mercoledì 30 marzo 2016

I ♥ Telefilm: Daredevil II | Younger II

Io odio i supereroi. O, più correttamente, dovrei dire che li odiavo? Li odiavo un po' meno già qualche settimana fa, con il nostro Lo chiamavano Jeeg Robot in sala, e la conversione è stata definitiva e fatale, pare, con la seconda stagione di Daredevil. Non che lo scorso anno, contro ogni pronostico, il paladino di Hell's Kitchen non mi avesse fatto suo del tutto, imponendosi sul podio di 365 giorni di attento zapping. Erano forse un caso i dialoghi densi, le performance di un cast  amalgamato, l'uso modico della a me ostile computer grafica e i corpo a corpo ripresi in piano sequenza? Domanda retorica con risposta negativa, la mia, però io sono come San Tommaso. Sapete già. Preferisco tenermi il dubbio e, appena posso, ci metto il naso, il dito e tutto l'impegno del mondo, per guardare tredici episodi in due giorni e qualcosa. Perché alte aspettative generano cocenti delusioni, la stampa estera non ne scriveva con toni accalorati e il pericolo pasticcio toglieva a me il sonno e agli sceneggiatori, tra i più valenti, l'equilibrio conquistato. Di questi tempi, è affollata la Grande Mela. Con il caldo insostenibile delle estati newyorkesi, la frutta va a male – tenendomi ben stretta la metafora -, il crimine prolifera e sui tetti, all'ombra dello skyline, Daredevil, suo malgrado, recluta aspiranti apprendisti e violenti antieroi. Avevamo conosciuto Matt Murdock, cieco dall'infanzia, e i suoi collaboratori, il simpatico Foggy e la curiosa Karen, con un galante tiranno ad aizzare contro di loro il male e le sue propaggini. Con Kingpin - magnifica nemesi - in galera, qualcuno si preoccupava e qualcuno meno. Personalmente, ero tra coloro che si domandavano quanto avrebbe perso la serie senza il suo fiore all'occhiello. Altri bramavano la novità: nuove gatte da pelare e, magari, una dose di ritmo aggiunta. In realtà, non atteso, farà anche qui una significativa comparsa delle sue – no, l'arancione dei galeotti non lo sfina –, ma al suo tanto parlare si contrapporranno le sparatorie di The Punisher e i seducenti raggiri di Elektra. Più azione, ma non troppa da lasciarmi un passo indietro. Ombre sull'idillio tra Murdock e Nelson e scottanti dilemmi sul fronte sentimentale: Karen Page, sveglia e bellissima solo come Deborah Ann Woll sa, non vuole essere solo un'amica né una semplice segretaria, proprio mentre dal passato di Matt torna una fiamma che non si è estinta. Seduta in salotto, spregiudicata e con l'accento “posh” delle classi alte, una Elektra con le fattezze della francese Elodie Yung: l'indiscreto fascino di una sociopatica che conosce tutti i punti deboli, perfino quelli per fare breccia in un cuore. Non bisogna mettersi comodi, però, con Frank Castle in libertà: il braccio violento della legge ha una tragedia familiare che conosciamo a fondo e le medaglie di una missione in Afghanistan. In un granitico Jon Bernthal, però, trova l'umanità, il timore e le smorfie di un De Niro “toro scatenato." I toni e le suggestioni sono senza fine: un legal thriller, con The Punisher sul banco degli imputati e un vigilante in borghese a difendere la sua innocenza; le missioni quasi bondiane, con una femme fatale doppiogiochista che ci trascina a party che richiedono il papillon e l'abito da sera; le risse e il sangue a fiumi di un dramma carcerario alla Cella 211. Infine, una spruzzata del paranormal che non ti aspetti. Ricordate Spider-Man 3, inconsapevole di quanto il troppo stroppiasse, che pastrocchio fosse? Un po', temevo quello. Il ritorno di un Daredevil pragmatico, adulto e dinamico non smentisce però attese e buoni propositi e, anche se è presto per tirare le somme, si conferma una spanna superiore a tutto quello che in tre, quattro mesi abbiamo visto in tivù. Merito di un marchio che miete consensi su consensi e che, in equilibrio perfetto, pensa personaggi e situazioni davanti ai quali non sapresti cosa scegliere, nell'evenienza che qualcuno ti domandasse: ma tu, di questa stagione affollata, chi hai preferito? E merito, in parte, di un Charlie Cox perfetto, con gli occhi buoni e il fisico scolpito, raro mix, che inciampa contro i pugni degli avversari e lungo la strada che porta a un bivio cruciale: il suo amore di gioventù lo esorta ad affacciarsi sul lato oscuro, il suo furente alter-ego gli instilla il dubbio che tra la loro natura non ci sia poi differenza. Predicherà bene e razzolerà male, e quel famoso bivio susciterà nell'eroe che sanguina e piange, prega e osteggia la violenza, una riflessione a confine tra l'etica e la morale: è giusto uccidere, e quando? Occhio per occhio, e il mondo divenne cieco. Al buio, ascoltiamone il respiro, il battito del cuore. Badiamo allo sguainare delle spade. E se i parametri vitali mancassero, nel momento in cui la giustizia – e l'umanità – sembrerebbe perduta e il dato tratto, preparati a parare colpi proibiti. Li ricambierai: sì o no? (8)

Di solito, dalle mie parti, comedy come questa hanno vita breve: il tempo del pilot e via nel dimenticatoio. Ma Younger, innocua e freschissima, lo scorso anno è stata più fortunata di serie a essa simili. Con New York, gli ambienti patinati, le svolte così paradossali da divertire a colpo sicuro. Anche quest'anno, in primavera, è tornata a farmi compagnia. Anche quest'anno non ha grossi meriti o grosse pecche – è cambiata poco, il che non è un male – e se la cava con un sei e mezzo e un arrivederci all'anno venturo o, se non altro, a quando avrò bisogno di sciogliere quel famoso nodo tra cuore e stomaco. Il titolo, tradotto alla lettera, dice tutto: il dramma di Liza è quello di non essere giovane abbastanza. Occasioni lavorative che scarseggiano, i giovani che con le milf non vogliono una storia importante, gli Stati Uniti che non sono un Paese per vecchi. Una bugia a fin di bene per sistemarsi perciò: Liza ha ottimi geni, un fisico snello, buone referenze. Fingersi ventiseienni è un attimo. Quindici anni in meno le assicurano il lavoro e il ragazzo che sognava, un appartamento a Brooklyn e più di qualche grattacapo. L'avevamo lasciata con lei che rivelava al toy boy la sua verità e con una specie di lieto fine: amor – e trucco abbandonate – omnia vincit. Il creatore di Sex & The City e 90210 ci dice, però, che nella vita della sua protagonista c'è ancora qualcosa da sistemare. Kelsey, una rediviva Hilary Duff, sta per sposarsi. La figlia, ribelle e in Erasmus, è tornata all'ovile: come presentarle Josh, quel fidanzato che ha praticamente la sua stessa età? E dove collocarlo, Josh, in un triangolo che coinvolge un ex marito tornato con la coda tra le gambe e un maturo direttore editoriale? Le domande di Liza fanno sorridere, al solito, e al solito Younger ci propone l'happy ending, amicizia e amori al tempo dei Social e uno sfondo stimolante. In casa editrice, infatti, ci sono nuovi titoli da lanciare – e tutti strizzano l'occhio a quello che effettivamente troviamo sugli scaffali: gli erotici da strapazzo, i memoriali della star di Instagram, le saghe in cui gli autori – onnipotenti, barbuti, erotomani – fanno fuori tutti i personaggi possibili. Qualche serie come Younger, ogni tanto, ci sta: sì. Un riempitivo quando non si ha a disposizione qualcosa di meglio, lo scacciapensieri tra un impegno e l'altro, la comedy che passa e va, e tu non la senti. Vola, con i suoi venti minuti canonici, i toni soft, le situazioni mondane in cui tutti sono forse un po' troppo belli ma, stranamente, ti risultano simpatici lo stesso. Quante serie come Younger ci sono però? Né brutte né belle, carine, che ogni anno ti promettono – chi più e chi meno – lo stesso pacchetto, ora con accessori inclusi e ora esclusi nel prezzo? Tante, e qual è il trucco nello sceglierne una? In realtà, il trucco non c'è. Ti capita davanti e non la molli, per abitutine, inerzia o quel che vi pare. Per i libri e la città che non dorme. (6,5)

lunedì 28 marzo 2016

Recensione: Sei come sei, di Melania G. Mazzucco

Ma io non ci credo che tutto è scritto alla nascita, altrimenti la vita non avrebbe significato. I figli non appartengono a chi li mette al mondo, non sono l'appendice dei genitori. E se uno non può scegliersi i genitori, può scegliersi i maestri

Titolo: Sei come sei
Autrice: Melania G. Mazzucco
Editore: Einaudi – Stile Libero
Numero di pagine: 235
Prezzo: € 12,00
Sinossi: Sul treno per Roma c'è una ragazzina. Sola e in fuga, dopo un violento litigio con i compagni di classe. Fiera e orgogliosa, Eva legge tanti libri e ha il dono di saper raccontare storie: ha appena undici anni, ma già conosce il dolore e l'abbandono. Giose è stato una meteora della musica punk-rock degli anni Ottanta, poi si è innamorato di Christian, giovane professore di latino: Eva è la loro figlia. Padre esuberante e affettuoso, ha rinunciato a cantare per starle accanto, ma la morte improvvisa di Christian ha mandato in frantumi la loro famiglia. Giose non è stato ritenuto un tutore adeguato, e si è rintanato in un casale sugli Appennini. Eva è stata affidata allo zio e si è trasferita a Milano. Non si vedono da tempo. Non hanno mai smesso di cercarsi. Con Giose, Eva risalirà l'Italia in un viaggio nel quale scoprirà molto su se stessa, sui suoi due padri, sui sentimenti che uniscono le persone al di là dei ruoli e delle leggi, e sulla storia meravigliosa cui deve la vita. Drammatico e divertente, veloce come un romanzo d'avventura, "Sei come sei" narra con grazia, commozione e tenerezza l'amore tra un padre e una figlia, diversi da tutti e a tutti uguali, in cui ciascuno di noi potrà riconoscersi.

                                                La recensione
Giose si era tatuato il suo nome sul cuore: ti porto nella mia carne, le aveva detto, sollevando la maglietta. Sei sempre con me - anche quando sei lontana [...] E non lo puoi cancellare? gli aveva chiesto. No, aveva risposto Giose, in questo punto no, mai. Non posso toglierti da me, sei la mia pelle.
Ci sarebbe una storia, una storia vera, che ha ispirato un film indie, bello e sconosciuto: Any Day Now. Parla di un ragazzino Down che nessuno vuole in affidamento – non è più un bambino, ha modi scostanti e un cromosoma in più – e di una coppia omosessuale che si prende cura di lui fino a quando è possibile. Ma siamo negli anni Settanta, la legge dice che l'affido non è ammesso e il ragazzino, ospitato in un istituto qualsiasi, una notte scappa e si mette in cerca di quei due strani genitori. Ma è strano anche lui, o così gli dicono i più, quindi che male c'è? Un inverno gelido lo sorprende però per strada e il ragazzino a cui è ispirato il protagonista, nella realtà, muore al freddo e al gelo, cercando casa. Sotto un ponte. Come un cane fedele che si è perso, strattonato il guinzaglio. Ci ho ripensato, con i brividi e la rabbia, leggendo Sei come sei: il libro della discordia, il romanzo di narrativa che – in un liceo della Roma bene, qualche tempo fa – aveva fatto urlare all'oltraggio al pudore. Una scena di sesso lunga una frase, massimo due, e un tema quantomai attuale, debitamente annunciato sul retro di copertina: una figlia, due padri, una famiglia normale. Be', apriti cielo. Sono passati due anni e l'ho letto con il polverone mediatico che si è calmato, la scoperta di una Mazzucco che spesso attira polemiche – ne ricordo altre, ferocissime, quando Vita vinse il Premio Strega – e le fasce arcobaleno sui vestiti dei cantanti, a Sanremo. Un periodo in cui qualcosa, anche se piano, si è mossa. ll dolore altrui genere chiusura: ne so qualcosa. La percezione dell'alterità, invece, fa ridacchiare, stimola la coniazione di insulti a fantasia, tira fuori il peggio. Mi è stata subito simpatica Eva, che eppure tanto simpatica non vuole apparire: undicenne critica e sprezzante, precoce, che si vede già scrittrice e, in gita con la II B, spinge sulle rotaie Loris, suo bullo e sua prima vera cotta, e sale sul primo treno. In fuga, in viaggio: in cerca. Porta fiera il nome della più antica abitatrice dell'Eden e, come la prima donna, è nata dalla costola di un Adamo. Da un desiderio indescrivibile, fortissimo, che colpisce i suoi genitori in un museo di Budapest, davanti al capolavoro di Ferdinando de Herrera. 
La paternità è come la Sindrome di Stendhal. Come si è avverata la preghiera di cullare quella bambina impossibile, pensata forte e infine concepita nella affascinante Armenia? Cos'è stato di loro tre, che davanti a un quadro con San Giuseppe e il bambinello, tremavano, si ponevano domande e non si immaginavano plausibili? Eva, con occhi puri e ad altezza bambino, ma in terza persona e con discorsi diretti introdotti senza le virgolette e senza domandare il permesso, rievoca – da passeggera del viaggio di una vita – le circostanze particolari della sua nascita, la storia d'amore per nulla pruriginosa tra un rocker con la barba e un ricercatore con gli occhali a fondo di bottiglia, il giorno nero in cui il lutto prima e la società poi posero fine all'idillio di un paradiso da tripartire. E lei, speciale e doppiamente forte, che macina tutta sola chilometri da Milano a Roma, e viceversa, per tentare, anche a costo di dover battere i piedi e stringere i denti, di riportare tra i vivi il papà che – in morte del compagno – forse ha rinunciato a lei. Si inerpica, così, per strade strerrate e tornanti, e raggiunge un paese sugli Appennini: lì, lei che conosce la relatività del tempo e l'ostinazione del dolore, in una baita che sembra uscita dai disegni di un bimbo, si è isolato Giose. Colui che è sopravvissuto contro ogni pronostico al prudente, assennato Christian; il suo papà di riserva. Meglio avere due papà che nessuno, ci insegna la saggia Eva. Meglio nascere che non nascere, risponde per le rime a chi non ammette la provetta che l'ha resa vera. Il suo viaggio sotto la neve, il resoconto dell'andata e quello del ritorno che si intrecciano, ci illustra il suo albero genealogico con delicatezza invidiabile e, a ritroso, ci presenta dispensando sorrisi e lacrime una galleria di zii e nonne, consuocere e ex moglie accondiscenti, parenti tolleranti e genitori perfetti cercasi. 
Inevitabilmente gli occhi sono puntati su di loro, che inseguono le ore disuguali, filosofeggiano a colazione, mettono su un fortino di affetti nell'anno zero. Che sia per malizia o indiscrezione, ce lo si chiede un po' tutti: come se la cavano due uomini con la monogamia, i pannolini sporchi e il pregiudizio? Come cresce una bambina con due portatori sani di cromosoma Y, la tavoletta alzata nella toilette e - sempre lui, immancabile - il pregiudizio? In un romanzo di formazione toccante, spigliato e con un cuore grosso così che, checché se ne dica, ha il pregio di non essere scritto a tavolino né di dare un'immagine che è tutta rose e fiori, in molti si stupirebbero della sconcertante e banalissima normalità insita nella risposta. Eva, portata in vacanza nelle città d'arte e cresciuta in una famiglia cattolica, se la passa benone. E se prima del trasferimento a casa degli zii milanesi le avessero chiesto a “chi dei tuoi papà vuoi bene di più?”, come tutti i bambini, avrebbe fatto spallucce. Christian, colto e mite nell'aspetto, è docente universitario nella mia Chieti: sposato per qualche tempo con la sua fidanzata del liceo, clamoroso errore di gioventù, a detta delle maestre di Eva e dei suoi dirimpettai sembrerebbe pure normale. Ma cos'è, normale? Giose, al contrario, è quello dei colori che non passano inosservati, la meteora del glam rock nostrano, il mammo dal passato promiscuo: non tocca una chitarra da dieci anni e, saltuariamente, compone colonne sonore per softcore di quart'ordine. Ma fa mille progetti, per quel che vale, e si applica quando è il momento di reagire alle crisi allergiche della figlia o di fingere nonchalance alla buffa notizia delle sue prime mestruazioni. Quando è il momento di essere un padre solo e solo un padre, dopo il riconoscimento del cadavere di Christian, che muore in moto, un giorno in cui andava veloce ma chissà dove. Un corpo gonfio restituito dall'acqua, quell'anello discreto che era il simbolo di un matrimonio mai celebrato e Giose, tra stordimento e impegni grandi e piccoli, che non sa che fare e come sentirsi. Improprio l'aggettivo “vedovo”, come rifletteva un altro amante, in un altro melò declinato al maschile? Sei come sei è uno di quei libri elementari e disarmanti, da leggere e consigliare, che mi dispiacerà all'infinito restituire alla Biblioteca comunale. Uno di quei libri che, prima o poi, mi compro da me, perché tanto il mio comò gli si è affezionato. Il dolore è pungente, l'emozione è tanta, quello stile tacciato delle cose peggiori – pornografico, scabroso, inoppurtuno – è tenero da non crederci. Ma in certa gente, ormai, non ripongo più fiducia. Fiducia invece per quelli che il diciannove marzo hanno mangiato un pasticcino e appeso un disegno al frigo – i padri di ogni dove, sottovalutatissimi; il mio – e che, cose che so sia per esperienza che per un romanzo che è un Venuto al mondo senza Gemme, amano i loro figli di un amore oculato, riguardoso. Come preso in prestito.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Cat Stevens – Father & Son 

giovedì 24 marzo 2016

Recensione in anteprima: Gli occhi neri di Susan, di Julia Heaberlin

Le Susan dagli occhi neri mi fanno visita in sogno. Sono più vive che mai. Stanno cercando il mio mostro, lo cercano in ogni angolo, come se la loro casa, che è la mia testa, fosse sul punto di esplodere. Come se quella fosse la loro ultima occasione.

Titolo: Gli occhi neri di Susan
Autrice: Julia Heaberlin
Editore: Newton Compton
Prezzo: € 12,00
Numero di pagine: 336
Data di pubblicazione: 31 Marzo 2016
Sinossi: Tessa Cartwright, sedici anni, viene ritrovata in un campo del Texas, sepolta da un mucchio di ossa, priva di memoria. La ragazza è sopravvissuta per miracolo a uno spietato serial killer che ha ucciso tutte le altre sue giovani vittime per poi lasciarle in una fossa comune su cui crescono delle margherite gialle. Grazie alla testimonianza di Tessa, però, il presunto colpevole finisce nel braccio della morte. A quasi vent’anni di distanza da quella terrificante esperienza, Tessa è diventata un’artista e una mamma single. Una fredda mattina di febbraio nota nel suo giardino, proprio davanti alla finestra della camera da letto, una margherita gialla, che sembra piantata di recente. Sconvolta da ciò che evoca quel fiore, Tessa si chiede come sia possibile che il suo torturatore, ancora in carcere in attesa di essere giustiziato, possa averle lasciato un indizio così esplicito. E se avesse fatto condannare un innocente? L’unico modo per scoprirlo è scavare nei suoi dolorosi ricordi e arrivare finalmente a mettere a fuoco le uniche immagini, nascoste per tanti anni nelle pieghe della memoria, che potranno riportare a galla la verità…
                                                 La recensione
E' primavera, svegliatevi bambine. Il ventuno marzo, con l'ingresso di questa mezza stagione che per molti non c'è più, mi sono ritrovato a fischiettare la canzone facendo colazione. Mi è venuto in mente mio nonno, che cantava Claudio Villa mentre si radeva, e il postino, di lì a poco, mi avrebbe consegnato un romanzo in uscita che non sapevo di aspettare. Fuori c'era un bel sole, un vento mite, e sempre fischiettando ho dato una sbirciata a com'è che iniziava, questo romanzo a sorpresa di ragazze resuscitate, cacce al tesoro, polvere soffiata via da casi dati per risolti. Ritorna il ritornello: è primavera, svegliatevi bambine. Un appello a cui risponde solo Tessie, sedici anni e le gambe che corrono veloci. Si sveglia per miracolo, ma non fanno altrettanto le sue amiche fantasma, in quel fosso infestato da carogne, fiori e incubi. Unica sopravvissuta a un serial killer di adolescenti, la piccola Cartwright – con la mamma che un giorno si è accasciata a terra e non si è rialzata, due nonni che vivono in un castello degli orrori, il fiuto per i guai – riapre gli occhi su un letto di ossa e margherite in boccio. Ma non sono margherite qualsiasi, con i loro petali gialli e, al centro, come un occhio nero. Gli americani hanno un nome per loro, Black-Eyed Susan, e da quel nome giornalisti da poco e cronisti d'assalto traggono ispirazione per identificare, a modo loro, le vittime e la rediviva dai capelli rosso fuoco. Un omaccione dalla pelle nera, con scarse prove contro cui tutto ha potuto però il pregiudizio, è stato incriminato e giustizia sembra in fretta fatta. Poche erano le tecnologie della scientifica, sommari e incerti i tentativi di dare un'identità a quei macabri resti. Chi erano le altre Susan, sepolte insieme a Tessie in quella bara a cielo aperto? Sono passati poco meno di vent'anni. Il mostro sta per essere giustiziato, ma c'è un dettaglio tutt'altro che trascurabile. Quell'elemento fuori posto che, di solito, toglie il lieto fine a un thriller quando pensavi che i protagonisti, finalmente, fossero sani e salvi. Sotto la finestra di Tessa, che nel frattempo è diventata madre e ha abbandonato il diminutivo di gioventù, una mano sconosciuta pianta nuovi esemplari di quei fiori infestanti, e sembrano un avvertimento o una minaccia. Soprattutto, nella testa di una protagonista che non crede all'ipnosi o alle suggestioni dei medium, gli spettri delle sue compagne insepolte non hanno mai smesso di chiacchierare. Sembra accattivante di certo ma consueto, Gli occhi neri di Susan: thriller un po' psicologico e un po' investigativo tradotto in mezzo mondo e adocchiato, leggevo, anche dal cinema. Ma lo è e non lo è, sapete? Avrete capito già, infatti, che quella famosa sbirciata all'incipit inneggiando all'ingresso della primavera è diventata, poi, una lettura che non ha conosciuto pause e che la conoscenza con l'esordiente Heaberlin e le sue ninfe ammazzate si sia rivelata, in particolare all'inizio, profondamente conturbante. 
L'ultima scommessa Newton Compton, che ha mantenuto quella copertina sgargiante e sinistra e viva la suspance, è più complessa da definire, forse, che da raccontare. La trama, in definitiva non così intricata, a malincuore non così imprevedibile, contempla differenti punti di vista e salti frequenti, le riflessioni sulla pena di morte in Texas e gli straordinari traguardi delle scienze forensi. Una narrazione a cavallo tra passato e presente, un mistero che rinasce ogni volta che i giardini sono in fiore e soffia il vento, l'alternarsi al timone della Tessa di oggi e di quella di ieri. Negli anni Novanta, lei e la migliore amica, Lydia, seguono accanite il caso O.J. Simpson alla tivù e giocano a fare le investigatrici, affascinate dalle storie macabre e dal sangue. Non sanno ancora che, ben presto, un campo sperduto e la testimonianza della fortunata superstite faranno delle loro vite, e di quell'amicizia agli sgoccioli, una storia di quelle che si seguono con le orecchie aguzzate, le occhiate sospette all'esterno e il cuore a mille. Quando l'incubo finisce, iniziano le sedute psichiatriche settimanali e un processo che le coinvolge entrambe, più o meno direttamente. La Tessa di oggi, invece, ha un pacemaker, una cicatrice a forma di mezzaluna sul viso e una bambina, Charlie, che dorme in una stanza dalle pareti viola. 
Una vicina sclerotica, ancora, che dal suo portico ha adocchiato un misterioso ladro di vanghe e il tatuaggio di una farfalla, abbinato a quello di una amica del cuore trasferitasi Dio solo sa dove. Per un periodo, dopo il ritrovamento del suo corpo non morto, Tessa ha perso la vista: cecità isterica, stabilisce lo psicologo che invece ha perso una figlia. Per un periodo, dopo gli interrogatori a tappeto e la maternità, ha pensato che fosse addirittura finità. Gli occhi neri di Susan prende le mosse dal recupero di una vecchia scatola in cantina e dalla collaborazione che nasce tra la mancata vittima e due professionisti - un bell'avvocato e una antropologa - per salvare un innocente da morte certa. Quel che rende la lettura strana e un po' surreale, ma in senso buono, sono il filtro di una narratrice sui generis e toni cantilenanti, tanto deliziosi quanto crudeli. Le ossa parlano, e parla Tessa: la lingua sciolta, la testa che gira e il gusto dell'artista. Le regole di buon vicinato, case dai colori pastello, figure dalle abitudini alquanto pittoresche e con il pollice verde. E i toni, trasognati, sono quelli di una narratrice inquieta che dice e non dice, ma che spesso ti trae in inganno. Quale spazio può esserci, in una villetta di donne e macchine da cucito, veli e centrini, bluse a fantasia e pigiami a pois, per un mistero che lega due generazioni? Nei riti messicani, ci sono fiori colorati che sbucano dai teschi, i corpi spolpati fino alle ossa e le orbite vuote. Ma i crani frantumati e le bocche spalancate permettono alla natura, alla vita, di mettere radici. E sbocciare. Le stesse dicotomie – vite e morte, luce e buio, angoscia e ingenuità – sono presenti anche in un thriller che, nonostante le sbavature sparse, esercita per lunghi tratti un fascino profondo e pressoché inspiegabile. Peccato che qualche pagina di troppo al centro e un finale sornione, ma che non sconvolge, non rendano perfetto, ahimè, questo placido sonno marzolino, in mezzo al polline e agli scheletri. Julia Heaberlin, così, ufficialmente firma un giallo che da Gillian Flynn prende in prestito i risvolti femministi, ma ufficiosamenete è più una Kathy Reichs sotto acidi, con quei suoi disegni che raccontano la verità, i giardinieri silenziosi delle favole dei Grimm e una scrittura rococò, musicale e spaventosa, da “giro giro tondo” in capo al cimitero.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Hooverphonic – Mad About You

martedì 22 marzo 2016

I ♥ Telefilm: How to get away with murder, Galavant, L'ispettore Coliandro

Stagione II
Lo scorso anno avevo conosciuto l'amata, odiata Shonda Rhimes qui, a scuola di crimine. Un legal thriller semiserio, seducente, velocissimo, per chi come me con gli avvocati in tivù ha un brutto rapporto e il più noto Scandal, recuperato in estate, non lo seguiva ancora. How to get away with murder ti insegnava a farti andare a genio l'autrice più prolifica della storia del piccolo schermo e a farla franca con il sangue freddo e la fedina penale pulita, in caso di moderni delitti e castighi. Nemico giurato delle maratone tanto quanto dei personaggi in toga, avevo trovato nella spregiudicata Annalise Keating e nei suoi cattivi allievi una sorprendente eccezione e un titolo da inserire, lo scorso anno, ai margini del mio listone. Guilty pleasure ma non troppo, il primo How to get away me l'ero bevuto in un sorso. E l'autunno successivo, mi accorgevo, restava la sete. Puntuale la seconda stagione e la terza, da quel che leggo, è già certezza, ma a malincuore i nuovi appuntamenti oltre il nastro giallo, tra aule universitarie e salottini esclusivi, deludono e annoiano un po'. In tempi non lontani l'interrogativo era uno, incalzante: chi aveva ucciso il marito della protagonista? Questa volta, invece, la stagione ruota attorno a una nuova domanda, a un ennesimo caso, anche se le risposte si perdono, in una storyline che fa il passo più lungo della gamba e frequentemente si smarrisce. L'indagine portante ruoterebbe, comunque, attorno a due fratelli, accusati di avere assassinato i genitori adottivi, in nome di una ricca eredità e, mormorano i rotocalchi, del loro amore incestuoso. Come da tradizione, si gioca con flashback e anticipazioni, e l'effetto dèjà vu all'inizio cattura: i discepoli riuniti, di nuovo, sulla scena del delitto perfetto. Quello di una Annalise agonizzante in una pozza di sangue, ferita – mortalmente? - da uno di loro. Prima della pausa per le vacanze natalizie, abbiamo una decina di episodi nella media: il giallo è classico, senza grossi guizzi. Dopo, con l'anno nuovo, How to get away with murder predilige l'indagine psicologica, i viaggi nel passato, l'introspezione. Si parla di un bambino mai venuto al mondo, della relazione della selvaggia avvocatessa con il traditore Sam e con una affascinante collega – quella Famke Janssen incapace di invecchiare -, dell'imprinting istintivo con il bisognoso Wes. Cosa sa delle origini di lui? E quanto è coinvolta nel suicidio della madre, testimone in un processo scomodo? La storyline è frastagliata, sfilacciata, e l'indagine su quei fratelli assassini, ma al di sopra di ogni sospesto, né intriga né interessa. Il lato negativo, quello che fa pendere la bilancia verso la delusione, è l'importanza smodata data ai comprimari. Coi pregi e i difetti che ciò comporta. Si perde spesso il punto della situazione, dunque, e in mezzo a coppie improbabili, sicari affranti e riunioni familiari, Alfred Enoch – tanto per fare un esempio - si mostra incapace di dare spessore al suo Wes e Jack Falahee, ammirato in precedenza per la faccia tosta e l'insolenza, accasato col noioso Oliver, appende al chiodo l'indole di Connor. E la domanda, abbandonata quella iniziale, diventa man mano un'altra: ma a noi che importa? Di chi se la spassa con chi, della Keating bisex, di salti in avanti e indietro che, quest'anno, si fanno seguire con distrazione? La Shonda (inter)nazionale, dunque, rivela le falle delle sue infinite trame e ci dà conferma del talento di una Viola Davis tappa buchi, più mattatrice del solito: vulnerabile, umana, materna. A tratti, straordinaria. E questo How to get away che a volte ritorna, in definitiva, vive solo di lei, spietata e inaffidabile, quando invece vorrebbe coinvolgere l'intera classe che affolla l'ingresso della protagonista notte e dì. L'udienza è sciolta. La corte e il sottoscritto si aggiornerano in data da destinarsi, per concedersi un'altra possibilità. (6)

Stagione II
Lo avevamo cantato, ballato, accolto calorosamente. Galavant, intonatissima comedy di cappa e spada, lo scorso inverno, quanto ci aveva stupito? Debuttato con Once Upon a Time in pausa, e dire che quella serie io l'ho abbandonata anni e anni fa, aveva dieci episodi di venti minuti ciascuno, situazioni brillanti e, soprattutto, canzoni così orecchiabili da convincere anche chi il musical, al contrario mio, non lo tollera. Il segreto: leggerezza da vendere, un cast freschissimo e, a scrivere e comporre, tra gli altri, lo stesso Alan Menkel che vanta diciannove nomination e otto vittorie agli Oscar, nella categoria delle migliori colonne sonore. Record, dite? Ma dove li avevamo lasciati, 365 giorni fa, e cos'è di loro, sopravvissuti alla cancellazione già una volta e separati e lontani, ormai, a causa di una trama più ampia e di imprevedibili incidenti di percorso? Lo scopriamo con una canzone: anche il riassunto delle puntate precedenti, infatti, in Galavant è un'occasione in più per cantarsela. Isabella, in definitiva il vero amore del nostro eroe, è tenuta sotto chiave: deve sposare a forza suo cugino, che per avere una decina di anni è un vero demonio, e vincere le insidie di un wedding planner stregone che l'ha soggiogata con un diadema magico. Madalena, vendicativa ex ragazza, regna con il boia Gareth sul regno che fu di quel marito mai stimato. Il protagonista e King Richard, invece, suo storico rivale, si sono alleati: amici per la pelle, adesso, devono salvare l'amata, riconquistare il trono, guidare un esercito di non-morti in una battaglia che vedrà contrapposti ben tre schieramenti. Interverranno il paranormale – con morti e resurrezioni, lucertole che forse sono draghi dormienti o forse no, regine che per la vittoria venderebbero quel poco di anima che resta loro – e, lungo il tragitto, tappa obbligatoria presso regni che portano a nuovi sorrisi e a ennesimi grattacapi, la riconciliazione con famiglie imperfette, il coinvolgimento nella secolare disputa tra (non) nani e (non) giganti. Meno spazio per i comprimari a me tanto cari – i fedeli servitori, i funzionari reali – , ma altrettante canzoni da fischiettare, altrettante ore spese in assoluta allegria. Due puntate in più, rispetto alla prima stagione, ma è l'effetto sorpresa che, questa volta, purtroppo non si ripete.
Restano le canzoni, folli e sempre a tema; le interpretazioni a fuoco e i cameo inaspettati – quello della Minogue, ad esempio, che nel bel Joshua Sasse ha trovato anche un toy boy da ostentare; l'incertezza del rinnovo. La cancellazione è un orso, ci cantano nella canzone conclusiva, e chissà se, come il caro Leo in Revenant, riusciranno di nuovo a spuntarla senza ferite. (6,5)

Stagione V
Il cinema italiano sta facendo passi da gigante. E se vi dicessi che anche la tivù, talora, sorprende, mi prendereste in parola? Erano già cinque anni che non lo vedevamo muoversi, cafone e mitologico al solito, sul piccolo schermo. Non c'era il blog, e non avevo potuto parlarvi di me, afflittissimo, che mi logoravo per l'incertezza di un nuova, eventuale stagione. Non c'era il blog e, nel mio piccolo, non avevevo potuto illuminare gli scettici sulle mirabolanti prodezze dell'ispettore che spara, fa centro e conquista. Quando meno te lo aspetti, L'ispettore Coliandro – la serie italiana più figa su piazza: okay che poco ci vuole, uno dice – rispunta sui palinsesti, con gioia e sommo gaudio da parte del sottoscritto e famiglia. Non lo avete neanche incrociato, dieci anni fa, quando, in sordina, faceva il suo esordio su Rai Due? Il primo caso è una storia di mafia russa e bionde siberiane; il secondo, nella campagna bolognese, lo vuole impegnato a proteggere un testimone autistico; il terzo, con il colpo di fulmine per un'esotica barista non udente e le pressioni del medico legale ultrasessantenne, lo trascinerà sulla pista da ballo; il quarto – il mio preferito, insieme all'ultimo – lo renderà senza memoria e spietato, all'indomani di un brutta botta in testa; il quinto, tra i peggiori, lo vorrà Taxi Driver tricolore in compagnia di una ex e procace miss; il sesto, alla fine di un ciclo, ci darà filo da torcere: il nostro eroe, dato per morto, è infatti prigioniero nello scantinato di un'affascinante e fragile Psycho al femminile. Le citazioni grandi e piccine, una scrittura intelligente, battute cult, la partecipazione vivissima di gente che crede nel proprio lavoro. Quelle partner che, per dirla a modo suo, più che bellissime sono “scopabili”, i colleghi affezionati – la Bertaccini, che ha sposato da poco la sua compagna; Gargiulo e le lasagne di mammà; la risata con sfiato di Gamberini – e, tra una pagina Facebook sempre aggiornata e iniziative nei locali della capitale emiliana, tanta voglia di ringraziare chi di Coliandro ha curato il successo e il prezioso ritorno. Nato dalla penna di Carlo Lucarelli, L'ispettore Coliandro – sbirro provetto ma non troppo, che in ogni puntata cambia caso e ragazza, come un James Bond pane e salame – ha episodi di novanta minuti, perfettamente autoconclusivi, e cinque stagioni brevissime. Alla regia, gli immancabili Manetti Bros e nel cast, accanto a presenze ricorrenti e vecchie conoscenze, uno Giampaolo Morelli da idolatrare seduta stante. Insieme, sempre affiatati, divertentissimi e di corsa, avete già potuto ammirali, ad esempio, in quel delizioso mix di hard boiled e canzone neomelodica che era Song'e Napule. In una colorata Bologna criminale, inquadrata dall'alto coi droni e, con la sua turbolenta movida notturna purtroppo piena di spunti, la legge ha il volto squadrato – la giacca di pelle, gli occhiali di sole anche di notte e, sotto, un occhio azzurro un po' malandrino – di un agente di polizia cresciuto con il sogno di Eastwood, Tomas Milian, gli sparatutto anni '70. Egocentrico, sboccato, maschilista e fiero di esserlo, Coliandro – che un nome di battesimo non sembra proprio averlo, giacché ispettore lo nacque – inciampa per la quinta volta, così, in crimini, fanciulle e meriti. E, senza bisogno di un aggettivo di troppo, lo si riassume con un “bestiale” dei suoi. (7,5)

domenica 20 marzo 2016

Recensione: Qualcosa di vero, di Barbara Fiorio

"Qualcuno ha ordinato una fiaba?"

Titolo: Qualcosa di vero
Autrice: Barbara Fiorio
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 249
Prezzo: € 15,00
Editore: A rincasare ubriachi nel cuore della notte si rischia di inciampare in qualsiasi cosa: un gradino, i lacci delle scarpe, uno stuoino fuori posto. Ma se ti chiami Giulia, sei una pubblicitaria di successo e per te l'infanzia è solo una nicchia di mercato, puoi anche inciampare in una camicia da notte con una bambina dentro: Rebecca, la figlia della nuova vicina. Allora, tra i fumi dell'alcol, puoi persino decidere di ospitarla per una notte sul tuo divano. Salvo poi rimanere invischiata in sessioni di fiabe da raccontarle ogni volta che la madre, misteriosamente, non c'è. Da Cenerentola a Pollicino, da Raperonzolo alla Sirenetta, purché siano sempre le versioni originali: quelle di Perrault, dei Grimm e di Andersen, dove i ranocchi si trasformano in principi soltanto se li lanci contro un muro, e non sono certo i baci a risvegliare le più belle del reame. Se invece ti chiami Rebecca e sei arrivata da poco in città, puoi provare a conquistare i compagni di classe con le "fiabe vere". Salvo poi imbatterti nelle temibili bimbe della Gilda del cerchietto, pronte a screditarti con le versioni edulcorate della Disney. E forse, nonostante i tuoi nove anni, cercherai di far capire a Giulia, la tua amica del pianerottolo, che, anche se i principi azzurri nella realtà non esistono, l'uomo giusto a volte è più vicino di quanto si pensi. Ciò che ancora non sai è che la verità costa cara. E non solo perché certe cose è meglio non raccontarle, specie quando ci sono di mezzo i segreti degli adulti.
                                                     La recensione
In tempi recenti, ho scoperto che Barbara Fiorio faceva al caso mio, che la biblioteca comunale della mia città aveva riaperto allegramente i battenti mesi fa (facciamo anni) e, con la scusa vaga di reperire qualcosina per la tesi, potevo guardarmi attorno e, nell'angolo degli ultimi arrivi, portare a casa registrandomi titoli nuovi e nuovissimi. Mentre la bibliotecaria all'accettazione, confusa dalle bizze del computer e dal funzionamento dell'archivo elettronico, cercava per me qualche testo universitario battendo sulla tastiera – lei poco convinta che potessi trovarli lì, io addirittura meno di lei -, mi sono guardato in giro. E siccome tornare a casa a mani vuote sembrava brutto, no?, ho preso in prestito il mio primo libro. Aveva un fungo a pois in copertina, mi faceva tanto sorridere, me ne parlavano con entusiasmo e, nel farlo, ricambiavano di conseguenza il sorriso. Torno con Qualcosa di vero sotto il braccio un giorno, e il successivo ne vivo uno così sfortunato, così pieno e assurdo, che mio padre, prima di coricarsi, chiosa con un saggio: “Se un gatto nero ci taglia la strada, è lui che deve grattarsi le palle. Altroché.” Combattuto da sensazioni opposte, incerto tra il pianto a dirotto e le grasse risate, boh, mi metto a letto, non prendo sonno ed è così che conosco Giulia, Rebecca e le figure bizzarre che stanno loro attorno. Ed è così che, ventidue anni ad aprile, mi godo una favola o due, le coperte rimboccate, il conforto di un romanzo – non bello come dicono, forse, ma comunque molto carino – nel momento propizio. Appisolandomi piano, leggo di una pubblicitaria rampante che vive del proprio lavoro e di cene galanti, offerte da corteggiatori random che, dopo averla accompagnata sotto casa, con lei non avranno futuro. Tutta tisane calde e scadenze, Giulia non è aperta né ai sentimenti né all'idea dei figli. Il suo orologio biologico ticchetta ossessivo, tic tac tic tac, ma pazienza. Così come non è mai stata portata per le lezioni di pianoforte, altrettanto non è tagliata per i bambini, le esigenze da Telefono azzurro, le carezze a comando: in carriera, burbera ma con tatto, inchiodata al pc. Finché una sera, brilla, non inciampa nella nuova vicina di casa. Una bambina di nove anni con un peluche in braccio, una mamma infermiera a lavoro, il bisogno di un riparo per la notte – è rimasta, infatti, chiusa fuori – e la voglia di chiacchierare del trasferimento, di com'è la vita lì, delle prepotenze alla scuola elementare. La piccola è stata esiliata all'ultimo banco dalla famigerata Gilda del cerchietto, accanto a un taciturno novenne che disegna tutta la mattina draghi sputafuoco; l'adulta, invece, inventa slogan fianco a fianco al grafico Lorenzo, di qualche anno più giovane, che la ama in silenzio mentre lei, maestra nell'arte della dissumulazione, finge di non notarlo per non spezzargli il cuore e rovinare per sempre la loro invidiabile, invidiata sinergia. 
L'incidente sul pianerottolo darà il via a una tenera amicizia intergenerazionale, in cui scambiarsi sogni, racconti e segreti, ma tenendo rigorosamente all'oscuro le mamme troppo fragili, i coetanei e chiunque non sia pronto ad accettare la notizia che a lungo ci hanno mentito. Bugia più clamorosa dell'esistenza di Babbo Natale, infatti, i finali riscritti dalla Disney, per proteggere i bambini, tutt'altro che sprovveduti, dalla dura verità: le principesse sono esseri stupidissimi, i principi appartengono a una brutta razza, i ranocchi assumono forma umana se lanciati contro una parete, il per sempre felici e contenti è una consolazione da poco. Perché Giulia, tra lubrificanti intimi da lanciare, e-reader da studiare a fondo, cibi precotti in quantità, ha il coraggio di trattare la sua piccola ospite con intelligenza e rispetto: qualcuno deve spiegarle come stanno le cose, come gira il mondo. Perché non lei, realista e disincantata? Perché non i Grimm, Perrault e Andersen, con le loro favole censurate, le sirenette che diventano spuma di mare e i baci appassionati che non servono a un bel niente? Rebecca, dunque, imparerà a socializzare, conquistando amici con il gusto del macabro e pestando i piedi a qualche nemica che a Carnevale può vestirsi a pieno titolo da principessa, sia per via dei capelli lunghi, sia di una mente poco brillante. 
Giulia, d'altra parte, realizzerà che giusto è il realismo, ma più giusto ancora, a volte, è tornare a crederci. Anche a quarant'anni. Qualcosa di vero, in verità, ci intrattiene a suon di fiabe grottesche raccontate un po' come viene e con quelli che sono tutti gli stilemi della commedia brillante americana: le professioni che solo nei film, l'input di un About a boy al femminile, un epilogo - eccezion fatta per un episodio a bruciapelo che ci invita a riflettere sulla violenza domestica, e a denunciarla – come da copione. Più che qualcosa di vero, ci trovereste dentro qualcosa di buono. Buonissimo. E' infatti un romanzo leggero, fantasioso e ironico di un'autrice che mi verrà in soccorso, lo prevedo già, nei momenti scuri e quando il blocco del lettore mi attanaglierà. Rassicurante, nel suo essere esattamente come lo immagini. Tutto va come deve andare. Rimpiangerò di non averne una copia tutta mia, domandate, io che non rileggo ma accumulo e, affetto da smania di possesso, voglio voglio e voglio? Onestamente no, ma mi ha ho sciolto un nodo qui, tra pancia e sterno, e già è tanto. Il continuo andirivieni delle protagoniste, le porte che sbattono nel cuore della notte e un segreto che doveva rimanere tale metteranno sull'attenti maestre bigotte, genitori single, l'esilarante dirimpettaio attore e, da un passato a tinte fosche, un losco figuro in cachemire. Ci destano dai nostri doveri un colpo al muro, poi un altro. Cadenzati e soppesati, come se chi sta dall'altra parte conoscesse il linguaggio del codice Morse. La musica da intenditori in salotto ha palesato, ancora prima che ricambiassimo il colpo, il battito, la nostra presenza. Ci desta, Rebecca, ma il sogno inizia allora. Da lei. Che parla alla maniera di Barbara Fiorio, delicata e metaforica, e ti spiega, alla fine, che le favole e le persone speciali sono come le fate in Peter Pan. Se ci credi, non muiono.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Malika Ayane – Senza fare sul serio 

giovedì 17 marzo 2016

Recensione: Vola più in alto, di Diego Pelizza

Titolo: Vola più in alto
Autore: Diego Pelizza
Editore: CLEUP – Narrativa
Numero di pagine: 188
Prezzo: € 14,00
Sinossi: Davide Parisi ha diciannove anni e un fratello minore autistico, Edoardo. La presenza di Edo ha condizionato da sempre la vita di Davide, come un fardello ingombrante e difficile da accettare, provocandogli ansie, insicurezze, sensi di colpa. La famiglia Parisi sta vivendo un periodo difficile: Edo, che per tre anni è stato in un centro per ragazzi autistici, è stato da poco trasferito in una struttura meno attrezzata e ha avuto un evidente peggioramento. Mentre i genitori devono affrontare questa circostanza, la vita di Davide scorre con un perenne senso di insoddisfazione tra le lezioni universitarie, dove è sempre solo, e le serate con gli amici del suo paese, da cui si sente sempre più distante. Solamente durante le sedute con una psicologa Davide ha la possibilità di esprimere tutto il suo malessere, legato agli indelebili ricordi del passato e alle paure per il futuro. Il ritorno in paese di un vecchio amico e l'incontro con una ragazza gli daranno la forza di fare i conti con i suoi problemi e, forse, gli permetteranno di accettare la sua realtà familiare.
                                                  La recensione
Compito impegnativo, recensire un esordiente. E, più per mancanza di tempo che per mancanza di tatto, in un anno di letture sono pochissimi gli autori emergenti che – dalla mia casella di posta elettronica – arrivano, infine, sul blog. Come scelgo, come dico sì oppure no? Come in ogni cosa, hanno la meglio le sensazioni superficiali; l'istinto. Bado alla trama, che deve colpirmi, e alla presentazione dell'autore, che deve chiamarmi per nome, scrivermi di proprio pugno e non rifilarmi, possibilmente, il solito copia-incolla senza personalità. Un blogger, sapete, ci fa caso. Diego Pelizza, mio coetaneo, pubblicato da un piccolo editore veneto, aveva attirato la mia attenzione già qualche estate fa. Fedele lettore non tanto del blog, quanto della pagina Facebook ad esso correlata, mi aveva parlato in privato di una storia a cui dare gli ultimi tocchi. Brevi cenni alla trama – un romanzo di formazione, la problematica convinvenza con un familiare autistico, più di qualche elemento autobiografico – e una domanda: ero interessato a dargli un parere onesto e oggettivo, prima che lo inviasse a un editore? 
Ci eravamo persi nella corrispondenza. Ci eravamo persi. La prima Sessione Estiva in mezzo, le insicurezze mie e sue, e niente. L'ho ritrovato, all'inizio di quest'anno, pubblicato e bene agghindato: la sua storia, nel frattempo, aveva trovato una copertina che attira e un bel titolo, Vola più in alto. Ora, stampato e tutto, era finalmente “cosa mia”. Mi ci sono avvicinato piano e, senza troppa sorpresa, mi sono subito rivisto in Diego e nel suo protagonista, Davide: in comune, l'età, il percorso di studi, gli hobby. Mi ha colpito, il romanzo, perché fatto di piccole cose; perché quotidiano. Sognare ad occhi aperti durante le lezioni di Letteratura Italiana, aspettare sotto la pensilina in plexiglass il bus che non arriva e, sui mezzi pubblici, con le cuffiette nelle orecchie, osservare il fuori e il dentro. I palazzi che si susseguono, di sera, nella provinca padovana; i ciclisti e i pedoni; i passeggeri della corriera, che leggono, parlano al telefono, scendono e chissà dove vanno. Davide, matricola, vive le conseguenze di un'estate fatta di significative scelte – qualche amico si è spostato per l'università, il paese sembra essersi spopolato, lui deve tentare di vincere la propria indole introversa per inserirsi nel nuovo ambiente – e, soprattutto, quelle legate a una famiglia diversa dalle altre, ma non poi tanto. Quel bus, anche se lui è più tipo da bicicletta sotto la pioggia, ha come destinazione una casa modesta, in cui vivono mamma, padre e fratello minore. Una donna forte, un uomo buono e un ragazzo, di quattro anni più piccolo, che è chiuso in un mondo impenetrabile. 
Edo, ormai sulle soglie dell'adolescenza, ha fatto a lungo spola tra un ospedale e l'altro, ha una cicatrice a forma di croce all'altezza del fegato, parla per monosillabi, ha scatti improvvisi: è autistico, e non si sa se così ci sia nato o meno. Com'è crescere all'ombra di un parente che, suo malgrado, ha sempre richiesto un occhio di riguardo? Quanto ha influito quel fratello, arrivato tra mille difficoltà, sul suo essere il Davide che conosciamo? Il protagonista, così, ci racconta di sé e degli altri; di una ragazza che ricambia all'improvviso il suo sorriso, in aula studio, e di un amico tornato all'ovile per il weekend. Si prende, tra queste pagine, lo spazio che in famiglia non ha avuto. Ma, volendo o non, lascia un po' da parte Edo: colui che l'ha reso, nel bene e nel male, quel che è. Quell'Edo bellissimo, curioso, irraggiungibile, che mangia mele in gran quantità e fischietta come un cardellino. Nel romanzo è un pensiero fisso, sì, ma appena una comparsa, e la cosa potrebbe dispiacere. Davide, parafrasando le sue stesse parole, è un fratello solo nei fine settimana, quando l'altro torna a casa da un centro specialistico: nel resto dei giorni, è figlio unico. Avrei gradito, a metà, più cuore e tenerezza. Tra loro, c'è l'afasia di Edo e una patologia dai tratti misteriosi, però il dialogo mi è parso scarso - si prediligono gli stati d'animo, una narrazione intimista - e timidi sono i tentativi di fare breccia nella diversità dell'altro. Da lettore, infatti, avrei apprezzato qualche momento da romanzo, appunto, in più. Questo, anche a discapito della verità di Diego e del suo Davide? Parzialmente ispirato alla situazione familiare del giovane autore, che dedica la sua opera prima a tutti i parenti di persone con disabilità, il romanzo è di facile fruizione, personalissimo, diretto. Curato e privo di sbavature, ha dalla sua un narratore, a tratti, particolarmente in linea con il sottoscritto – simili la sensibilità, le nevrosi, l'occhio malinconico sul mondo – e uno spunto doloroso, ma trattato con delicatezza e tatto estremi. 
Vola più in alto è l'invito di una madre al figlio maggiore, spesso messo da parte a causa di un fratello che richiede grandi cure e costanti attenzioni. Come a dire: sogna in grande, il cielo non è il limite. Vola più in alto, breve, promettente e senza grossi difetti, è la rivincita di Davide, forse, che tra queste pagine trova un briciolo di meritata pace e uno spazio solo e soltanto suo, o quasi. Compito impegnativo, recensire un esordiente. Quanto?
A volte, come oggi, ad esempio, non così tanto.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Pretenders – I'll Stand By You

martedì 15 marzo 2016

Recensione: Io e te all'alba, di Sunne Munk Jensen e Glenn Ringtved

Vorrei descrivere l'alba mentre eravamo lassù, che l'ha fatto quasi diventare bello. E giusto. Vorrei far capire il perché. Raccontare la storia vera. E vorrei che Liam mi abbracciasse.

Titolo: Io e te all'alba
Autori: Sanne Munk Jensen e Glenn Ringtved 
Editore: Piemme Freeway
Numero di pagine: 318
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Louise vive ad Aalborg, in Danimarca. Ha diciassette anni, va al liceo. I suoi genitori sono brave persone. Una sera conosce Liam, un ragazzo poco più grande di lei, e i due si innamorano perdutamente. Trovano un minuscolo appartamento ai margini della città e si amano, fra sesso e droga, senza limiti. Liam ha tanti sogni, ma una pessima idea su come realizzarli. Comincia a lavorare per Johannes, uno spacciatore, un pesce grosso. All’inizio va a gonfie vele, ma poi la situazione precipita, trascinandosi dietro tutto e tutti. È inutile chiedersi perché Louise non sia scappata quando ancora poteva farlo. Non l’ha fatto e basta. Questa storia racconta il perché.
                          La recensione
L'alba che irrompe sorprende Louise e Liam, diciassette e diciannove anni, sull'alto di un ponte. Si tengono per mano, ammanettati. Poi il tuffo. Un'altra alba, ma di tanti giorni dopo, restituisce i loro cadaveri: gonfi, blu, irriconoscibili. Le manette non si sono spezzate, le loro mani non si scono mai sciolte dalla stretta. La pena dei familiari, i perché sprecati, le tristissime esequie. Per lui, la cremazione. Lei, invece, viene sepolta in una bara bianca, su un letto di viole. Louise odiava profondamente le viole, però i suoi genitori non l'hanno mai saputo. Quante cose non sapevano di lei, un tempo figlia modello? Le famiglie, attonite, non hanno voluto sotterrarli insieme. Si conoscevano da poco e subito erano andati a vivere insieme, in un appartamentino dai colori kitsch e arredato a caso coi mobili dell'Ikea. Parlavano, nell'ultimo periodo, di fuga, per lasciarsi alle spalle i guai. Hanno bruciato le tappe, si sono voluti bene male, si sono rovinati con le proprie mani. Un funerale comune, per i parenti disperati, è troppo. E i funerali, si sa, sono più per i vivi che per i morti. Tempo di dare ragione alle famiglie, a lungo menefreghiste, ma anche di sentire le loro, che sono ormai dall'altra parte. Louise, ex figlia modello e brava ragazza, ha infatti qualcosa da raccontarci. Come in un Amabili resti in cerca d'autore, la narratrice onnisciente, all'indomani del ritrovamento del suo stesso cadavere, racconta cos'è successo davvero. Un po' fantasma e un po' guardiano, non ha rimpianti di sorta, se non uno. Un dubbio: dall'alta parte, dov'è Liam? Si snoda, così, una vicenda di gangster e pupe, agnelli sacrificali e debiti di sangue da saldare. Louise e Liam, vissuti tra le droghe libere e il sogno dell'Irlanda, non sono tra i ragazzi tristi e malinconici di cui ultimamente abbiamo letto. Sono su di giri – per la passione e i trip – e fanno progetti su progetti. 
Ma, a differenza degli adolescenti americani, si muovono in un ambiente squallido, adulto, violento, che ricorda poco gli scenari degli young adult tradizionali e tanto, invece, le borgate malfamate e i rapporti senza freni di Silvia Avallone, Valentina D'Urbano, Niccolò Ammaniti. Ricorda la trasgressiva Bristol di Skins, vista attraverso una fotografia sbiadita e gli occhi come spilli di diciassettenni maledetti. Cattive compagnie, troppe, e non c'è luce in fondo al tunnel. Non c'è alcuna via d'uscita. Da un amore che stringe sui polsi. Da una strada che è maestra di vita, sì, ma insegna le cose sbagliate: il tuo compagno di banco è uno spacciatore, in quella scuola di fiordi e cemento armato; nessuno si preoccupa, se sei spesso assente; la prima della classe, ragazza inarrivabile, è stranamente facile da indurre in tentazione. Io e te all'alba è un romanzo per adolescenti e non, scritto al presente e al passato. Senza capitoli, ma diviso in frammenti speculari. Da un lato abbiamo loro, giovanissimi e sulla via del non ritorno. Dall'altro, invece, coloro che restano a compiangerli, in quella Danimarca intraducibile, glaciale: il padre permissivo e la mamma distante di Louise; il padre di Liam, irlandese alticcio che non si è mai integrato, e un fratello minore, Jonathan, che a tredici anni si risveglia dagli incubi su un letto bagnato di pipì. La ricerca di un diario segreto, abbandonato in una roulotte in mezzo al nulla. Lo shock impensabile, la sete di vendetta, la voglia di perdonare – e perdonarsi. I pensieri sgradevoli, le pistole che pesano nella tasca del giaccone: ma per uccidere o per uccidersi? Nel frattempo, la mamma di Louise caccia si avvicina al consuocero. Il padre della adolescente, invece, troverà consolazione nella caccia al colpevole, ai mulini a vento, e nel candore della migliore amica della figlia, che prova un dolore simile eppure diverso dal suo. 
Flirt innocui, amicizie inaspettate, nessuna malizia negli abbracci di chi soffre e cerca sollievo in qualcuno che non sia il proprio coniuge. Separati ma spiritualmente insieme, per superare il lutto e un senso di colpa che non va via. La domanda, perenne: cosa hanno fatto? Soprattutto, cosa non abbiamo fatto noi? Il dubbio, a lungo, resta. Scelta consapevole o omicidio? Sanne Munk Jensen e Glenn Ringtved, a quattro mani, ci propongono un linguaggio crudissimo, una scrittura senza fronzoli e situazioni pulp, per lettori con il pelo sullo stomaco. Storia d'amore alternativa, melò con una versione nordica e malaticcia degli intramontabili Romeo e Giulietta, Io e te all'alba fa tappe frequenti nel lato selvaggio e in territori che appartengono più propriamente al noir. Quasi tarantiniano, ad esempio, nel tratteggiare un personaggio come Johanness: signore della droga e boss locale, dai denti geometrici, l'eloquio accattivante e gli hobby – vedi il rettile come animale domestico – grotteschi. Tutte cose che mi piacciono, tutte cose che non mi aspettavo scartando il pacchetto. Fan parte della sorpresa. Però la crudeltà e la sporcizia, che colgono all'inizio impreparati, sconvolgono ma non arrivano: galleggiano in superficie. Però il dolore – fatta eccezione per quello dei genitori, i personaggi più umani e interessanti tra tutti – arriva a ondate e, in definitiva, trattandosi di una storia brutale e cupa, non è abbastanza. E lui e lei, protagonisti di una vicenda a tinte crime, rocambolesca e accidendata, non restano impressi, al contrario di uno spunto e di un incipit che danno i brividi. Gli scandinavi sono abili giallisti, ma con i sentimenti non sono chissà quanto a proprio agio. Il che rende gli autori di Io e te all'alba spietati, con fegato da vendere, ma non troppo partecipi. L'amore tra i due personaggi, al centro di una tragedia che sa di thriller, dà brividi a fior di pelle – l'alone tragico, il disgusto per un simile degrado, la rabbia per la loro irruenza – ma non quello, alla fine, davvero necessario. La freddezza dei loro climi, come mi ha suggerito l'amica blogger Silvia, dev'essergli entrata nella penna, oltre che nelle ossa. Sono secchi e glaciali, la fuga d'amore è sottoposta ad autopsia, ma quei cadaveri ripescati all'inizio nel fiordo, ammanettati per non dividersi mai, hanno corpi gonfie, mani gelide e, nonostante tutto, cuori ancora caldi.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Naughty Boy ft. Beyoncé - Runnin' (Lose It All) 


domenica 13 marzo 2016

Mr. Ciak: Lo chiamavano Jeeg Robot, The Dressmaker, Victor Frankenstein, Regression

C'è solo una frase che, in vita mia, ripeto ancora più spesso di “ciao, cosa leggi?”, ma tant'è. Ripetiamola per chi fa orecchie da mercante e per il leggero disappunto di chi, scalpitante, attende di rincontrare in sala, questa primavera, Batman, gli Avengers, i prodigiosi allievi della scuola del Professor X. A me il cinecomic tradizionale, sogno di infanzia dei tanti, sembra più un mezzo incubo. Non mi piace, dura quanto un lungo film da festival, mi trova annoiato e chiuso a riccio. Dopo la delusione Deadpool, autocompiaciuto e ben poco brillante, ero in cerca della mia eccezione alla regola. Se l'eroe da fumetto americano ti lascia freddo, cosa potrà mai dirti o darti quello nato e cresciuto tra i palazzoni fatiscenti di Tor Bella Monaca, direte voi, che tra l'altro parla solo e soltanto romanesco, ha una maschera fatta all'uncinetto e, per mirabolanti avventure e salvataggi spettacolari, può affidarsi a un budget con una manciata di zeri in meno? Il primo eroe nostrano, uscito qualche Natale fa, faceva in realtà le medie e scompariva nel vento. Portava la firma del buon Salvatores e si chiamava come me. Il ragazzo invisibile, pellicola ibrida sull'infanzia e per l'infanzia, era stata frainteso da chi, prevenuto, non ne aveva saputo apprezzare la delicatezza, le citazioni, quel po' di magia. Se l'intrattenimento per famiglie, il bollino verde alla tivù non fanno per voi, magari dovreste passare a conoscere Enzo Ceccotti. Preceduto da una fama lampo ma non dal solito pregiudizio, che ha la sua da dire lo sapete già. Serve dirlo ancora, perciò? Serve davvero sforzarsi di trovare nuove aggettivi? Lo chiamavano Jeeg Robot, folgorante esordio alla regia di Gabriele Mainetti, è quel che avete già letto ma anche qualcosa di più che, sotto sotto, non ti aspettavi. Non tanto da una produzione italiana, quanto da un eroe che non sia, almeno, l'affabile e emotivo Spider-Man. La regia è consapevole, giovanissima: spuntate quella casella lì. Il villain di un Luca Marinelli istrione, che canta Un'emozione da poco e subito è cult, non sfigurerebbe nel folle squadrone del futuro Suicide Squad: altra casella riempita. New York, per una volta, è salva dagli invasori di una nemica cività, ma Mainetti tocca punti nevralgici e paure nostrane: il sacrosanto derby Roma-Lazio; il Tevere, storica fabbrica di malanni; l'allarmismo di un attentato terroristico, dopo Parigi. Sbarrata terza, quarta e quinta casella. A quello che sapevate e, andate sicuri, perché sono spunti e particolarità che troverete per certo, aggiungo quello che forse vi era sfuggito. Lo chiamavano Jeeg Robot, infatti, sta in curiosi e significativi dettagli: il cattivo ha una sessualità assai dubbia, la principessa in rosa e il suo lui consumano un amplesso brusco e corto in un camerino del centro commerciale, il cavaliere senza macchia guarda porno notte e dì e ingurgita solo yogurt alla vaniglia. Il segreto, in un trio di protagonisti fragili, familiari, elaboratissimi. Lo Zingaro, boss locale interpretato da un Marinelli sopra le righe, è impegnato a sedare una guerriglia tra romani e camorristi. Nel frattempo, sogna un ritorno sul piccolo schermo – lo avevamo visto al Grande Fratello, o forse era Buona Domenica? - e spera che, se non le sue doti canore e il look studiato, sia il culto della violenza a condurlo alla gloria mediatica. La lei del falso Jeeg, interpretata dalla deliziosa Ilenia Pastorelli, è sensuale, inconsapevole, matta. Qualcuno l'ha fatta piangere, da bambina, e adesso si imbatte nello scortese Enzo, che purtroppo non sa amarla nel modo giusto. All'ex gieffina, rivelazione in abito confetto, si affianca il corpulento Santamaria della porta accanto, che nelle sequenze iniziali si becca radiazioni e superpoteri. E, paradossalmente, all'inizio incapace di qualsivoglia tenerezza, scortese e misantropo, è con la mutazione – e con la trasognata Pastorelli per mano, come Reno e la Portman nello splendido Léon - che rispolvera l'umanità di cui, in fondo, è capace. A malincuore, mi trattengo mezzo voto – puntavo, infatti, a un otto pieno – per un epilogo che, a tratti, può rivelare la perdonabile modestia della produzione e la parentesi di un'organizzazione criminale che, sulla scia delle cupe crime stories di Sollima e Placido, avrebbe meritato un'indagine maggiore. Splatter, autoironico, hard boiled, tenerissimo, Lo chiamavano Jeeg Robot è tanta roba (la “b”, prego, è doppia): dagli americani prende due professionisti sorprendentemente versatili – com'è noto, Santamaria e Marinelli hanno curato anche le tracce della sconvolgente colonna sonora sanremese – ma agli americani, sottovoce, insegna l'emozione non da poco che mancava. Ha un cuore d'acciaio, nessuna paura e tutti noi, che gli restiamo accanto: perché lui, che corre e va per la terra, che vola e va tra le stelle, è il Jeeg che aspettavi ma non ti aspettavi. Lui, lui che può. (7,5)

Arrivavano con l'alzarsi del vento e con la Quaresima alle porte, mamma e figlia, per scombussolare i fioretti dei parrochiani e gli equilibri di un incantato borgo francese. In Chocolat, la bella pasticciera Binoche seminava zizzania. Si alza il vento anche in The Dressmaker e, in una Australia degli anni cinquanta che sembra uscita dal vecchio west, rotolano in stada le balle di fieno e sbattono gli stipiti delle porte. Spunta di notte, come una strega, la figliol prodiga e prende possesso della casa sulla collina. Un tubino rosso fuoco, i tacchi a spillo, un abito per ogni occasione che attira sguardi di disapprovazione. Tilly Dunnage, stilista alla moda, è una donna in cerca un po' di risposte e un po' di vendetta. L'hanno bandida da quelle terre, alla stregua di un demonio, e spiandola tutti mormorano “assassina” a mezza voce. Però quant'è seducente. Però quant'è rancorosa. Sarà vero oppure no che, da bambina, ha spezzato il collo a un coetaneo, sperando di farla franca? The Dressmaker, presentato in anteprima al Torino Film Festival, è una squisita commedia retrò, sullo sfondo di una polverosa Australia e  cucita sulle misure di Kate Winslet: procace, espressiva, costante nelle interpretazioni. I brutti anatroccoli diventano cigni, saltano i matrimoni combinati e, dagli annales, fanno capolino tresche segrete e scandali. L'eroina senza padre marcia, indomita come un'amazzone, e in cerca della verità mostra che rivalsa e guerriglia non sono cosa da uomini e che il gentil sesso, vedi l'omertà e i colpi proibiti, così gentile non è. Nella sua guerra privata, toni grotteschi, messaggi in filigrana e comprimari irresistibili: una straordinaria Judy Davis, genitrice nevrastenica; l'esilarante sceriffo Hugo Weaving, che dopo Priscilla torna al sogno dei boa di piume e dei lustrini; un galante Liam Hemswort, non il solito marcantonio senza arte né parte. La prima parte, frivolissima e spensierata, trae in inganno; la seconda, con questa protagonista che si attira lutti da ogni parte, prende in contropiede. Esiste la sfortuna? A cosa può spingere provare che il tuo amore e più forte dell'odio altrui? Più che dai colori pastello, allora, The Dressmaker si rivela essere una commedia nera in transizione. Un novello Chocolat, sì, ma più caustico, che avvelena i diabetici e della gramigna, erba infestante, fa un doveroso falò di vanità. (7)

La scintilla del fulmine, un corpo mostruoso che prende vita, uno scienziato che – dall'alto del suo spirito di onnipotenza – urla “è vivo”. Cosa c'era prima della creatura, il suo esperimento più riuscito? Era una professione solitaria quella del medico sui generis di Mary Shelley e com'erano la sua gioventù, il suo passato, prima che inventiva, curiosità e genio lo portassero sulla via del non ritorno? Dopo l'attento Branagh e il dissacrante Brooks, senza voler ricordare infinite miniserie tivù né scomodare i grandi classici della settima arte, da inserire nello stesso filone di retelling in chiave dark (ma non troppo) di Dracula Untold e The Wolfman, arriva Victor Frankenstein. La storia che abbiamo letto e riletto, visto e rivisto, ma in chiave giovanile e parzialmente postmoderna. Un po' prequel e un po' reboot, ha la sua particolarità in un approccio scanzonato, che nella prima parte coinvolge decisamente, e nel narratore: non il Victor del titolo, enigmatico e spregiudicato rampollo, bensì Igor, il suo deforme braccio destro. Chi era e come si conobbero? Con Max Landis, figlio di cotanto padre, a scrivere e Paul McGuigan, da me molto stimato in Slevin e Wicker Park, alla macchina da presa, Igor – salvato dal circo, innamorato di un'avvenente trapezista, guarito dalla sua famosa deformità – diventa socio alla pari, coinquilino e migliore amico. Interpretato da un Radcliffe che sa prendersi poco sul serio e convincere, è lui, in definitiva, la sola creazione senza intoppi di un McAvoy esagerato, carismatico, la cui parlantina lascia francamente ammaliati. Tanto il primo lavora a sottrarre, quanto il secondo ad aggiungere e, soprattutto nella prima ora, si raggiunge un equilibrio che convince, pur coi suoi limiti. E, strana coppia che non sono altro, ricordano moltissimo Law e Downey Jr. nello Sherlock Holmes secondo Guy Ritchie: altrettanto leggeri, fisici, disimpegnati. Le cose funzionano meno, purtroppo, nell'epilogo: una festa di effetti speciali, l'ennesimo e poco necessario trionfo della computer grafica, in cui la sceneggiatura di Landis si riallaccia come può al capolavoro ottocentesco, ma il risultato, con il mostro che ricorda un orco del Signore degli anelli e una o due esplosioni in surplus, lascia a desiderare. Più affascinante e meglio recitato dell'accoppiata Stoker-Luke Evans, meno soporifero di uno sbagliato Benicio Del Toro in versione licantropo, il novello Victor Frankenstein, godibile fino alla fine, non serviva e comunque non meritava il pubblico linciaggio ma, poco ma sicuro, con l'accoppiata coperta e divano, in una visione casalinga e con la pioggia fuori, garantisce una non trascurabile compagnia. (6)

Negli anni, il cileno Alejandro Amenàbar si è rivelato una giovane promessa su cui puntare. Dopo l'esordio con il noir Tesis, che purtroppo mi manca, ha mietuto grandi consensi con l'onirico Apri gli occhi, a cui dobbiamo il per me bellissimo Vanilla Sky; lo psicologico The Others, con una Kidman che sembrava Grace Kelly; il premiato Mare dentro; il rabbioso ma illuminante Agorà. Torna alla base, alle origini, con un thriller a tinte horror scritto e diretto da lui in persona. Ma ne siamo proprio sicuri? Regression segue le indagini dell'agente Kenner: Angela Gray, diciassettenne pietrificata dallo shock, ha accusato il padre di violenza carnale, in una ristretta e bigotta cittadina statunitense. Ma c'è di più. Uomini di nero vestiti, chiamate nel cuore della notte e incubi ricorrenti, potrebbero indicare – come Angela, d'altronde, giura – la presenza del Maligno? Stupro brutale o sacrificio rituale? L'ipnosi, tecnica sperimentale negli anni Novanta, per scovare quel che le vittime hanno rimosso. Regression parla di suggestione, e suggestiona: i suoi protagonisti si muovono infatti tra il sonno e la veglia, nottetempo, e tutto è dubbio e mistero. La resa visiva, ottima, cattura coi toni di grigio, la pioggia perenne, i vetri appannati delle auto. Ma l'ultimo Amenàbar diventa – neanche a farlo apposta – altrettanto grigio, slavato, appannato. Faticoso nell'esposizione, cervellotico e cavilloso invano. Nella chiusa, scontatissimo. Il detective accigliato, l'adolescente vittima di abusi, le ombre lunghe e il sospetto dei riti satanici. Cosa è vero e cosa no? Dov'è che finisce la superstizione e inizia la verità? Regression gioca a carte scoperte sin dall'inizio e, per tutto il tempo, invano, soffia fumo negli occhi. Ethan Hawke, in parte al solito, sfrutta il fascino dannato che naturalmente si ritrova e che io gli invidio. Emma Watson, attesissima in un ruolo distante anni luce da quello dell'indimenticata Hermione, con l'espressione sempre afflitta e l'aria da Santa Maria Goretti, è forse la peggiore attrice dello scorso anno. Un ruolo chiave, un personaggio ambiguo – ora serafico, ora diabolico -, ma lei eccede di smorfie, faccine e la sua bellezza senza fronzoli finisce per convincere più di una prova da recita scolastica. Allieva della stessa scuola di Keira Knightley e Barbara D'Urso, secondo voi? Ancora, Regression parla di fede e credenza. Crederci è la parola chiave. E io, assonnato e irritato dalle lacrime di coccodrillo di lei, non ci ho creduto neanche un po'. (5-)