorni appena – e che diventa il biopic che non ti aspettavi sullo scrittore che non conoscevi. L'occhio inguaribile del cinema indie, i dialoghi brillanti e sinceri, nessun momento studiato per fare breccia. Eppure The end of the tour, commedia dai risvolti inevitabilmente malinconici, arriva al cuore e, nell'andare via, lascia qualcosa in pegno. Retto da due ottimi protagonisti, il film di James Ponsoldt – già premiato al Sundance per l'incolore The Spectacular Now – è la breve storia di un'amicizia al maschile, che parte dall'invidia e arriva alla scoperta del profondo di un gigante buono, con la casa piena di cani e psicofarmaci e l'inseparabile bandana, usata a mo' di coperta di Linus. Sul finire si è indecisi tra la stretta di mano e l'abbraccio, visibilmente toccati. Segel, familiare volto del piccolo schermo, è (in)credibile senza sforzi visibili o eccessi; l'antipatico Eisenberg, invece, interpreta il solito e antipatico Eisenberg, anche se il suo sguardo – nella sequenza al cinema, per esempio – coincide con quello dello spettatore medio. Intenerito, affascinato, interessato: come me mentre leggevo On Writing. Capito, no? Dopo The end of the tour, ben interpretato, sensibile e a modo suo divertente, prometto che non mi lascerò intimorire dalla mole e dalla fama del leggendario Infinite Jest. Voglio leggerlo entro l'anno: è tra i miei buoni propositi. Così la whishlist si allunga, e a quella dei film belli e sconosciuti si va ad aggiungere invece un altro significativo tassello. (7,5)

lunedì 25 gennaio 2016

Recensione: Wolf, di Lavie Tidhar

Ci sono tanti tipi di verità, quasi tutti scomodi.

Titolo: Wolf
Autore: Lavie Tidhar
Editore: Frassinelli
Numero di pagine: 300
Prezzo: € 20,00
Sinossi: Herr Wolf è un investigatore privato, tedesco. Viene assoldato per ritrovare una ragazza scomparsa. La ragazza è ebrea. Wolf accetta il caso perché ha un disperato bisogno di soldi, ma Wolf odia gli ebrei. È colpa degli ebrei, infatti, se nel 1933 ha dovuto lasciare la Germania; è colpa degli ebrei se i comunisti hanno preso il potere a Berlino e da qui in quasi tutta l’Europa; è colpa degli ebrei se il partito nazista, che avrebbe portato ordine e disciplina, è stato sconfitto e distrutto; è colpa degli ebrei se Wolf e molti dei suoi vecchi camerati sono finiti così, dispersi e braccati. L’indagine porterà Wolf a ripercorrere il suo passato e precipitare nelle sue nevrosi, e condurrà invece il lettore in un gioco di continui spiazzamenti. Niente è come sembra, in questo romanzo, che è a un tempo una grande prova di narrativa ucronica, un noir, un libro perversamente erotico, e un avvincente spaccato della psicologia «nera» e malata del Novecento.
                                              La recensione
Da qualche parte in lontananza una radio suonava Over The Rainbow. Wolf aveva visto il film. Ma se fosse stato lui a essere trasportato nella magica terra di Oz, avrebbe riunito un esercito di scimmie volanti, rinchiuso le streghe in un campo di concentramento, raso al suo la città di smeraldo e giustiziato il mago, con l'accusa di essere un simpatizzante comunista, un ebreo, un omosessuale, un ritardato mentale o tutte queste cose insieme. Tuttavia la canzone gli piaceva.
In una Londra labirinto e in anni che hanno appena smesso di ruggire, tanto grande era la stanchezza, un omino anonimo, infagottato in un trench in stile Sherlock Holmes, si specchia nelle vetrine delle librerie prima di imboccare la porta del suo ufficio. Un quartiere in periferia, landa sudicia di malaffare e trasgressione, per un reietto come lui: ospite in terra straniera. Ama la lettura – si perde nei romanzi, nei volti dei suoi clienti in cerca di giustizia – e la compagnia dei cani. E, con tutto il suo essere, odia gli ebrei. La vetrina ci restituisce quindi il riflesso di un uomo di mezza età, austriaco, con i capelli scuri, gli occhi glaciali e il viso rasato di fresco. A lungo, ha portato i baffi. Dopo la Caduta, invece, non li sopporta più: la peluria leggera sul labbro ha fatto la stessa fine delle svastiche, dell'idea di un nuovo memoir, di un progetto futuro di gloria e caos. Auf Wiedersehen. Adesso, l'asilo politico in Inghilterra – è scappato, infatti, dalle catene di un campo di lavoro – e l'eco di un verso struggente, pieno di malinconia. L'ululato di un lupo in trappola, nascosto in un una città di pecore. Herr Wolf fa un cenno alle prostitute assiepate in un vicolo, sue vicine di casa, e si mette all'opera. Lavora in proprio, come detective privato. Nelle confessioni al suo caro diario leggiamo così delle difficoltà di un secondo libro che non riesce a terminare – senza tenere conto, poi, degli editori britannici che rifiutano ostinatamente il seguito del Mein Kampf – e di un caso che gli dà filo da torcere. Il pensiero della figlia scomparsa di un facoltoso banchiere ebreo gli toglie il sonno e le belle gambe di Isabella Rubinstein, sorella della vittima, lo tengono desto ed eccitato. Ha voglia un po' dell'amore incondizionato della fedele Eva Braun e un po' delle cinghiate di papà. Fuori, si incrociano ombre che vengono e ombre che vanno; ed è tutto un gioco di sguardi indagatori e piani enigmatici. Londra, nel novembre del 1939, è deformata e pericolosa. Il buio è affollato, pieno zeppo di occhi e sussurri: parlano, in coro, di un dittatore che non c'è mai stato. Ci sono gli uomini in doppiopetto dei servizi segreti americani e un assassino di donne che traccia sui cadaveri un simbolo il cui senso sfugge. Qual è il significato di una svastica per cicatrice? Cos'è stato dell'uomo che ammaliava i tedeschi, folle ma lucido a modo suo, che la fantasia indomita di Lavie Tidhar fa tramontare prima delle leggi razziali e del Patto d'Acciao? Wolf, sfrontato pamphlet e sopraffine noir, è un mirabolante esempio di narrativa ucronica, in cui un autore istraeliano che i grandi paragonano già a Dick e Vonnegut riscrive, con accuratezza, sangue freddo e un punta necessaria di pazzia, le pagine più cupe e tristi della storia del primo Novecento. Le librerie, in occasione della Giornata della Memoria, ci ricordano in questo periodo i bambini con i pigiama a righe, gli inganni delle docce, i comignoli che sputano ceneri umane. I toni a cui siamo abituati, di solito, sono dei più elegiaci e leziosi, e sapeste quanto mi danno fastidio i libri a tema, la speculazione senza sosta e senza cuore, i progetti costruiti a tavolino.
Quando ero più piccolo, ho letto Il diario di Anna Frank e Primo Levi, per una recita scolastica. Lo stesso Tidhar, in un'opera immaginifica ma piena di storie reali, mi ha suggerito tra le righe di rimediare La casa delle bambole: l'orrore privato di un harem di donne ebree, schiave sessuali delle SS. La shoah, quest'anno, ho voluto rievocarla con un giovane autore che ha qualcosa da dire, e sa alla perfezione quali parole sia meglio usare: come puoi non vedere, se è appena giunto il momento di ricordare, l'originalità e il coraggioso affronto di un esperimento come Wolf? Lavie Tidhar, i cui nonni furono vittime dei campi di concentramento e della caccia di una belva selvaggia, ci parla di un altro Fuhrer, in un'altra realtà. In un mondo parallelo, dove le cose sono andate diversamente, Adolf Hitler era un giovane di belle speranze e dal discreto talento artistico, con un astio naturale verso il diverso e l'idea abbozzata di una razza perfetta – e fin qui, purtroppo, tutto vero. Ma nella storia secondo Tidhar, dopo una cecità passeggera e un impressionante ascesa politica, il suo astro si sarebbe eclissato in fretta: non gli resta che impacchettare le sue cose – il mito della stirpe ariana, la pulizia etnica, gusti sessuali morbosi – e trasferirsi lontano, in Inghilterra. L'uomo più spregevole che abbia calpestato questa Terra ha fallito. Sulla Germania brilla una stella rossa, il Comunismo; al 10 di Downing Street ci sono le camicie nere. 
Dietro l'angolo, comunque una guerra mondiale. La seconda, sebbene sia diversissima da quella che conosciamo. Ironia del caso: proprio il doppelganger del famigerato Hitler potrebbe evitare che il conflitto scoppi e faccia innumerevoli danni. Contemporaneamente, “in un altro tempo e luogo”, il prigioniero Shomer sanguina e scrive ad Auschwitz; scava tombe, costruisce maniglie, sogna la Palestina. Sperimenta, tema fondamentale in Wolf, l'infinito viaggiare e i monti impossibili della scrittura. Difficile parlarne con vaghezza. Da una parte, è un noir di rara raffinatezza: le vendette che van servite fredde, le ombre lunghe, i detective che non resistono alle belle donne, il fumo di mille sigarette. Dall'altra, è un fumettone profondamente pulp: rocambolesco, barbaro, futurista. Vietato ai minori. Per lettori con il pallino del politicamente scorretto e con il pelo sullo stomaco. In treno non ho trattenuto i sorrisi – amo l'umorismo, quando è sconveniente – e, qui e lì, le smorfie di puro dolore. E' delirante ma mirato, violento ma poetico. Cita Fritz Lang, il suo Metropolis, e il Tarantino retrò sulle tracce dei nazisti. Un romanzo di fluidi corporei, questo, e sangue copioso, e pulsioni basse, e metaletteratura. Il doppio di Hitler, segugio mondano e popolare, brinda alla salute – e alle disgrazie – dei suoi avversari politici in salotti signorili, in cui si possono incrociare Tolkien, Fleming, estimatori di Fitzgerald e vecchie glorie del muto. Tutt'intorno, sfilano le donne della sua vita e, negli spazi bianchi di un romanzo di spionaggio sui generis, scene di una vita sessuale su cui tanto e spesso si è detto: gatti a nove code, la pratica estrema del pissing, il dolore che porta all'orgasmo. E lui si sbraccia e ringhia, protagonista teatrale, isterico e solidissimo, come nella sequenza clou di La caduta – video che impazza su Facebook, nelle versioni più disparate, e che la Frassinelli ha usato a mo' di innovativo booktrailer. L'iracondo Herr Wolf alza la voce, spruzza fiotti di saliva e fa piazza pulita delle carte che ha sulla scrivania: la sua malvagità è inespressa, solo teorica, e la frustrazione gli gonfia le vene del collo. Nella sua lingua aspra e colorita ti ordina di leggere il primo romanzo pulp sugli orrori dell'Olocausto. Ti riporta le chiacchiere – la madre del Fuhrer avrebbe accarezzato l'idea dell'aborto e, ancora, un passante avrebbe casualmente salvato il piccolo Adolf dall'annegamento – e ti suggerisce di mettere da parte gli “e se?”. In Wolf, tra fatalismo ed eterni ritorni nietzschiani, meditiamo, e realizziamo che la politica si scrive con sangue e inchiostro e che, anche se per vie diverse, quello che deve succedere alla fine succede. Serve l'input, un politicante qualsiasi. Cambiando un singolo tassello, riscriveresti forse da zero la cronaca di un secolo breve?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Falco – Der Kommissar

sabato 23 gennaio 2016

Recensione a basso costo: Te lo dico sottovoce, di Lucrezia Scali

Avrai una vita piena di belle cose, alcune talmente grandi che penserai di non meritarle. Cerca di essere felice ogni giorno della tua vita, e non credere mai che una cattiva notizia possa strapparti di mano quella felicità. Accetta ciò che viene e sorridi, perché sei viva.

Titolo: Te lo dico sottovoce
Autrice: Lucrezia Scali
Editore: Newton Compton
Prezzo: € 9,90
Numero di pagine: 281
Sinossi: Mia ha trent’anni, un passato che preferisce non ricordare e una famiglia da cui cerca di tenersi alla larga. Meglio stare lontano dalle frecciatine della sorella e da una madre invadente che le organizza appuntamenti al buio… Di notte sogna il principe azzurro, ma la mattina si sveglia accanto a Bubu, un meticcio con le orecchie cadenti e il pelo morbido. La sua passione sono gli animali e infatti, oltre a gestire una delle cliniche veterinarie più conosciute di Torino, Mia sta per realizzare un progetto a cui tiene moltissimo: restituire il sorriso ai bambini in ospedale attraverso la pet therapy. Il grande amore romantico, però, non sembra proprio voler arrivare nella sua vita. O almeno, così pensa Mia, prima di conoscere Alberto, un medico affascinante, e Diego, un ragazzo sfuggente che si è appena trasferito a Torino dalla Puglia. Cupido sta finalmente per scagliare la sua freccia: riuscirà a colpire la persona giusta per il cuore di Mia?
                                                La recensione
Sul blog, ho ormai un filone di recensioni che iniziano così: quanto è difficile parlare del romanzo di una persona che conosci? La risposta, scritta e riscritta recensione dopo recensione, è sempre la stessa, e la tengono bene a mente colleghi blogger e autori pubblicati: difficilissimo. Colleghi blogger e autori pubblicati, appunto. E se il collega blogger, d'un tratto passato dall'altra parte, fosse lui stesso l'oggetto del tuo prossimo post? Che ci crediate oppure no, la situazione appare meno stressante del previsto. Noi blogger – grande famiglia – sappiamo. Abbiamo confidenza con i musi lunghi degli scrittori che non prendono al meglio le critiche, gli anonimi commenti di protesta e le occhiate storte. Mi piace credere, e spessissimo è stato così, che chi è (o comunque è stato) parte del mondo in miniatura della critica indipendente, scopertosi finalmente scrittore, si comporterebbe con maggiore leggerezza. Figuriamoci se l'autrice, Lucrezia Scali, è una ragazza con cui scambi messaggi in chat e commenti a fantasia da anni e anni. Facciamo quattro. Lo stress è ridotto al minimo – anche se l'ansia da prestazione di lei sarà doppia, nel frattempo – e, man mano, ti senti libero di aggiornarla su come procede la lettura, su cosa va e su cosa non va. Mamma di Il libro che pulsa, morto e rinato dalle sue ceneri, e di un nuovo sito su misura, Lucrezia è un'amica di penna carinissima, simpatica e solare, con cui condivido innumerevoli titoli in comune sul comodino, i contatti degli uffici stampa – come con le figurine, “questo ce l'ho e questo mi manca” -, un umorismo nero che risulta sconveniente ai più. E lei ha condiviso con me, più di un anno fa, le prime pagine di Te lo dico sottovoce. Mi ha chiesto opinioni sincere sulla copertina originale e, a un mese dalla pubblicazione su Amazon, proprio quando avevo trovato il giusto stato d'animo per conoscere gli amori e le passioni di Mia, mi ha contattato per dirmi di non affrettarmi, di non leggerlo ancora – lei, oltretutto, ne sa qualcosa di allergia al Kindle. Te lo dico sottovoce, di lì a qualche tempo, avrei potuto acquistarlo in libreria: la Newton Compton, che scommette spesso, e per me anche un po' troppo, sugli autori autopubblicati, aveva scommesso proprio su Lucrezia. Per me, la ragazza a cui va a genio il politicamente scorretto e la collezionista compulsiva di Neri Pozza; compagna di Luca e padroncina di Bubu, un cucciolone affettuoso che peserà all'incirca quanto il sottoscritto. 
Sono felice di incrociarla in libreria, quando sono in giro, e il suo successo – oltre al fortunato salto, infatti, anche un posto d'onore sul podio dei romanzi più venduti – mi rende molto orgoglioso. Questo, forse, non lo sa. Sa, però, che il romance non è il mio pane quotidiano e, scherzando, si era detta pronta al massacro. Pur volendo, però, come massacrare un romanzo carino e delicato come il suo Te lo dico sottovoce, che non ha particolari picchi, ma neanche imperdonabili errori? Quelle che sono per me pecche – l'accenno di triangolo amoroso, i protagonisti dal vissuto doloroso, qualche stilema televisivo di troppo – costituiscono, immagino, l'abc dei romanzi sentimentali. Il galante ma noioso chirurgo avrà un non so che del Dottor Stranamore; il misterioso vicino di casa, invece, il distintivo e il fascino meridionale di Calcaterra; le famiglie, ricche ma inospitali, non saranno, sul finale, quel sembrano. Per fortuna, tra Alberto e Diego, pecora nera all'interno di una famiglia altoborghese, c'è Mia. Veterinaria, lavora con i suoi amici a quattro zampe e due litigiosi innamorati – Fiamma e Antonio – in una clinica sulle colline torinesi. Ammucchia pile di libri, si muove nel ricordo dolcissimo dei suoi nonni e in una villetta da ristrutturare, divide la casa con un meticcio che porta tanto buonumore, e tanti peli, tra la camera da letto e la cucina. 
Perennemente indecisa e maestra di pasticci come le eroine degli chick lit di ogni dove, ha però dalla sua la passione per la natura e il sogno di far del bene a chi ne ha bisogno. Mente e cuore di un'iniziativa che porta i cuccioli in corsia, sperimenta su piccoli pazienti i benesseri della pet therapy – risultati garantiti, l'ho sempre pensato – e non pensa granché all'amore. Cupido, come vi ho anticipato, ha in serbo altri piani. Che siano imprevedibili oppure no, ci rilassiamo nell'osservare succedere l'inevitabile; e ci torna il sorriso. La vicenda è scorrevole, il romanzo è ben scritto. La personalità di Lucrezia è in Mia, nei dettagli, nell'ironia che non dà peso eccessivo ai languori. Nota dolente, giusto la parentesi giudiziaria che si apre sul finire: un personaggio che ricopre il ruolo di antagonista, moventi surreali. Quella parte, per me poco coerente con i toni generali, è l'unica che avrei messo sottosopra. Il resto, sono le ingenuità di chi muove i primi passi in un ambiente estraneo e gli immancabili colpi di cuore della narrativa rosa. Lucrezia, dunque, firma un'opera prima in cui si scorgono ampi margini di miglioramento, per il futuro, e in cui la scrittura, attenta e pregnante, saprà darle migliori meriti con storie migliori. Te lo dico sottovoce, trampolino di lancio, lascia ben sperare, ma è nella norma. Il mio commento a caldo è stato: la prossima volta, Lucrezia, voglio un libro che mi faccia dire: disgraziato, hai fatto male a non leggermi l'anno scorso, a rimandare. I romanzi sono desideri (o erano i sogni?) e lei meriterebbe di desiderare qualcosa di più. 
Per Lucrezia, allora, l'augurio vero di sogni più grandi.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Annalisa – Una finestra tra le stelle

giovedì 21 gennaio 2016

I ♥ Telefilm: American Horror Story - Hotel

Smontato il tendone del circo, si riparte a bordo dell'allegro carrozzone. Altra città e altra epoca. Un altro tema, sperando sempre che coinvolga più del precedente. La troupe di American Horror Story – Ryan Murphy, gli attori feticcio e gli immancabili mostri a fantasia – hanno fatto tappa a Los Angeles, nell'autunno del 2015, e si sono lasciati alle spalle i vestiti da clown, qualche nome superfluo e, con grande dispiacere di molti, la straordinaria Jessica Lange. All'apparenza, però, non ci si può lamentare: male non se la passano, no? Dalla vita in viaggio, da passeggeri sinistri di un eterno freak show, il cast ha fatto il check-in al Cortez, nella quinta stagione di una serie che, ogni ottobre, poi si rinnova. E, aggiungo, per fortuna. Nel cuore segreto della Città degli Angeli, sorge un colosso dell'edilizia costruito negli anni ruggenti: l'albergo, progetto di un folle serial killer e della sua immortale consorte, ha ascensori che si aprono su zone d'ombra, l'intonaco a pezzi, stanze infestate da tarme e spettri. Le geometrie precise dell'Overlook, il kitsch di Suspiria, il queer di Rocky Horror Picture Show: stili architettonici – e cinematografici – differenti, cliché a sufficienza, indimenticabili antecedenti. Gli ospiti, lì, hanno vita brevissima. E chi muore tra quelle mura maledette, purtroppo, non può andare via; seguire la luce. Così, in Hotel, ci sono tante camere sfitte in attesa di vittime da poco – due sexy turiste dell'est, una coppia di hipster, la troupe di un film hard, un fascinoso boscaiolo rimorchiato su Grindr -, lunghe storie di vita e dipartita di passanti casuali e storici villeggianti, figure perfino più bizzarre e numerose del solito. Tra tossiche ferme agli anni '90, drag queen, fedeli domestiche e vecchi divi del muto, a governare su spiriti e sottoposti, o almeno in teoria, sono la Contessa e i suoi amanti. In mezzo agli spettri, vampiri in carne ed ossa che non mordono, ma tagliano – hanno infatti coltelli affilati, unghie infallibili - e prosciugano anime. Si muovono a ritmo, misteriosi e impeccabilmente abbigliati come in un Miriam si sveglia a mezzanotte, mentre dall'esterno arriva la notizia di cruenti omicidi rituali. Il detective John Lowe, con un figlio rapito e una moglie infermiera in lacrime, indaga sul killer dei Dieci Comandamenti: alla ricerca della verità, sul crimine e sul dramma della propria famiglia, necessario il soggiorno al Cortez. All'accettazione, la mitica Liz Taylor e la mite Iris. Dietro le quinte, invece, un nuovo proprietario per salvare la struttura dalla crisi economica e il famigerato costruttore, James March, che dall'oltretomba dirige indisturbato i lavori. Con l'addio di una Lange – o è un arrivederci, il suo? - che monopolizzava senz'altro le attenzioni, ci si affidata del tutto alla dimensione corale. Non c'è un vero protagonista, ma neanche un degno capomastro. Senza collante, così, si va spesso e volentieri allo sbaraglio. L'attesa Lady Gaga, con i grandi cambi d'abito e le grandi scene di nudo, i guanti che uccidono e le liaison libertine con uomini e donne, è la performer teatrale, eccentrica e disinibita che tutti noi, fan e non, conoscevamo già. E s'impegna molto, inutile negarlo, ma non stupisce particolarmente – ha uno sguardo vacuo, un ruolo cucito su misura – al suo esordio come attrice, eppure già premiato ai Golden Globes. La Germanotta, comunque, artista in crescita, è il minore dei mali. Non convincono nemmeno un po' le indagini di un inebetito Wes Bentley – e, parlando di lui, neanche il ruolo superfluo di Chloe Sevigny e dei figli eleganti e riccioluti della Contessa – e gli amanti di Gaga, ambigui e prestanti, ammiccanti, si spogliano ma non trovano mai una loro dimensione. Matt Bomer, Cheyenne Jackson e Finn Witrock sono belli, testosteronici e disponibili in qualsivoglia combinazione, ma nello stesso letto stanno stretti: anche se l'orgia insanguinata del pilot, quando c'erano la curiosità e l'entusiasmo dei primi tempi, l'ho amata parecchio. Il banalissimo giallo non si regge, smascherato dopo una manciata di puntate; la Ramona di Angela Bassett, lontano interesse amoroso di Gaga, non ha una collocazione; lo shock legato allo stupro ai danni di un irriconoscibile Max Greenfield, a neanche mezz'ora dall'inizio, è tanto brutale quanto fine a sé stesso. Pollice in su per l'accurato lavoro di trasformismo dei nostri esemplari caratteristi – Mare Winnigham e Sarah Paulson sono impeccabili, Evan Peters eccelle e "gigioneggia" con il suo accento pazzesco – e i pochi, coraggiosi tentativi di variazione sul tema. Intrigano la Notte del diavolo, con serial killer veri o presunti alla tavola di March, e i flashback legati alla lunga vita della Contessa, che ci mostra la Hollywood in bianco e nero dei primi kolossal – buttati lì i riferimenti a Murnau, la comparsa del doppio di Rodolfo Valento -, l'era della musica disco, il domani che verrà. Trattamento finalmente degno, invece, per Kathy Bates e Denis O'Hare: il personaggio di lui, uomo nel corpo sbagliato, con una passione smodata per i lustrini e la bigiotteria e un figlio ritrovato, è spassoso, toccante e, forse, l'unico memorabile. Hotel, al solito, parte bene e prosegue male: ti perde strada facendo. Il troppo storpia. Carnevalesco, semiserio, confuso. Indeciso più che mai sulle strade da imboccare. Gli ultimi episodi sono la classica mattanza gratuita – Murphy si accorge che ci sono troppi figuranti, non ha più posto e, nel dubbio, li sistema in una bara – e il dodicesimo, in una stagione che ha rinunciato al numero dispari della tradizione, riconciliazioni consolatorie, happy ending soprannaturali e crossover. L'ho preferito, però, alle streghe adolescenti del pessimo Coven, ma non all'altettanto imperfetta ma più affiatata famiglia circense. La permanenza non è stata del tutto spiacevole – in assenza della Elsa Mars di turno, guanti bianchi per figuranti d'eccezione -, anche se i vicini redivivi fanno confusione e, a una certa ora, c'è così tanta affluenza alla reception che non vedi l'ora di raccogliere bagagli e burattini e fare il check-in altrove. Godetevi il soggiorno, ma occhio: non mettetevi troppo comodi... (6)

lunedì 18 gennaio 2016

Recensione a basso costo: Le luci nelle case degli altri, di Chiara Gamberale

Vorrei che nei momenti di disperazione non ti venga in mente di invidiare la felicità degli altri, le fortune, i successi, le certezze, i risultati, le luci nelle case degli altri: dappertutto c’è del bene, dappertutto c’è del male.

Titolo: Le luci nelle case degli altri
Autrice: Chiara Gamberale
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 392
Prezzo: € 9,90
Sinossi: Mandorla è la bambina felice di una ragazza madre piena di fantasia. Maria, la mamma, lavora come amministratrice d'immobili e ha lo speciale dono di trasformare ogni riunione condominiale in toccanti sedute di terapia di gruppo... Quando un tristissimo giorno Maria muore cadendo dal motorino, i condomini di via Grotta Perfetta 315, quelli che più le volevano bene, scoprono da una lettera che proprio nel loro stabile la piccola Mandorla è stata concepita... ma su chi sia il padre, la lettera tace. Proprio perché con tutti Maria sapeva instaurare un legame intenso, nessun uomo tra i condomini si sente sollevato agli occhi degli altri dal sospetto di essere il padre di Mandorla. È così che verrà presa la decisione di non fare il test del DNA su Mandorla, e stabiliscono di crescere la bambina tutti assieme. È questo il fatale presupposto di una commedia umana che, con l'alibi del paradosso, in realtà ci chiama in causa tutti. E mentre, di piano in piano, Mandorla cresce, s'innamora, cerca suo padre e se stessa, ci si avventura con lei verso rivelazioni luminose e rivelazioni scomode, si assiste a nuove unioni e a separazioni necessarie. L'autrice costruisce attorno al cuore pulsante della sua protagonista un romanzo corale dove i grandi archetipi si mescolano agli struggimenti contemporanei, la verità e la menzogna cambiano continuamente di segno per dare vita a una voce fresca e profonda, che condurrà, fiduciosa soprattutto dei suoi dubbi, verso un finale sorprendente.
                                              La recensione
Viviamo tutti all'oscuro di qualcosa che ci riguarda. Di solito non ci sto tanto appresso, agli autori superpubblicizzati e ai casi editoriali. Figuriamoci se lo scrittore – scrittrice, in questo caso – attira su di sé attenzioni indesiderate: immancabili le scaramucce, quanto il tuo libro vende e tu sei ospite ricorrente in tivù. Non pensavo, dunque, che Chiara Gamberale potesse piacermi così tanto, e non per partito preso ma perché amo di mio le storie più dure, gli stili ruvidi al tatto, ma il 2014 – possibile, mamma mia, che siano trascorsi già due anni? - aveva smentito alla grande le mie supposizioni. Ci sono cose che, a pelle, non mi convincono. Sono istintivo, testardo, odio cambiare idea. C'era però questa Chiara, contenta per natura e mica così disimpegnata, che mi aveva rimbeccato con un sorriso soddisfatto sulle labbra: vedi che sono in gamba?, te l'avevo detto, io. E Chiara, una di quelle rare autrici a cui mi rivolgo per nome e non per cognome scrivendone, era in gamba sì, e tanto solare. Cosa aveva in comune con me, tipo pensieroso e cupo per forza di cose? Mi ero accorto, tra un libro e l'altro, che facevamo gli stessi stupidi pensieri impossibili. Quando Quattro etti d'amore, grazie prendeva polvere da un po' sul mio comodino, entrambi fantasticavamo sul contenuto dei carrelli della gente in fila alla cassa e pensavamo di trovare tutto quello che cercavamo – ma cosa cercavamo, poi? - sul ripiano più alto dello scaffale. Per dieci minuti, esperimento sociale dal piglio ironico e dal contenuto autobiografico, ci voleva alle prese con cose mai fatte prima; e se sbagliavamo, nessuno se la prendeva granché. In L'amore quando c'era, un racconto da leggere alla fermata del bus, ci convincevamo invece che i rapporti sentimentali, a lungo andare, vadano a male e in Arrivano i pagliacci, forse il mio preferito, vincevamo la timidezza davanti alle storie (e alle stanze) dei nostri eventuali locatori. In Le luci nelle case degli altri, sin dal titolo, tracce miracolose di un giochetto che facevo da bambino. Affacciato al balcone, mi domandavo come vivessero quelli del palazzo di fronte: invidiavo loro l'albero di Natale meglio decorato, l'odore di arrosto quando invece mamma aveva preparato una tristissima minestra. Perfino le loro piccole liti ad alta voce, sapete, mi rassicuravano. Allora, c'era poco da invidiarli; di quelle, avevamo già le nostre in abbondanza. Come quando di un autore leggi il grosso in una volta sola e hai paura che possa venirti a noia, però, la Gamberale non l'ho riletta per un anno intero. Anche se c'era il proposito e anche se questo romanzo qui m'ispirava molto più di altri. Incartato, regalato, l'ho ricevuto in un periodo di festeggiamenti e mal di stomaco, ma ho preferito aspettare gennaio. Sempre a pelle – e, lo ripeto, i pizzichii, i pruriti e le premonizioni della mia epidermide sono un sesto senso che di rado fa cilecca -, mi parlava di nuovi inizi. E dell'infanzia di Mandorla, figlia della portinaia di un condominio di periferia, che si ritrova con una lettera commovente e sgrammaticata tra le mani e lo status di orfana. Un incidente in motorino, mamma Maria che cade ma non sa volare e una notizia bomba che rotola tra i condomini, durante la lettura del testamento: Mandorla è frutto di una notte di passione consumata nell'ex lavatoio, figlia di uno dei presenti. Non si fanno nomi, però, e tanto grande è la paura che quella bomba possa fare danni, rovinare una delle cinque rispettabilisse famiglie, che di comune accordo si decide di allevare la piccola tutti assieme, un po' per ciascuno. Mandorla si racconta in flashback disordinati, adesso che è maggiorenne. In gattabuia per un equivoco e un mezzo crimine d'amore, si domanda se sia giunto il caso di procedere con il test del DNA oppure no. Fare chiarezza e, con all'orizzonte una nottata che non vuole passare, lasciarsi andare a pronostici, desideri, ricordi favolosi. Chi vorrebbe, in cuor suo, fosse il padre biologico? Nel mio caso, curiosità e entusiasmo hanno seguito l'andamento di un'altalena nel vento. 
Non amo i racconti, si sa, e Le luci nelle case degli altri, anche se compatto e scritto d'un fiato, ha la vaga struttura di una raccolta di novelle. Tina, maestra di scuola in pensione e zitella per sempre, ha il citofono che suona ogni due per tre, un'esistenza triste e un salotto che si anima per le visite di misteriosi ospiti notturni; Samuele e Caterina Grò, lui aspirante regista d'avanguardia e lei avvocato di grido, hanno in mezzo a loro un neonato che piange e l'ombra di una scappatella imperdonabile; Paolo e Michelangelo, coppia omosessuale e emblema di una nuova normalità, erano in grande intimità con la portinaia scomparsa: quanto?; Lorenzo e Lidia, lo scrittore e la speaker radiofonica, sanno che l'amore non è bello se non è litigarello; l'ingegnere Barilla e consorte, genitori della ribelle Giulia e del bel Matteo, sono l'immagine sputata dell'equilibrio e fonte di dubbi amletici. Mandorla ama Matteo, ma Matteo ama Mandorla? E se dovessero scoprirsi fratellastri, sai che tragedia! Alcune vincende inevitabilmente fanno breccia – quella della disperata signorina Polidoro, ad esempio, o dell'incompreso Samuele, a cui Hollywood ha rubato lo spunto per Pretty Woman – e altre si tollerano appena – al quarto piano, si chiacchiera un filino troppo per i miei gusti. Tipici rischi dei romanzi affollati, dei cori, in cui può esserci un figurante che non ti appare utile o, nell'armonia, una voce che non si amalgama al resto. Le luci nelle case degli altri si apre con una piccola illustrazione – a pagina uno, proprio un abbozzo di Via Grotta Perfetta 315 – e capitoli rapidissimi che riassumono lo sfortunato incidente dell'amichevole Maria, l'arrivo della notizia nel condominio, i telefoni che squillano a catena e il piano bizzarro di partecipare collettivamente all'educazione della piccola. 
Mandorla ha così svariate famiglie ma nessun parente di sangue, una sensibilità unica nel suo genere e qualche problema a socializzare con i suoi coetanei: per non scontentare i suoi cinque papà e le sue cinque mamme – a lungo, però, penserà di essere figlia di un astronauta in missione sulla luna – ha messo su un guardaroba variopinto, una maschera di ingenuità, abitudini stranissime. Il romanzo più noto di Chiara è una commedia onirica e dal gusto parigino, dalla struttura perfettamente suddivisa e dallo stile farsesco, confidenziale, singolare. Ha il fare trasognato di Amèlie Poulain, la sua testra tra le nuvole, e un non so che di L'eleganza del riccio. A volte è un flusso di coscienza spruzzato di giallo, altre un'osservazione candida e arguta sui rapporti interpersonali e le imprevedibili coincidenze della vita. E sempre, alla fine dei capitoli, c'è ad attenderci una filastrocca di Mandorla; un'invocazione profana che ha lo stesso spirito della lettera tenerissima firmata da sua madre, all'indomani del parto. Mandorla è nata settimina, ecco perché già il nome la descrive come piccola e indifesa, e dinanzi a talune situazioni non sa come reagire. Desiderarsi, quindi, una tendina, uno striscione del gay pride, un comune libro di algebra... Un oggetto d'arredo qualsiasi per sentirsi parte, e per davvero, questa volta, di una casa con tutti i sacri crismi. Vestita di mille colori e mille tessuti, come uno spaventapasseri, la narratice si rivolge nelle sue preghiere della buonanotte a oggetti inanimati, ha paura di un famigerato spacciatore che un tempo si dice bighellonasse per il quartiere e, come una spugna, assorbe il necessario dagli adulti che, a periodi alterni, le danno il benvenuto sull'uscio di casa. Senza pregiudizi, Mandorla prende da loro il meglio - e, vuoi o non vuoi, il peggio. Se l'erba del vicino è sempre più verde, saranno forse sempre più luminose e avvolgenti le luci nelle case degli altri? Esistono i buoni, i cattivi, i talismani e, soprattutto, le famiglie come nella pubblicità del Mulino Bianco? Cinque piani senza ascensore, cinque storie. E la loro carissima Mandorla, che poi è anche un po' nostra, come costante e posto aggiunto a tavola. 
Il mio voto: ★★★½ 
Il mio consiglio musicale: Abba – Mamma Mia

sabato 16 gennaio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Revenant, Creed, Dio esiste e vive a Bruxelles

Oscar 2016
12 candidature 
Il Nuovo Mondo è una terra per combattenti, un'arena ghiacciata e impervia per soli uomini. Vi si muove in sincronia, passando attraverso boschi intricati, fiumi gelidi e lande deserte, un gruppo di esploratori britannici. A ogni passo, c'è la paura di un agguato: i nativi, che reclamano il loro territorio messo a ferro e fuoco dai colonizzatori; i rivali francesi, sempre in competizione; i compagni d'avventura, perfino, se sei stato ferito nel corpo e nell'anima e abbandonato lì fuori, tra infinite insidie, perché i furbi scappano a gambe levate e gli onesti, che annaspano nel loro stesso sangue, restano fermi. Questo il destino di Hugh Glass, che ha fatto bene a fidarsi degli indigeni – da una di loro ha avuto un figlio, Hawk – e male, invece, a fare affidamento sull'avaro Fitzgerald: straziato da un orso bruno, viene lasciato all'addiaccio, solo, sebbene abbia ancora un po' di fiato in corpo. Non abbastanza, comunque, per denunciare un delitto che lo tocca da vicino e gridare giustizia. Revenant, lunga epopea americana, è una storia di morte e rinascite, contro le bestie selvagge, la pochezza dei nostri simili e un inverno rigido, che non perdona. E non perdona il protagonista, che arranca e si arrangia, lotta e cerca casa, mosso da istinti basici e necessari: vita e vendetta. L'ultima fatica di Alejandro Gonzàlez Inàrritu, reduce dai fasti – da me non condivisi – di Birdman, è una novella Odissea. Un estenuante viaggio omerico, che va ad inserirsi in quel filone cinematografico che ha i suoi esempi celebri in Balla coi lupi e L'ultimo dei Mohicani. La violenza che macchia il candore di un rosso arterioso – e non c'è confine a separare l'amico dal nemico, il buono dal cattivo – e tutte le sfide atroci dei survival di ogni dove. L'uomo in guerra contro i quattro elementi e che, creatura a sangue freddo, si adatta: nella scena più forte, ad esempio, DiCaprio smembra un cavallo e usa il corpo dell'animale a mo' di coperta termica. Ma per tutto il tempo, nel film che tutti acclamavano ancora prima di assistere alle proiezioni ufficiali, c'è un fastidioso senso di già visto – anche se nessuno, finora, aveva fatto bene come il messicano che ogni cinefilo doc porta sul palmo della mano. Revenant ha una regia straordinaria e un lato tecnico che sconvolge per la potenza e la solerzia. La fotografia, per descrivere la quale ci vuole proprio quel “mozzafiato” che la mia prof delle superiori consigliava di evitare, mostra una pellicola dalla realizzazione travagliata – leggevo che Inàrritu e il suo cast hanno lavorato in situazioni impossibili, solo con l'ausilio della luce naturale – e di indicibile cura. DiCaprio, ormai osannato a priori per consolarlo dai dispetti dell'Academy, regala una sentita prova fisica: bravo come lo è stato anche in lavori passati, dunque poco sorprendente. Questa volta, trionferà il suo lavoro di introspezione – ha poche battute e il ruolo dell'eroe tutto d'un pezzo –, anziché il mimetismo altrui? Con lui, messi a dura prova dai climi pungenti ma agevolati dalle indicazioni dell'onnipresente Alejandro, il giovane Will Poulter, con i lineamenti così comici e un'intensità finora sconosciuta; Domhnall Gleeson, che ho bollato come promettende da un po'; uno spregevole Tom Hardy che, fuoriclasse che non è altro, ruba la scena al protagonista moribondo. Però le due ore e trenta di visione, tante sì, ma non pesano particolarmente, sono state in poltrona tutte un continuo: questo mi ricorda Il gladiatore – i flashback ovattati in cui Glass ripensa alla moglie -, quello Robinson Crusoe – non manca, infatti, il provvidenziale savage savant. Questo Cold Mountain – il ritorno e i presagi di sciagura -, quello Gangs of New York – il sanguinoso conflitto conclusivo. E se ricorda un po' questo e un po' quello, vorrà dire che Revenant, impeccabile nella resa, fin troppo antiquato e freddo nell'ideazione, si scorderà in fretta? O, banalmente, farà lo scalpo ai rivali? Come lo scorso film premio Oscar di Steve McQueen, che dava tante di quelle scudisciate eppure non lasciava il segno, lì per lì mi ha soddisfatto, ma sospetto che non stenterò, tra dodici mesi, a trovargli un più valido rimpiazzo. Un'americanata con tutte le concessioni del caso - quante sofferenze per il povero Leo, e altrettante inspiegabili, colossali botte di fortuna - con una direzione artistica che fa la differenza. (7+)

Oscar 2016
migliore attore non protagonista
Gli Stati Uniti sfidavano la Russia, in Rocky IV. Questione politica, poi sportiva. I russi erano alti, biondi, spietati. Gli americani, invece, benché ci fossero sembrati guerrieri nei film precedenti, erano in schiacciante svantaggio. Nel round conclusivo, Rocky non si era fatto però buttare al tappeto; vani i “ti spiezzo in due” dell'avversario. Ma quello precedente, di round, aveva riservato ai protagonisti di una saga che unisce generazioni lontane una sconfitta e un lutto. Apollo Creed, con i suoi famosi pantaloncini a stelle e strisce, era morto sotto i pugni del nemico straniero. Zio Sam era stato messo KO. C'era stata, puntuale, la rivalsa. Perché quello, essenzialmente, predicava Rocky: cadere e rialzarsi, sfidare tutti i pronostici. E li ha sfidati Silvester Stallone, settant'anni a luglio, agli scorsi Golden Globes: il meritato premio al miglior attore protagonista, mentre gli snob non se ne capacitavano e la concorrenza si sfregava le mani, per la partecipazione a Creed. Storia di un figlio nato fuori dal matrimonio, con il pugilato nel sangue, che segue le orme di quel padre che non ha mai conosciuto. Un'operazione commerciale come tante, immaginavo, prima di trovare il buon Silvester anche in lizza per i prossimi Oscar. Ci avevano già provato dieci anni fa, con un sequel tanto nostalgico quanto spento, con un protagonista vedovo e amareggiato, un ristorante da mandare avanti, un'ultima sfida in cui sotto sotto non credeva lui per primo. Non aveva più l'età. Stallone, così, cede sceneggiatura e macchina da presa a Ryan Coogler, acclamato per Fruitvale Station, e abbandona gli scontri corpo a corpo per spiegare i trucchi del mestiere, ormai saggio e stanco, a uno di famiglia. “Zio”, lo definisce Adonis Creed, incurante che la loro pelle non sia dello stesso colore e che sia prematuro raccogliere la sua eredità. L'eppure convincente Michael B. Jordan, infatti, ha un personaggio acerbo, a cui manca tutto quello che Rocky, ancora prima di diventare ufficialmente mentore, aveva insegnato ai suoi spettatori. Gli abbiamo voluto bene perché era umano, improbabile e un po' tonto, forse per tutte quelle botte in testa o forse no. E io ci sono legato, pur non amando il genere, perché incarna il senso delle seconde opportunità in cui credo fermamente. Adonis, figlio d'arte, ha il gioco facile: un fisico statuario, un cognome che gli apre tante porte e, tra il pubblico, una fidanzata musicista e un coach leggendario. Non è un ragazzo di strada, nonostante un'infanzia in riformatorio. E non si sviluppa una reale empatia nei suoi confronti, con una presunta vittoria che nessuno mette in dubbio e una situazione sentimentale – la vicina di casa di cui s'innamora è destinata a perdere l'udito – che non sfiora. Gli si preferisce senz'altro il granitico Jake Gyllenhaal, pugile mancino in Southpaw, che mi aveva commosso con il vuoto lasciato dalla sua personale Adriana, una bambina di cui riconquistare la fiducia, le magie delle fenici che rinascono. Così dicendo, non negherò però che Creed emoziona e coinvolge, tra strizzate d'occhio, citazioni e immancabili tappe nei luoghi simbolo della serie originale. Se convince, è solo per la partecipazione straordinaria di questo inimitabile italoamericano che qui intristisce e sorprende, perché anziano, infermo, abbandonato a se stesso. Le visite alla tomba di Adriana, le immagini di repertorio, il lasciapassare per gli omaggi più sentiti – ed ecco Jordan in tuta grigia che cattura galline per allenare i riflessi o che, nella corsa per la vittoria, coinvolge un corteo di motociclisti e sostenitori. I gradini scalati in passato, ancora, che sembrano impraticabili; una scalata. Ma, per tutto il tempo, chi aiuta chi? La classica umanità di Stallone, al giro di boa con il suo personaggio cult, amico immaginario suo e nostro, vince a mani basse contro i muscoli del nuovo protagonista e l'idea di un fatale lascito. Stallone è spalla, su carta, ma in realtà è linfa vitale dell'intero progetto. Che funziona alla perfezione come capitolo complementare, meno come reboot. Provano a limitarlo, a fargli fare la parte del grillo parlante, ma Rocky – nella fragilità, nelle ossa che cigolano, nella ricerca di futuri eredi al titolo – non si lascia mettere in un angolo. L'allievo, al contrario, non ha gli occhi della tigre. (6,5)

Golden Globes 2016
miglior film straniero 
Nell'attico di un grigio condominio, in un grigio Belgio, vivono una madre remissiva, un padre padrone e un'adolescente ribelle. Del figlio maggiore, un hippy, è vietato chiedere. La testarda Ea non potrebbe sbirciare nell'ufficio disordinato del normativo genitore, mettere il naso fuori. La segreta via di fuga in un tunnel al di là della lavatrice, elettrodomestico profondo tanto quanto la tana del Bianconiglio, e un atto di estrema disubbidienza – rivelare agli uomini la loro data di morte – la porteranno nel mondo e a intavolare una discussione a muso duro con papà, l'Onnipotente. Noi crediamo in Lui – o, almeno, c'è chi ci crede –, ma lui crede in noi? La nuova commedia del regista dello splendido Mr. Nobody siede alla destra del Padre e nella prestigiosa cinquina dei migliori film stranieri ai Golden Globes e, dopo il capolavoro Alabama Monroe, mostra un Belgio diverso senz'altro, leggero, ma a suo modo in ghingheri. E Bruxelles, base prescelta dal divino Benoit Poelvoorde, io la immaginavo – insieme alla fuggitiva Ea - meno cupa, più soleggiata; sarà davvero il posto giusto per cercare l'ispirazione per un nuovo Nuovo Testamento e completare la squadra degli apostoli? All'appello, ne mancano sei, e sono tipi infelici, fuori posto, vinti. Scrive le loro storie un profeta clochard e a leggercele, all'alba della fine del mondo, è la gemella di Amèlie Poulain, bambina dalla voce schietta e dirompente. Una “piccola principessa” che, mentre i più imparano a morire, imparerà a vivere, pianificando amori e realizzando sogni nel cassetto. Dio esiste e vive a Bruxelles è un apologo blasfemo, dissacrante, da lacrime agli occhi, che fa riflettere e indispettire. Poi stare bene. Ritocchi a fantasia al dipinto dell'Ultima Cena, qui affollatissima, che non farebbero storcere il naso né al ricordo di Leonardo, né al credente più osservante: la scrittura è brillante, l'immagine è surreale e c'è innegabile poesia nel provocare. Perché in ogni persona risuona una melodia segreta e la protagonista procede con gli abbinamenti, con le "corrispondenze di amorosi sensi", e alla regia l'irresistibile canaglia Van Dormel fa altrettanto. Dio è morto, cantava qualcuno. O, come dico spesso, dorme e si è voltato dall'altra parte. Il regista belga aggiunge, di suo, che le troppe birre, le giornate inoperose e lo sport, in tivù, conciliano la sacra pennichella post Creazione. E che, soprattutto, il Grande Capo avrebbe bisogno di un vice; magari di un centrino ricamato qui e lì, di un tocco femminile. Ogni tanto le stuatue piangono; sui Cristi in croce appaiono espressioni di sofferenza. Qual è il prodigio? Il miracolo che manca, come diceva Troisi, sarebbe piuttosto questo, vedere una Madonna che ride. (7)

mercoledì 13 gennaio 2016

I ♥ Telefilm: Ash vs Evil Dead, Mozart in the Jungle II, And Then There Were None - Dieci Piccoli Indiani

Ash Vs Evil Dead
Stagione I
La gente, quando mi scopre cresciuto a pane e horror anni ottanta, ne è meravigliata. Non si direbbe, mi assicurano, data la mia inconsueta apertura verso generi cinematografici ben diversi – ad esempio, potete star sicuri che la romcom parlatissima, con lui che incontra lei in tutte le combinazioni e le città d'arte possibili, qui avrà sempre un posto speciale – e strano, aggiungono, che più attirato dal sangue che dai cartoni animati sin da bambino, non sia poi diventato un serial killer di fama mondiale. E qui sghignazzano e fanno l'occhiolino. Scherzando scherzando, io rispondo che per quello c'è sempre tempo. Allora, silenzi di tomba. Questo per dire che, tra i miei registi cult, a sorpresa ma non troppo, c'è un certo Sam Raimi. Autore, insieme ai fratelli, di Xena e Hercules, che allietavano i miei pomeriggi su Italia Uno; del solo esempio di cinecomic che mi è rimasto nel cuore, con l'insuperabile trilogia di Spiderman; di horror a basso budget – da non sottovalutare, per me, neanche il divertentissimo e recente Drag Me To Hell – visti con papà quando non avevo l'età. Ash Williams, in particolare nel medievaleggiante L'armata delle tenebre, era il mio eroe, vestito di cotta e maglia e umorismo a non finire. La trilogia partita con Evil Dead – una manciata di ragazzi in una baita nei boschi, forze maligne, il trionfo dello splatter – era finita però prima che io nascessi, nel 1992. E, senz'altro perché vi avevo assistitito in differita, l'idea del remake al femminile di Fede Alvarez, nudo e crudo, mi aveva dato diverse soddisfazioni. Da allora, più o meno, aspetto la reunion. Annunciata, desiderata, attesissima in famiglia. Più di vent'anni dopo, il simpatico Bruce Campbell – legato indissolubilmente a quel ruolo e a quel regista – torna a indossare, con ironia e una specie di strana commozione, una motosega a mo' di guanto e a sfogliare il temibile Necronomicon. Va verso i sessanta, ormai, ma la mano di legno e i racconti sensazionali lo aiutano a rimorchiare nei bar. Finché, sbronzo e piacione, si fa il bello agli occhi della sua ultima amante leggendo i passi di quel libro scritto con il sangue, sulla pelle di un uomo scuoiato. E risveglia così il Male. I demoni e l'oscurità, insieme allo spettatore, lo trovano invecchiato, impreparato, ma sempre sul pezzo. Lavora come commesso in un negozio di elettronica in stile Chuck Bartowski, vive in una roulotte sgangherata, ha la dentiera e il busto ortopedico. Non perde però il tocco. Ha una poliziotta che segue le sue tracce, un'alleata – o è forse una nemica? - con il volto di una Lucy Lawless affascinantissima e due pivelli come aiutanti: Ray Santiago, messicano e imparentato con un brujo, e Dana DeLorenzo, bella e capriciosa. Lui, inutile dirlo, è perdutamente cotto di lei. Morti e battute ad effetto, effetti speciali artigianali, dieci episodi – pochi e brevi, purtroppo – per le dieci tappe di uno spassaso viaggio on the road, che grandi e piccoli bramavano. Raimi produce, e qualche volta dirige, un rinfrescante bagno di sangue e un caloroso ritorno a casa. Anzi, nella Casa. (7,5)

Mozart in the Jungle
Stagione II
Il pubblico, elegantissimo, prende posto a sedere. L'invito al silenzio e, dal palcoscenico, i primi arpeggi. Si apre il sipario e un uomo di spalle, piccino ma energico, spinge la sua orchestra a grandi trionfi. L'applauso, un altro. Dopo l'ingresso del maestro Rodrigo alla Filarmonica di New York, le cose vanno meglio per tutti, o quasi. Lo scorso anno, in una serie rivelazione targata Amazon, nonché preziosa presenta ai Golden Globes di questo stesso 2016, un direttore dal sangue caliente e dai metodi poco ortossi accoglieva a braccia aperte l'avvento della novità. In tanti storcevano il naso, davanti ai suoi capelli indomabili, al passato turbolento, alle prove per strada. Ma quanto ci erano piaciuti, in realtà, gli spettri in costume, il glamour della City, il suono di una leggerezza mai tanto di classe? Quanto attendevamo un altro ciclo di episodi, per sapere se il bacio tra Rodrigo e l'allieva Lola Kirke avrebbe avuto ripercussioni e se la Filarmonica, gravemente indebitata, ce l'avrebbe fatta a risollevarsi? Mozart in The Jungle ritorna, tra dicembre e gennaio, con un seguito all'altezza del non lontano inizio e piccoli dubbi che, però, si rinnovano nel sottoscritto. Perché la serie, benedetta da Chris Weitz e dai compagni di merenda di Sofia Coppola, non si sa quando cominci né quando finisca. Mi spiego. Grandi attori e colonna sonora immensa, ma come una povertà di temi, di stagione in stagione. Cos'è successo nella prima, dopo l'arrivo di Rodrigo? Cosa succede nella seconda, dopo il tour in America Latina? Poco, pochissimo. Gloria, magnifica settantenne, scopre di possedere notevoli doti canore – ma trattandosi di Bernadette Peters, leggenda del musical, è poco lo stupore – e di avere ancora l'età per concedersi un amore o due; l'oboista Hailey, con il fidanzato ballerino impegnato in un reality show, ripensa alle attenzioni del suo Maestro; Cynthia, sexy violoncellista, asseconda le avance di un'avvocatessa che in tribunale però non fa faville; Thomas, ed è impossibile a questo punto non nominare il granitico Malcolm McDowell, lavora alla sinfonia di una vita e seppellisce nel frattempo l'ultima moglie. E cosa capita invece a Rodrigo, in cerca dell'assistente perfetto e, per un arco di episodi, affetto da un fastidioso disturbo uditivo? Sarà come Mozart, eterno enfant terrible, o cagionevole come Beethoven? L'eleganza e l'ordine dello skyline newyorkese, per un po', cedono il posto a una tournée sui mari del sud. Al calore e al colore del Messico. Il buon cibo, le maledizioni, la lettura dei fondi di caffè. Gli amori predetti dalle nonne sagge. Esilarante e ricercato, leggero ma a volte impalpabile, Mozart in the jungle è un passatempo colto e rilassante, per melomani e non solo, a cui questa volta manca maggiore consistenza e la sua città di appartenza. Ma è tanto ben confezionato, tanto sovversivo, che davanti a un Gael Garcia Bernal posseduto dal ritmo – vedeste quanto è coinvolgente e naturale, mentre si dimena e tiene il tempo – è impossibile trovare riparo dall'ispirazione e dall'allegria. Contagiano. (7)

And Then There Were None
miniserie televisiva
Fulmini e saette, un'isola privata tagliata fuori dal mondo, una chiave maestra. Una pistola e, a un tavolo, sconosciuti invitati allo stesso evento: ospiti in una casa labirintica, i cui padroni – stranamente assenti – hanno lasciato il comando ai due domestici, marito e moglie. Tra i piatti fumanti e le posate, al centro, dieci strane statuine d'avorio, che rappresentano ognuno di loro. Dieci vittime – e dieci colpevoli, perché tutti hanno la coscienza sporca – e un assassino che agisce inosservato. Una dopo l'altra, le statuine scompaiono; uno dopo l'altro, gli ospiti muoiono, seguendo l'ordine espresso in una inquietante filastrocca per bambini. I superstiti, sospettosi e pietrificati, vivono sul chi va là. L'indice puntato verso il compagno, il dubbio persistente. In quella villa sferzata dal vento e dalle acque, nessuno entra e nessuno esce: il male è tra loro, l'inferno è in terra. And Then There Were None – per noialtri, Dieci Piccoli Indiani – è il titolo che, a un passo dall'anno nuovo, sotto le feste, si è presentato alla mia porta, con la sua aria inglese al solito impeccabile, il taglio cinematografico, un intreccio di cui non si è mai stanchi a sufficienza. La BBC, in tre puntate, propone la trasposizione del romanzo più celebre della regina del brivido, Agatha Christie, e sorprende in maniera impensata. E da quando sbagliano, questi inglesi, chiederete? Invece, davanti a riproposizioni edulcorate e alquanto mediocri – su tutte, l'ultimo Lady Chatterley's Lover -, lo scorso anno le mie convinzioni hanno vacillato. In prodotti belli ma senz'anima, registi e autori che procedevano con il pilota automatico, tanto savoir faire fine a sé stesso, la dizione troppo perfetta dei britannici – e degli automi doc. And Then There Were None, invece, ha un apparato tecnico di tutto rispetto – fotografia cristallina, scenari da sogno (ebbene sì, io faccio strani sogni), un montaggio sonoro che regala sussulti – e personaggi al di sopra di ogni sospetto che, nei flashback, vengono cesellati gradualmente. In tre ore scarse, forma e contenuto hanno lo stesso peso. Il cast, pieno di giovani promettenti e vecchie volpi, è dei migliori. Il bellimbusto viziato di Douglas Booth, il mercenario dell'aitante Aidan Turner, la tata impenetrabile della rivelazione australiana Maeve Dermody. Tra gli altri, il giudice Charles Dance, la crudele precettrice Miranda Richardson, l'eroe di guerra Sam Neil. Tutti bravissimi e tutti in pericolo, in una storia vista e rivista – purtroppo, a ventun anni, non ho mai letto il romanzo; una delle mie tante, imperdonabili mancanze – il cui finale, culmine di una orchestrazione senza stonature, sorprende anche oggi. Un autentico gioiello di eleganza e scaltrezza. Era il trenta dicembre, per essere precisi. Tardi, ormai, per le aggiunte dell'ultimo minuto al famoso listone. Non abbastanza, comunque, per godersi un altro regalo del piccolo schermo. (8)