venerdì 29 aprile 2016

Recensione in anteprima: Dentro soffia il vento, di Francesca Diotallevi

Resta con me, però. Odiami, ma resta con me. 
Disprezzami ogni giorno della tua vita, ma resta con me.

Titolo: Dentro soffia il vento
Autrice: Francesca Diotallevi
Editore: Neri Pozza
Prezzo: € 16,00
Numero di pagine: 219
Data di pubblicazione: 5 Maggio 2016
Sinossi: In un avvallamento tra due montagne della Val d’Aosta, al tempo della Grande Guerra, sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in mezzo alle quali spunta uno sparuto campanile. Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano guizzare come lingue di fuoco in un camino. Come faceva sua madre quand’era ancora in vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni » approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi. Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce, l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato. Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi ed era diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul cappello, e non era più tornato. Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.

                                            La recensione
"Per questo amavo i libri: rendevano le persone migliori. A volte, le salvavano."
Sono passati tre anni, ma qualcosa che rimane c'è. 
Nonostante tutto. Gli scatoloni in casa che, questa volta, ci distraggono come possono dalle voragini delle assenze. Una corrispondenza che mi aveva fatto scoprire, a sorpresa, un talento limpidissimo. Questa Neri Pozza, così ambita e così per pochi, tirata in ballo in una discussione, per caso. 
Gli scatoloni erano per il primo anno fuori, l'inizio di un'avventura coi suoi alti e bassi chiamata università, e su Facebook scrivevo ai miei amici blogger – a una in particolare, e lei sa di chi parlo: sì, dico a te – che stavo leggendo il romanzo di un'esordiente che, a ogni pagina, mi lasciava a bocca aperta. Si nasce già tanto bravi, possibile? Cercavo risposte e, nel mentre, dispensavo consigli. Le stanze buie era uscito con Mursia Editore, in sordina, ma elegante e corposo com'era, bellissimo, era un Neri Pozza nel sangue e nell'inchiostro. Lo leggevo immaginando la loro inimitabile brossura sotto le mani e auspicando per Francesca, soprattutto, un futuro presso chi traduceva Nicholls, la Harris, Tracy Chevalier. La tappa con Mondadori Electa, con l'Amedeo je t'aime che lo scorso autunno aveva seminato, in libreria, cuori spezzati e stampe di Modigliani, non ci ha distratti però dalla meta. A ottobre, vince la sezione giovani del Premio Neri Pozza, con una storia che scrive di getto e di pancia, in tempi record. Ci pensa su, scrive e riscrive, modifica: infine, trionfa. Di quella storia sentita nel profondo, tagliata e cucita, mi dicono che già in origine, però, ci fossero i clivi mozzafiato di Saint Rhémy, due fratelli diversi come il giorno e la notte e un titolo, una brezza, che disturba i falò e, da una scintilla, così, fa nascere Fiamma. Il genere, con un borgo di poche anime, gli alberi ghiacciati e antiche leggende, veniva chiaramente da sé: realismo magico. Anticipano il romanzo Le grand diable, prequel in ebook per ingannare l'attesa, e le parole di quello stesso blogger distratto di indole, ma messo in allerta, da matricola, da una penna eloquente e rara. In Dentro soffia il vento ci sono la bufera, i paeselli fiabeschi, i profumi speziati e le donne coraggiose, ma vittime del pregiudizio più vile. Gli zingari, appostati ai margini, che, ci spiega Francesca, sono uccelli che hanno barattato le ali per i piaceri della tavola e le gioie dei sentieri battuti. Ancora, ci sono tre narratori. Le signore del bosco, le streghe, che non cercano compassione ma, in inverni che non perdonano, desidererebbero una parola buona; calore umano. C'è il soffitto che perde, le ossa che scricchiolano e un amico, o è qualcosa di più, chissà, che si è rimangiato la promessa. 
Quello che non c'è, invece, è la complicità di Yann, torvo fratello maggiore, con vergogne che non ammette ad alta voce – la zoppia, la notte in cui scelse la vita al posto della morte – e sentimenti che non confessa neppure a se stesso. Perché anche Fiamma, come Yann, sente la mancanza di quel giovane che la guerra si è mangiato in un sol boccone: la piuma nel cappello, le lettere nascoste sotto il materasso e il sorriso speranzoso di chi, in fondo, sperava che ci fosse qualcosa di bello oltre le Alpi. Al di là della guerra. La terza voce, accanto a quella di un contrito superstite e di un'adolescente che pare possa trasformarsi per magia in una volpe rabbiosa, appartiene ad Agape: un giovane Don Abbondio di città, impreparato al rigore di certi climi, all'ottusità di certe teste, con un affiatato gregge di fedeli a cui badare; laggiù, in fondo al pascolo, un'isolata pecora nera – anzi, rosso fuoco – che gli insegnerà che Dio è nei dettagli. Dentro soffia il vento mi è piaciuto molto, ma i romanzi che l'hanno preceduto mi sono piaciuti moltissimo: su Francesca, il peso delle aspettative che il superlativo assoluto genera, di solito, e quello di un esordio perfetto, che è eccezionalmente metro di paragone. Appartiene, infatti, a un genere già connotato. Ma è frutto di un'autrice senza pecche, brava come sostengo da un po'. I toni sono dolcissimi, poetici, e questo realismo magico ha sfumature affascinanti come poche; che, leggendo tanto, non ce ne siano forse di nuove? 
Mi vengono in mente due romanzi amatissimi da queste parti: Acquanera, con le matriarche spettrali, le pulsioni segrete, laghi come pozzi senza fondo; Il cuore selvatico del ginepro, storia di cogas e Sardegna, sull'affetto negato e trasformazioni psicofisiche che di paranormale, in definitiva, avevano ben poco. Sanguigna la D'Urbano; aggrappata alle sue radici isolane, la Roggeri. Accanto a Ianetta e Fortuna, che giocano nei cimiteri e nelle baracche a strapiombo, donne forti o streghe presunte, lasciate tutto lo spazio possibile a Fiamma: fragile e ferina, ci insegna che l'umanità si dimentica con il disuso, ma non si rinnega mai. Dentro soffia il vento ha, all'orizzonte, i monti delle vacanze d'infanzia di Francesca. Le giornate corte, i cappotti pesanti per sfidare un vento che si è insinuato perfino negli animi e che fa battere i denti, gli animali selvatici – tutt'altro che spaventosi, per i gattari come noialtri – e i fiori e le erbe che conferirebbero inedite fragranze ai profumi dell'indimenticata Lucilla Flores. In un filone che, di per sé, ha una tradizione dai solchi profondi alle spalle e valanghe di eventi concatenati – lo definivamo, appunto, un genere suggestivo ma senza più segreti – la Diotallevi risponde per le rime, con segreti che non condivide con chi ha orecchie indiscrete. Una semplicità che premia sempre, e un talento che brilla al buio. Anche in boschi nodosi o in trame, al contrario, meno contorte di quanto sembrerebbe. Ad alta quota, sì, ma senza spine tra i rovi. Sotto zero, ma con le mani fredde – protese, magari, verso il diverso da te – e il cuore caldissimo. Cos'altro dirle? Me lo ero chiesto, qualche settimana fa, dopo la lettura di un prequel bello, ma non all'altezza delle sue capacità. Mi ripeto tutte le sente volte? I termini vengono da sé, invece, e gli aggettivi abbondano. Perché, tutte le sante volte, Francesca ci incante, anche con storie all'apparenza meno ambiziose, ma ricamate a punto croce nel ghiaccio. Quest'ultima, non si scioglierà col sole. Fiamma, sul suo palcoscenico all'ombra delle Alpi, sopravvive alla primavera delle mie grandi attese. E sposa il vento, e il suo lettore, in un sì che riecheggia, se in alta montagna.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Elisa – Luce 

giovedì 28 aprile 2016

Mr. Ciak: The VVitch, Nonno scatenato, Il cacciatore e la Regina di ghiaccio, The Boy, The Night Before

Allontanata dalla comunità di appartenenza, una famiglia puritana si sposta in una fattoria del New England. Fuori, il granaio e un bosco in cui è vietato inoltrarsi. La sorella maggiore, Thomasin, gioca sul prato con il più piccolo dei suoi fratelli: bubù-settete, e il neonato scompare in un lampo. Le continue sparizioni e i misteri che si rinnovano conducono proprio all'adolescente, pallida e seducente. La madre è sospettosa, il padre pende dalle sue labbra, i gemelli chiacchierano con un caprone nero e accusano la sorella di adorare il Maligno, il fratello in pubertà è segretamente attratto dalle sue scollature profonde. Stregoneria? The Witch, acclamatissimo e subito annunciato come horror dell'anno, ha più di qualche falla nelle trame, colmata però dal potere della fascinazione – che risulta, in definitiva, immensa – e da una colonna sonora che si concede picchi agghiaccianti. Cupissimo, ha una fotografia impeccabile e la quiete apparente del cinema che più stupisce da queste parti: quello indipendente. Pensato come racconto per non dormire, oscilla tra il dramma domestico e la fiaba nera. I quadri sapientemente cesellati di una famiglia che cresce all'ombra di un Dio vendicativo, di un Medievo che ritorna, mi hanno ricordato i quattordici piani sequenza che componevano l'interessantissimo Kreuzweg – Le stazioni della fede e la suggestione di un The Village: ascetismo, superstizione, follia. Flash onirici, brutture, incubi ad occhi aperti. Leggenda o verità? Angoscioso e ambiguo, pretenzioso giusto un po', The Witch è una tragedia a tinte fosche, febbricitante ma preoccupantemente verisimile. Psicologicamente infallibile, anche se già proposta altrove. Comunque, mai così. Nella maniera personale, e forse troppo greve, del cinema di nicchia. Si rimangia la promessa della paura, dunque, ma attrae e destabilizza: meno emotivo di un The Babadook, più sensato di quel buco nell'acqua di It Follows. Per tutto il tempo, così, ti domandi: cosa sto guardando? Ed è così ben realizzato, recitato con tanta di quella naturalezza, che il dubbio è un piacere scellerato. Non il capolavoro annunciato a gran voce, proprio no, ma l'opera prima di un esordiente di razza. Uno di quei rari horror per palati fini, che in sala non troveranno mai posto, d'estate. (7)

Vedovo di fresco, un pensionato convince il più giovane dei suoi nipoti a seguirlo in uno spensierato viaggio verso una landa tropicale piena di sole, alcolici e modelle in bikini. Non è forse un paradiso la lontana Daytona, durante lo spring break? Di certo non per il responsabile Jason, trascinato dal nonno in una delle sue ultime missioni: istruire il nipote sui miracoli del carpe diem e, soprattutto, darsi al sesso riparatore con un'universitaria a caccia di facoltosi attempati. Dirty Grandpa è stato definito, e non a caso, un trito, sboccato e spiccio cinepanettone statunitense: sbronze, doppi sensi, chiappe al vento, peti fragorosi e chi ne ha più ne metta. Zac Efron viene spogliato, deriso, croficisso: gioca al meglio le sue carte – fisico scolpito e karaoke che ricordano a quelli della mia generazione, con un moto di vergogna sottile, i duetti di High School Musical – e, a sorpresa, si rivela una buona spalla comica. Con lui, parte fondamentale della strana coppia, il nonno sporcaccione del titolo: un Robert De Niro trashissimo, al meglio del suo peggio, che in camicia hawaiana e in una libera interpretazione dei ruoli di Boldi, rischia di mettere una pesante pietra tombale sopra i capolavori che costellano la sua carriera; piace di più, tuttavia, che nei panni di vecchi mafiosi o, ancora, dell'antipatico feticcio di David O. Russel. Meglio fermarsi, caro Bob, prima di un altro passo falso che somiglia preoccupantemente a un'altra commedia da poco come questa? Per alcuni, non c'è dubbio: la risposta è sì. Per me, che lo reputo autoironico e furbissimo, non proprio: come dicevano i latini, “pecunia non olet”. Condiscono qualche gag politicamente scorretta, trivialità e mercanzia in mostra, tre bellezze: l'adorabile Zoey Deutch, la leziosa Julianne Hough e, su tutte, una maialissima Aubrey Plaza. La commedia demenziale su un demente per patriarca è ritrita e spiccia, becera. E, qui e lì, mi son proprio ma proprio divertito. (6)

"Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?" Quattro anni fa, lo specchio dava ben due risposte – le punte kitsch di Mirror Mirror, l'epos non per palati fini di Biancaneve e il Cacciatore – e, a lasciare stupiti, era quella che vedeva vincere, in una gara di bellezza e acume, la principessa guerriera di una Kristen Stewart che non aveva ancora preso lezioni di recitazione. Come poteva, inespressiva e mascolina, sconfiggere la splendida Charlize Theron? Serviva un prequel/sequel, con il per sempre felici e contenti già agguantato, la strega assassinata e l'ex Bella Swan che, nel frattempo, si è data con stupore generale ai film da festival? Scontata la risposta, esile il pretesto. Lo specchio di Ravenna, all'interno del quale è imprigionata la sua anima, rende folle chiunque vi sia vicino. Come l'anello per Frodo, porta tormenti e avventure alla squadra che, seguendo gli ordini di un Sam Claflin di passaggio, devono distruggerlo. L'impresa è nelle mani di Eric, ancora una volta impersonato da un Chris Hemsworth che si destreggia discretamente tra martelli e scuri: cos'è successo alla sposa del Cacciatore e dove è stato allevato per diventare chi doveva diventare? Si introduce, allora, la storia della Regina di ghiaccio: una variante psicotica e fragile della Elsa di Frozen, interpretata da una buona Emily Blunt in lotta, però, con l'ancor più b(u)ona Theron. Nonostante la presenza di un'altra rossa da me amatissima, quella Jessica Chastain qui troppo sprecata, a vincere la disputa è la modella sudafricana, che, senza l'accigliata Kristen nei dintorni, non solo tiranneggia ma porta questo secondo capitolo dalla dubbia utilità a risultare un po' più coinvolgente del precedente. Perché, sì, a me Il cacciatore e la Regina di ghiaccio ha regalato due ore che non richiederei indietro: movimentato, dark e, complice la presenza del nano di Nick Frost, spassosissimo. Una scatola di star infiocchettata con stile, con un terzetto di prime donne che sono una gioia per gli occhi - e per i costumisti di ogni dove. (6)

Greta trova lavoro nella casa sbagliata. Cosa c'è di meglio di una villa nella campagna inglese, di un ruolo da tata che comprende vitto e alloggio e di due padroni di casa affabili e generosi? Gli Heelshire nascondono un segreto: il bambino di cui Greta dovrà prendersi cura è un fantoccio. Ci sono regole ferree da seguire, e una di queste prevede che la protagonista tratti Brahms come fosse un bambino di carne e ossa. The Boy, thriller d'atmosfera firmato da un giovane regista che già ha fatto danni nel mondo dell'horror, è trascurabile ma non pessimo. Spiccano una regia stranamente raffinata, gli interni labirintici della villa, sprazzi affascinanti. Ha un'idea bella, ma mal gestita. L'incipit, canonico ma citazionista, ricorda le prime pagine dei romanzi d'appendice ottocenteschi: giovane di belle speranze in un mausoleo di misteri. Le scenografie, allo stesso modo, strizzano un po' l'occhio ai deliziosi orpelli gotici di un Del Toro e il tentativo di fare del silenzioso Brahams la nuova Bambola assassina, per fortuna, non è stato azzardato. The Boy, così com'è, ma spostato al passato, sarebbe stato un prodotto gotico senz'altro più accattivante. Mancano la volontà e la consapevolezza, mancano le eroine di Henry James. Lauren Cohan, che ha un sorriso bellissimo e poco altro, interpreta un personaggio dalla psicologia spiccia. In lei, reduce da una gravidanza interrotta, il senso materno si risveglia bruscamente e per caso. I comprimari, inservibili, non hanno la scintilla. Tra ricercati cliché, un andamento prevedibile e qualche spauracchio non andato a buon fine, questo The Boy né bello né brutto, ma scritto troppo di fretta, tenta l'effetto sorpresa con un twist ad effetto, anche se già visto in un horror piccino, australiano, che però non vi svelo... Annacquato il finale, furbastra l'idea di lasciarsi aperta la porta di un sequel che vedrei aspettandomi solo il peggio. L'inanimato Brahms, spettrale e maestro degli sguardi in camera, offre comunque la performance migliore. (5)

La festività per eccellenza che prevede imbarazzanti reunion e tradizioni familiari da cui mettersi in fuga, a volte, presenta delle costanti che fanno eccezione, perché non infastidiscono e, miracolo, non vengono a noia. Qual è il segreto di tre amici che si prendono un notte per rinforzare il loro legame e tornare per un po' i ragazzini brilli e leggeri dei bei tempi andati? Essenzialmente, ci dice The Night Before, droghe libere, cicchetti a volontà e feste blindatissime. Trentenni ed eterni Peter Pan, i protagonisti danno il via a un alcolico amarcord che sembra qui e lì una riscrittura demenziale (ma non troppo) di A Christmas Carrol. C'è chi si prepara a diventare papà; chi, giocatore di basket, non si rassegna al pensionamento a suon di anabolizzanti; chi, musicista senza arte e senza legami, rivive il trauma della morte dei genitori. Per fortuna, ci sono le sostanze stupefacenti – e le risate assicurate. Destinato all'homevideo e ribattezzato Sballati per le feste, The Night Before, con quel popò di cast e alla regia lo stesso autore del toccante 50 e 50, da noi non passa in sala – quando invece il mio spirito del Natale agonizzante avrebbe assai gradito – e viene bollato come un The Hangover a tema. Me lo aspettavo dai neuroni affumicati e caricaturale, sconclusionato, e da amante della comicità di un The Interview la cosa mi andava pure a genio: i cameo che non ti aspetti, le battute antisemite e un politicamente scorretto che si tempra con il romanticismo, però, non mancano. L'esilarante Seth Rogen e un Joseph Gordon-Levitt dai tempi comici a me sconosciuti formano un affiatato terzetto insieme ad Anthony Mackie, e inseguono Lizzy Caplan, Mindy Kaling e il destino, in una barzelletta sotto sotto un po' vera in cui Miley Cyrus fa da damigella d'onore, un bicurioso James Franco invia foto oscene al solito "compare" Rogen, e Michael Shannon, mai così inedito, fa da pusher e angelo custode. (6,5) 

lunedì 25 aprile 2016

Recensione: Storia di un postino solitario, di Denis Thériault

Ma soprattutto c'erano lettere d'amore. L'amore restava il più comune dei denominatori, il tema che conciliava quasi ogni penna. L'amore declinato in tutti i tempi e in tutti i modi...

Titolo: Storia di un postino solitario
Autore: Denis Thériault
Editore: Frassinelli
Prezzo: € 16,90
Numero di pagine: 170
Sinossi: Chi non ha mai sognato, almeno una volta, di vivere la vita di qualcun altro? Lirico e avvincente, emozionante e delicato, Storia di un postino solitario è davvero un piccolo gioiello, e un non più piccolo caso editoriale, dal momento che – pubblicato per la prima volta in Canada nel 2004 – il romanzo ha conquistato, un lettore alla volta, un sogno alla volta, il palcoscenico dell'editoria mondiale. Il « postino solitario » è Bilodo, 27 anni, un ragazzo schivo, con pochi amici, appassionato e dedito al suo lavoro, lavoro che gli permette di trovare nelle vite degli altri quello che manca nella sua. Bilodo infatti è un postino indiscreto, per quanto assolutamente innocuo: apre, di notte, le lettere che dovrà distribuire il mattino successivo, e si immedesima nelle esistenze dei corrispondenti. Immagina, fantastica, sogna; si appassiona, si commuove, si arrabbia. Tra tutte, le lettere che più è ansioso di «ricevere», sono quelle di Ségolène, una donna misteriosa che vive in Guadalupa, e che manda degli «haiku» – i caratteristici componimenti poetici giapponesi – a Gaston Grandpré, una delle persone servite da Bilodo, che di Ségolène, in qualche modo, si è innamorato. Quando, a causa di un incidente, Gaston morirà, proprio sotto gli occhi di Bilodo, il giovane postino non riuscirà a rassegnarsi alla perdita di quei componimenti che ormai sente in qualche modo come «suoi», e si sostituirà a Grandpré nella corrispondenza con Ségolène . E non soltanto in quella.

                                                  La recensione
Bilodo, ventisette anni, ha uno strano nome e, se possibile, un hobby ancora più strano. Malinconico cronico, apparentemente asessuato, con la testa fissa lassù tra le nuvole, è un postino a tempo pieno e nel suo monolocale smista la posta, in previsione del mattino successivo. Qui, con l'aiuto del vapore, apre le lettere, le legge, poi le richiude come se nulla fosse. Si diverte, si arrabbia e si commuove, intrufolandosi nelle vite degli altri. Entra ed esce, discreto. Ma se di una vita, di una coppia, non riuscisse più ad abbandonare la metaforica soglia? 
Bilodo s'innamora perdutamente della penna gentile di Sègolene, bella isolana: ecco un suo primo piano, in una foto rubata, ed ecco che così non smette di pensare notte e giorno a lei... Il suo rivale in amore, scapigliato e misterioso, viene investito davanti allo stesso Bilodo, affastellandosi in strada per imbucare una lettera decisiva. Muore sul colpo, sotto la pioggia. Il protagonista, un po' tenero e un po' sinistro voyeur, dal defunto eredita le briglie della corrispondenza e un appartamento ammobiliato in stile orientale in Rue des Hetres. Passeggia tra i beni che nessun parente ha reclamato per sé e, esperto di grafie, tenta di ingannare la sua lei come può, ma c'è un ma grosso quanto una casa. Bilodo sarà sì l'ultimo dei romantici, ma non ha l'indole del poeta. Per fortuna, c'è un kimono appeso a una gruccia che può far faville. E la curiosità, imperitura, lo spingerà a documentarsi, a leggere, a ricercare. Si possono imparare i segreti della scrittura, nel nome dell'amore? Può a una passione aggiungersene all'improvviso un'altra? Storia di un postino solitario, ultima uscita di un editore che raramente fa passi falsi, presenta due aspetti che in teoria amo, ma che in pratica non mi arrivano: la connaturata delicatezza della lingua francese, l'affascinante spiritualità della poesia nipponica: troppo trasognati i francesi, troppo algidi gli autori con gli occhi a mandorla. A questo, però, aggiungete la cornice dei rossi autunni canadesi, un eroe indiscreto ma a fin di bene, una musa celebrata come nello Stil novo, due comprimari simpaticissimi – l'amico Robert, la cameriera a cui il postino ha infranto il cuore – e, tra un haiku e l'altro, gradualmente, un sentimento che da spirituale si fa carnale. 
Da platonico, può l'amore diventare vero? Può un appuntamento tra un impostore e una donna ignara dello scambio di identità perpetrato avere il lieto fine? Uscito dodici anni fa in patria e straordinario successo del passaparola, il romanzo di Denis Thériault è una sofisticata sorpresa franco-canadese che, dalla sua, ha un'idea curiosa per un curioso protagonista e uno stile leggerissimo. Fiabesco, quasi, con poche pagine, rari dialoghi e aggettivi à gogo che non lo appesantiscono neanche per un attimo, anzi. Uno spunto d'altri tempi e, in mezzo ai brevi componimenti poetici già apprezzati durante la lettura di Il canto delle parole perdute, il disegno di un anello che somiglia al serpente che si morde la coda di Nietzsche. Simbolo d'eterno ritorno per il filosofo tedesco e "enso" per il buddhismo zen, è infatti l'ultimo segreto di un racconto a spirale carinissimo, molto francese, a cui con la scusa degli haiku, con il pretesto della suggestione, si aggiunge una chiusa shock. 
Un colpo di scena repentino, dopo languidi colpi di cuore. 
Come a dire che c'è una magia sottile nell'amore incorporeo tra Bilodo e Sègolene, e che la magia chiama magia. E se la lingua più delicata incontra i culti più suggestivi, se i protagonisti dicono di sì a un appuntamento faccia a faccia, non c'è freno al sogno.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Please, Mister Postman

venerdì 22 aprile 2016

Recensione: Fai bei sogni, di Massimo Gramellini

Fai bei sogni. Anzi, fateli insieme.
Insieme valgono di più.

Titolo: Fai bei sogni
Autore: Massimo Gramellini
Editore: Longanesi
Numero di pagine: 209
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Fai bei sogni è la storia di un segreto celato in una busta per quarant’anni. La storia di un bambino, e poi di un adulto, che imparerà ad affrontare il dolore più grande, la perdita della mamma, e il mostro più insidioso: il timore di vivere. Fai bei sogni è dedicato a quelli che nella vita hanno perso qualcosa. Un amore, un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di accettare la realtà, finiscono per smarrire se stessi. Come il protagonista di questo romanzo. Uno che cammina sulle punte dei piedi e a testa bassa perché il cielo lo spaventa, e anche la terra. Fai bei sogni è soprattutto un libro sulla verità e sulla paura di conoscerla. Immergendosi nella sofferenza e superandola, ci ricorda come sia sempre possibile buttarsi alle spalle la sfiducia per andare al di là dei nostri limiti. Massimo Gramellini ha raccolto gli slanci e le ferite di una vita priva del suo appiglio più solido. Una lotta incessante contro la solitudine, l’inadeguatezza e il senso di abbandono, raccontata con passione e delicata ironia. Il sofferto traguardo sarà la conquista dell’amore e di un’esistenza piena e autentica, che consentirà finalmente al protagonista di tenere i piedi per terra senza smettere di alzare gli occhi al cielo.
                                                La recensione
Naturalmente pessimista, avevo pensato di scrivere un post di riepilogo in questi giorni. Perché ci sono novità – né belle né brutte, solo novità nuove – e avrei potuto non avere la connessione internet fino ai primi di maggio. E invece no. Perchè se qualcuno lassù mi odia, come dico da un po', sarà andato in ferie per qualche giorno, lasciandomi traslocare in pace e riallacciare il contratto con Infostrada senza le solite grane. Non sono abituato, infatti, a cose che filino lisce lisce da... mai. Da mai, e dallo scorso dicembre: periodo buio in cui mi ero raccontato – e vi avevo tormentato, me ne scuso ancora – con un post triste e personale che è meglio non rivangare, su. All'indomani di quella cosa lì, e chi non la sa magari la intuisce o lavora di fantasia, succede che mi trasferisco. Di pochi passi, praticamente, ma in una casa di vetro più grande e più vuota. Nel post in programma, poi andato a monte per una Sfortuna partita in viaggio d'affari (cosa tramerà, questa volta?), vi avrei parlato di una vita negli scatoloni, della tanta fatica per dare una sistemata alla libreria, di persone che mancano all'appello – ma ogni tanto, rispetto allo scorso inverno, ci sono alzando la cornetta – e di un punto fermo messo a qualcosa che avevo per le mani da un po'. Vi dirò meglio e di più a scatoloni impiliati: a cose fatte. Questo ipotetico post, per titolo, avrebbe forse avuto una frase di una canzone dei Subsonica, Di domenica. Dice che i cambiamenti sono tali solo se spaventano. La paura c'è, ché sono un tipo malinconico e abitudinario, e c'era un libricino preso in prestito in biblioteca a farmi compagnia, con la ditta di traslochi che si affastellava tutt'intorno e i mobili Ikea che richiedevano istruzioni più chiare e tante di quelle bestemmie... Una lettura vagamente a tema, per me che credo in tutto e niente, ma nei segni decisamente sì. Una storia vera, la copertina azzurra e, sulle alette, il resoconto di un successo straordinario. Dando un'occhiata anche alle presenze italiane a Cannes, tra l'altro, scopro che ha ispirato una trasposizione che sarà presentato lì in anteprima: la regia di Bellocchio e, nel cast, quel Mastandrea che era già stato un figlio complessato e tenerissimo per Virzì, in La prima cosa bella. Gramellini lo avevo letto qualche Natale fa in coppia con Chiara Gamberale – lui angelo custode, lei incustodibile trentenne dal cuore infranto – e, da allora, la curiosità di rileggerlo non era stata tanta. Fai bei sogni era già un successone, lui continuavo a seguirlo con interesse a Che tempo che fa, ma allora ero diverso e più spensierato io. Credevo ancora nel Natale e sapevo su chi contare. 
Cos'è cambiato, a un tratto? Qualche anno dopo, fulmini a ciel sereno e dolori in scorrimento automatico mi hanno fatto sentire Gramellini vicinissimo. L'ho recuperato da uno scaffale, perciò, e l'ho portato a casa, preparandomi ai pianti inconsolabili e a una specie di pace – con me stesso, con chi vive ma altrove. Il titolo racchiude le ultime parole che, rimboccandogli le coperte, la mamma ebbe per il Massimo bambino. Dopo la buonanotte, sarebbe infatti morta d'infarto; la sua salute, già compromessa per la chemioterapia. Per un brutto male che andava e veniva a proprio piacimento. Massimo, così, cresce sentendosi abbandonato: sindrome che ho sviluppato, sebbene ventenne, anch'io. Non è mai troppo tardi per dirsi che tutto va male, e che nessuno ci vuole bene davvero. Soprattutto, che ci deludono tutti quanti: fin qui, tra me e lui non c'è grado di separazione. Gramellini riassume la fascinazione e la paura che gli orfani alimentano negli altri. La rabbia e poi la nostalgia dei novenni superstiti. Questo, attraverso le tappe del lutto; attraverso i capitoli della gioventù. L'amore che, per tutto il tempo, va a braccetto con la delusione: le donne vengono da un altro pianeta, sua madre non ha prestato fede alle proprie promesse, il Toro accumula allo stadio sconfitte su sconfitte. Un mondo di soli uomini, perciò; un collegio tutto al maschile; gli amori senza lieto fine e i primi incarichi importanti. Il sogno - l'unico bello davvero - di vivere scrivendo. La gavetta scontata portando caffè, le cronache brevi di una Sarajevo sotto assedio, la posta del cuore. 
Finché Madrina, la migliore amica della madre, non gli racconta quello che non sa: l'evoluzione del loro legame durante la Guerra, l'incontro con un uomo buono ma tutto d'un pezzo, un brutto retroscena nascosto in un trafiletto di giornale. Dall'unico romanzo che ho letto dei suoi, Gramellini me lo facevo più grillo parlante. Più saggio. Questa volta, però, coi famosi cambiamenti che spaventano, avevo bisogno di una voce ferma, di risposte belle e pronte, di certezze granitiche. Con mia sorpresa, invece, qui indossa i panni del Massimo giovane e inesperto, del Massimo perennemente in bilico, e mi dà rare risposte, sporadici aforismi, ma qualche soddisfazione in più. Sensibile e scostante, insicuro cronico quanto o peggio del sottoscritto, rende delicata, perfino allegra, l'intromissione in un dolore che altrimenti sarebbe troppo privato. Lui gli dà forma, ordine: colore. Cerca all'abbandono una sistemazione e un senso compiuto: cose che trova strada facendo. E, poco a poco, impara a tenere testa ai sensi di colpa, ai dilemmi degli “e se?”. Nel mentre, filtra memorie e rimargina cicatrici con una scrittura poetica e delicata – e la semplicità, in definitiva, appare il segreto delle tante copie vendute – e la lucidità di quant'anni di distanza conferisce all'assenza nuove, impensate sfumature. Ci sono un colpo di scena che stringe il cuore sul finale; frammenti di vita grandi e piccoli, ma senza spigoli di sorta; un racconto in pillole agrodolci di cui potrò fare di certo esperienza. C'è, però, che io sono amante dei libri voluminosi e incartapecoriti; delle famiglie scombinate, sì, ma che devono avere un capitolo per ogni tragicommedia delle loro; della sofferenza che schizza ovunque, in presa diretta, e ti porta alla deriva con sé. 
Anche se poi, a peso morto, raggiungerai la riva. Stanne certo. Serve solo tempo.
Fai bei sogni - biografia a mo' di fiaba su un genitore negato a lungo, un Peter Pan bloccato delle coperte rimboccate quarant'anni prima, in una notte di neve - ha forse un eccessivo lavoro di labor limae, ma il potere di lasciare sereni e rassicurati, con gli arcobaleni nelle ciglia e i post-it gialli per rimarcare le frasi in cui c'eri un po' anche tu, dentro. Con annotazioni volanti per ricordare Massimo che si avvicina in punta di piedi alla spiritualità indiana – il Buddhismo, effettivamente, mi ha sempre affascinato: che studiarselo a fondo non diventi uno dei miei buoni propositi? - e, soprattutto, Salem, bimbo con un palloncino in mano e un buco in pancia nel mezzo di un confitto non troppo distante. Per confrontarsi con i dolori degli altri e vedere se il tuo, così, ridimensionato, rivisto, si annulla secondo la matematica magia delle proporzioni.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Jovanotti – Le tasche piene di sassi

lunedì 18 aprile 2016

Recensione: Naked, di Kevin Brooks

Il mio cuore è nato nella lunga estate rovente del 1976
Fu allora che la mia vita iniziò, il mio amore fu sigillato, la mia anima si perse e si infranse.

Titolo: Naked
Autore: Kevin Brooks
Editore: Piemme “Freeway”
Numero di pagine: 383
Prezzo: € 18,50
Sinossi: Il racconto di Lili comincia con l’estate del 1976, quella che cambiò per sempre la sua vita: l’estate in cui nacque il punk e la sua band, i Naked, l’estate del sesso, della droga, degli eccessi, ma anche dell’amore. Dall’incontro con Curtis Ray, il dio della musica, leader della band, all’ingresso nel gruppo del misterioso ragazzo irlandese che le ruberà il cuore. La vita di Lili e dei Naked corre in parallelo con un pezzo di storia della musica e della Londra di quegli anni, scossa dalla nascita di un nuovo e violento movimento culturale e dilaniata dal terrorismo.
                     La recensione
Lili ha sedici anni, una mamma che sta più fuori di un balcone e, a scuola, le attenzioni impreviste della stella del liceo. Curtis Ray in persona, bello e dalla voce d'angelo, le rivolge magicamente la parola. Sa che esiste, allora, e sa che Lili è una virtuosa del pianoforte e strimpella anche la chitarra. Le assicura che imparare a suonare il basso, per una musicista di talento, è cosa da poco. Le domanda, soprattutto, se vuole entrare a far parte della sua rock band. Sarà l'unica ragazza del gruppo, la sua ragazza. Piovono pian piano ingaggi, e la storia tutt'intorno e i primi amori contribuiscono a scrivere canzoni di successo. Ma serve un nuovo chitarrista, a un certo punto, e potrebbe forse esserci scelta migliore di William Bonney? Ha il nome di un fuorilegge, ama i western e, irlandese di nascita, fugge da un Paese minacciato dal terrorismo e da un passato crudele. Insegue la vendetta. William – detto Billy – risponde a una domanda con un'altra domanda, alle feste preferisce tenersi stretta la propria sobrietà e, qualche volta, si lascia scappare dettagli sulla propria vita. E solo e soltanto nei tu per tu con Lili, che verso l'ultimo arrivato prova un'attrazione fortissima, mentre Curtis, dalla sua, si destreggia tra groupie e tradimenti di una notte. Il triangolo sentimentale, la musica in circolo, un bad boy e una ragazza per bene che fa un salto presso il lato oscuro. Occhio, però, perché non è il solito young adult in rosa. 
Si dà il caso che fosse un'epoca selvaggia, quella, e che il triangolo, in amore, fosse benaccetto; che la colonna sonora voglia essere, in realtà, il punk più sporco; che Lili non sia poi così sprovveduta e che il suo William, piccolo e manesco, vestito come capita, non venga descritto come un marcantonio bello e dannato. Naked, infatti, è l'ultimo romanzo di Kevin Brooks. Lo stesso che lo scorso anno ci aveva scioccato con il finale di The Bunker Diary e l'anno prima, invece, lasciato percepire il caldo afoso e la nostalgia dell'ultimo giorno di scuola in L'estate del coniglio nero. L'inglese che sfida e conquista, lo scrittore senza peli sulla lingua che da un po' porto su un palmo di mano, tratteggia questo suo romanzo di formazione su uno sfondo insolito ma bellissimo e i suoi protagonisti sull'onda del successo, "quasi famosi", si danno il cambio sul palcoscenico con i Sex Pistols. L'estate che cambia tutto, come ci rivela l'incipit folgorante, è infatti quella del 1976. Quando si baratta l'innocenza per la notorietà e il punk, prepotente, emerge sulla scena musicale tracciando una linea divisoria tra vecchio e nuovo. Nonostante lo spunto e l'ambientazione non renda Naked quel che sembrerebbe a prima vista... un po' lo è, quello che sembrerebbe a prima vista. Non mi spiego bene, dite? La considerazione sorge spontanea, se da uno come Brooks ti aspettavi il meglio o, almeno, qualcosa di diverso. Ho trovato che il potenziale, invece, non sia stato sfruttato a pieno e che, in definitiva, il romanzo sia uno young adult a tinte romance tutt'altro che inconsueto, ma con la provvidenziale benedizione di sfondi vivaci e mai incrociati prima tra le pagine. Brooks convince nei jeans sdruciti di una sedicenne del tempo, ma convince poco il resto.
Firma una storia semplice, con qualche dilungaggine di troppo e un terzo incomodo che spicca per il vissuto travagliato e un atipico physique du role. Manca il meglio. Manca la musica. Sono abituato a uno scrittore grintoso, aggressivo, audace. Proprio oggi, proprio qui, con protagonisti che vorrebbero fare di sesso, droga e rock 'n roll il loro motto, decide di scrivere con il freno a mano tirato? L'ho riconosciuto nel prologo, non in quelle rarissime concessioni alla tragressione. Di sesso se ne fa poco o comunque non lo si racconta, le sostanze stupefacenti tirate in ballo sono canne e speed, il rock 'n roll non è di quelli nudi e crudi se la prosa – che invece si concede troppi puntini di sospensione, troppi sospiri - non lo supporta adeguatamente. La protagonista non spicca per simpatia, ma per fortuna c'è William che dà all'autore il pretesto perfetto per parlare di un Regno Unito, e un'adolescenza, tormentati dagli hooligans, le famiglie lontane, gli attacchi dell'IRA. Nemmeno il finale, stranamente, ha fatto breccia nel mio cuore di ricotta. Sarà che l'ho letto per tutte e quattrocento le pagine come a distanza di sicurezza? L'ultima fatica di Brooks è uno young adult che fa il verso al musical, assolutamente originale nello spirito e nelle intenzioni, eppure qui e lì si rischia la stonatura. Non brutto, per carità, ma non mi ha preso. Sarà che sono di un'altra generazione e che certe sonorità non sono la mia tazza di tè? Naked è il romanzo sui giovani e per i giovani che consiglio a chi ragazzo lo è stato venti, trent'anni fa e che adesso, seguendo l'ordine naturale delle cose, ragazzo non lo è dunque più.
Io non c'ero, nell'estate rovente del 1976, e purtroppo non ci sono stato grazie alla lettura del Kevin Brooks più spento e retrò. Sarà per la prossima.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Soft Cell – Tainted Love


venerdì 15 aprile 2016

Pillole di recensioni: Le Grand Diable, di Francesca Diotallevi

Titolo: Le Grand Diable
Autrice: Francesca Diotallevi
Editore: Neri Pozza
Prezzo: € 0,99
Sinossi: In Valle d’Aosta, alla vigilia della Prima guerra mondiale, Fiamma vive appartata in un capanno tra i boschi e la comunità di Saint Rhémy, dove tutti la considerano una sorta di strega. Tutti, tranne il giovane Raphaël Rosset, che sente crescere per quella ragazza solitaria e dai capelli rossi un’irresistibile attrazione. Yann, suo fratello, tenta in tutti i modi di proteggerlo da quello che appare, ai suoi occhi, come un vero e proprio sortilegio e di salvaguardarlo dall’ira del padre. Partiti per una battuta di caccia guidata dal padre, in quei boschi che tutti ritengono abitati da streghe, i giovani fratelli scopriranno però di non essere così diversi...

Titolo: Dentro soffia il vento
Autrice: Francesca Diotallevi
Editore: Neri Pozza
Prezzo: € 16,00
Numero di pagine: 180
Data di pubblicazione: 5 maggio 2015
Sinossi: In un avvallamento tra due montagne della Val d’Aosta, al tempo della Grande Guerra, sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in mezzo alle quali spunta uno sparuto campanile. Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano guizzare come lingue di fuoco in un camino. Come faceva sua madre quand’era ancora in vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni » approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi. Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce, l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato. Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi ed era diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul cappello, e non era più tornato. Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia. 
      ____

Due fratelli, distanti per indole ed età. 
Ma, in fondo, non così tanto.
Entrambi, nel bosco, bambini o poco più, inseguono il sogno del loro padre cacciatore.
Raphael - il più piccolo, il più delicato - va a caccia di conigli armato di fionda, ma passerebbe i giorni e le notti ad inventare favole a lieto fine.
Yann, il maggiore, obbediente tanto da barattare il proprio futuro per raccogliere l'eredità dei Rosset, è sulle tracce della strega bambina che ha un forte ascendente sul fratello.
Ciò che lega Raphael alla misteriossima Fiamma sarà un sortilegio o amicizia senza inganni?
Nel folto degli alberi, nella loro casupola cadente, Fiamma e sua madre saranno forse capaci di mutare gli uomini in animali, oltre a scongiurare infezioni e a scagliare malocchi?
Yann ci pensa su, complice una leggenda sentita durante una battuta di caccia: parla di un re avido e di un cervo immortale. A Saint Rhémy, in Val d'Aosta, si vive tra racconti popolari e superstizione inossidabile. In mezzo ai monti. Le alpi sono lontanissime, nel primo Novecento, e la guerra è vicina. Conosciamo così, con un racconto ed un breve post che vogliono fare da anteprima all'attesissimo Dentro soffia il vento, i personaggi e le ambientazioni del nuovo romanzo di Francesca Diotallevi che, dopo le magioni infestate e gli artisti maledetti, torna con una storia che sta a pennello nel filone del realismo magico e, “natural born Neri Pozza”, giunge finalmente dove doveva giungere. E, ci scommetto, starà bene lì. Suggerivo fosse perfetta per loro già ai tempi dell'esordio, tre anni fa. Veggente io o brava, bravissima lei?
Le Gran Diable è una lettura non indispensabile, ma utile per inganna l'attesa. Non amo i racconti, infatti, e, sebbene la curiosità mi facesse da incentivo, l'ho trovato scritto come Francesca sa, ma un po' sbrodolato. Quando, al contrario, l'autrice è capace di dire tutto in poco, e con eleganza infinita. Prolissa sì, perché i suoi romanzi sono sempre indimenticabili mattoncini, ma pulita.
Le pagine sono poche, ma io sono un lettore incontentabile.
Da una parte ne avrei volute molte di più – per fortuna, alla fine del racconto c'è un estratto che lascia ben sperare -, dall'altra le avrei consigliato di sfoltire di più una prosa che resta accurata ma che, questa volta, potrebbe suonare ridondante qui e lì.
Quando il racconto si è concluso, nelle prime pagine di Dentro soffia il vento ho riconosciuto quella Diotallevi da portare su un palmo di mano. Le Grand Diable è un'altra cosa.
Manca poco alla data clou. E Francesca Diotallevi, dalla sua, può tanto.

mercoledì 13 aprile 2016

I ♥ Telefilm: 11.22.63 | Shameless VI

22.11.63 è stato il romanzo che, dopo anni di silenzio, mi ha fatto riavvicinare a Stephen King. Con le sue storie ci sono cresciuto ma, nella prima adolescenza, ho preso strade che, alla fine dei conti, non ci hanno allontanati troppo. Quando avevo diciassette anni, e da allora non è passata poi tanta acqua sotto i ponti, la pausa di riflessione tra di noi è finita grazie a quest'ucronia ambiziosa, mastodontica, indimenticabile in cui un uomo qualsiasi accettava di prendere sulle proprie spalle un fardello staordinario. Da quel romanzo, tra i miei preferiti e tra i maggiori capolavori del mio prolifico zio del Maine, il la per questo blog e per una miniserie evento, andata in onda da febbraio ad aprile. Otto episodi per ottocento pagine. Dandoci alle proporzioni, un'ora ogni cento pagine e la vicina possibilità che, per una sacrosanta volta, un'opera del Re subisse un trattamento d'eccezione. Tanto belli i suoi romanzi, tanto brutte le trasposizioni. La trama vede al centro un mite professore di Letteratura che, dal suo ristoratore di fiducia, riceve un'impensata eredità. Una porta della solita tavola calda altro non è che un varco spazio-temporale. Ora sei nel 2016, e l'attimo dopo eccoti a spasso nel 1960. Dove i colori sfavillano, le ragazze a bordopista desiderano un ragazzo che le inviti a ballare e gli uomini, sbarbati e profumati, portano i completi eleganti. Jake si scopre felice in un'epoca in cui lui non è ancora nato. Ha, però, un compito da portare a termine e forze che gli mettono i bastoni tra le ruote. Il tracollo è avvenuto dopo l'assassinio di Kennedy: da lì i russi, il Vietnam, perfino l'attentato alle Torri Gemelle. Deve stabilirsi per tre anni a Dallas, perciò, e sventare il piano del sicario. Nessun uomo è un'isola, e Jake coinvolge nell'impresa l'adolescente Bill e la bella Sadie, bibliotecaria minacciata da un marito psicotico. Se il battito d'ali di una farfalla genera un terremoto dall'altra parte del mondo, cosa possono un'amicizia e un amore che nascono da un paradosso? Con il beneplacito dell'autore in persona e J.J Abrams a produrre, la serie Hulu è attenta, curata, ben realizzata. Rispettosa e con volti chiesti in prestito al cinema. Sarah Gadon, deliziosa, nasce qualche film fa come nuova musa di Cronenberg e ricorda, qui, le bionde degli storici noir. George MacKay, squattrinato aiutante, e Daniel Webber, un Oswald umano e corruttibile, sono due volti freschi su cui puntare. Accanto al caratterista Chris Cooper, un James Franco che si impegna, ma che risulta un Jake tutt'altro che perfetto. La sua faccia da suola, però, tutto può. O è proprio quella faccia da suola, l'espressione sorniona che di solito trovo simpaticissima, a limitarlo? 22.11.63 è una rilettura pertinente e completa dell'opera. La trasposizione che un King assai sfortunato in TV, vedi il pessimo Under The Dome, meritava. Però, nonostante il lavoro di costumisti e scenografi, l'impiego di un cast discreto e nessuna pagina maltrattata, da un gran romanzo non viene fuori una grande produzione. Mancano i riferimenti alla bibliografia del Re e, soprattutto, quel sentimento impossibile che rende "le cicatrici di vaiolo graziose come fossette". Mancano la consapevolezza e una personalità stilistica forte. Non il gusto, né le lacrime ballerine in un finale agrodolce. Leggendo, io, lo immaginavo come Intrigo Internazionale. Lo avrei voluto diretto e musicato da un maestro del brivido ancora più grande. Jake, in un altro impossibile viaggio all'indietro dei tuoi, fa' tappa nel regno di Hollywood: ci prometti che racconti le prodezze dell'intreccio di King al signor Alfred Hitchock? (7)

Momento attesissimo è il ritorno dei Gallagher in città. Miei adorati. Quelli che, se non ricordi quel che è successo nelle puntate precedenti, ti mostrano il dito medio e che da sei anni ti consolano a modo loro. Tu che ti lamenti della tua famiglia, dimmi, l'hai mai vista la loro? A gennaio, con tutti i motivi del mondo per dirne di cotte e di crude su quel che resta della mia, li ho trovati dove li avevo lasciati. Numerosi e splendidi, accalcati sul portico. Questo, all'indomani di una stagione che si era fatta perdonare le svolte più dolorose e una Fiona  preoccupantemente simile a Frank, il suo papà alcolista e delinquente. Ci sarà mai una stagione intensa come la quarta, che mi aveva spezzato il cuore, logorato il fegato e portato a baciare i piedi ai creatori? Chi può dirlo – la settima è stata già confermata -, ma quella andata in onda quest'anno su Showtime ha gli stessi pregi e gli stessi difetti di quella che l'ha preceduta 365 giorni fa. Nel pilot lascia amareggiati l'arrivederci di Mickey, il bullo omosessuale che, a sorpresa, aveva amato l'instabile Ian di un amore fedelissimo. E' dietro le sbarre, si fa uno sgrammaticato tatuaggio sul petto perché anche lui porta i Gallagher nel cuore, chiede al fidanzato di aspettarlo. Ci si riprende in fretta dalla sua rinuncia al ruolo di regular, però, e si segue indulgenti Ian che gli volta le spalle per qualcun altro. Il rosso bipolare scopre la vocazione per il prossimo – vuole diventare paramedico – e frequenta un pompiere che lo rende migliore. Parlando di sentimenti, allora, sono fortissimi quelli tra Fiona e Sean. Ma il suo capo, che giura di avere messo la testa a posto, appare troppo perfetto per essere vero. Kevin e Veronica, genitori, rischiano invece che la loro attività tracolli e dicono in coro di sì a un esilarante ménage a trois: Svetlana, tu dove dormi? Il brillante Lip è colui che questa volta, invece, subisce le conseguenze dell'essere un Gallagher nel Dna. Il sangue, d'altronde, non mente. La sua relazione con una sexy docente universitaria è a rischio, il suo mentore chiede tanto e ci si accorge che lui, festaiolo e promiscuo, beve un filino troppo. Gli exploit, invece, toccano ai piccoli di casa, Debbie e Carl: ormai adolescenti, possono avere diritto a una storyline tutta loro. La prima, irritante ma vera, accoglie la cicogna e la venuta di responsabilità di notevole portata. L'altro, carcerato per fare contento papà, torna in libertà con le treccine afro, una bella coetanea da conquistare e il desiderio di una conversione che ha del paradossale. Frank, be', resta Frank. Manca a tratti il mordente e, più spensierati del solito, i Gallagher si godono una tregua con la vita, che risulta bella finché dura. Il season finale darà loro, inutile dirlo, le inevitabili batoste. A stringerli insieme, la paura di perdere una casa sommersa dagli avvisi di sfratto – cosa sarebbero senza un tetto? - e due possibili fiocchi rosa alla porta. Si calca poco la mano su alcune svolte, forse, ma il bello è lo spazio concesso ai personaggi secondari – ogni anno, da tradizione, si fa a turno per le luci della ribalta – e il fatto che nemmeno loro, estremi e selvaggi, possano vivere ogni giorno al limite. Così si comportano da famiglia. Così, per un po', vivono vite normali osando, immaginandosi al riparo dal temporale che bagna Chicago. I Gallagher, ho pensato, sono diventati meno problematici di me. E, da amico di lunga data, per nulla invidioso, sapeste quanto sono stato contento per loro. (7,5)

lunedì 11 aprile 2016

Recensione: Splendi più che puoi, di Sara Rattaro

L'espressione amore mio è un ossimoro. Il sentimento più libero e l'aggettivo più possessivo.

Titolo: Splendi più che puoi
Autrice: Sara Rattaro
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 222
Prezzo: € 16,40
Sinossi: L'amore non chiede il permesso. Arriva all'improvviso. Travolge ogni cosa al suo passaggio e trascina in un sogno. Così è stato per Emma, quando per la prima volta ha incontrato Marco che da subito ha capito come prendersi cura di lei. Tutto con lui è perfette. Ma arriva sempre il momento del risveglio. Perché Marco la ricopre di attenzioni sempre più insistenti. Marco ha continui sbalzi d'umore. Troppi. Marco non riesce a trattenere la sua gelosia. Che diventa ossessione. Emma all'inizio asseconda le sue richieste credendo siano solo gesti amorevoli. Eppure non è mai abbastanza. Ogni occasione è buona per allontanare da lei i suoi amici, i suoi genitori, tutto il suo mondo. Emma scopre che quello che si chiama amore a volte non lo è. Può vestire maschere diverse. Può far male, ferire, umiliare. Può far sentire l'altra persona debole e indifesa. Emma non riconosce più l'uomo accanto a lei. Non sa più chi sia. E non sa come riprendere in mano la propria vita. Come nascondere a sé stessa e agli altri quei segni blu sulla sua pelle che nessuna carezza può più risanare. Fino a quando nasce sua figlia, e il sorriso della piccola Martina che cresce le dà il coraggio di cambiare il suo destino. Di dire basta. Di affrontare la verità. Una verità difficile da accettare, da cui si può solo fuggire. Ma il cuore, anche se è spezzato, ferito, tormentato, sa sempre come tornare a volare. Come tornare a risplendere. Più forte che può.

                                               La recensione
A giugno avevo lasciato Sara Rattaro con il dubbio. In Sulla sedia sbagliata, romanzo d'esordio ristampato dalla Garzanti in una nuova veste grafica, avevo trovato gli stessi difetti dell'ultimo, Niente è come te. Con quella storia di genitori e figli, con la troppa carne al fuoco, si era incrinato un rapporto che – anni prima, con lo struggente Un uso qualunque di te – era iniziato sotto una buona stella. Mi piaceva l'evoluzione di Sara Rattaro? Con questa domanda, le tre stelle dei romanzi scritti bene ma che non mi arrivano e la speranza di rileggerla presto, magari con una storia di persone ordinarie e felici, le avevo detto arrivederci all'anno prossimo. Ritorna puntuale con Splendi più che puoi. Una storia che parla di un argomento di bruciante attualità, ma un tempo tabù. Violenza domestica, femminicidio. Un romanzo a tesi, su misura. Non trovo dunque la vicenda più leggera che avrei voluto e non scopro una Sara meno legata alla tragedia, però qualcosa cambia. Non in lei, che resta appassionata e attenta alla cronaca, ma piuttosto tra noi. Splendi più che puoi ha per me i suoi difetti grandi e piccoli, ma mi ha ricordato perché l'autrice mi avesse così tanto colpito al tempo del nostro primo incontro. La nuova storia non fa altrettanto, la remissiva Emma non è la contraddittoria Viola, ma con una sola linea su cui concentrarsi – nei romanzi precedenti, infatti, trionfavano la dimensione corale e una notevole confusione – fa meglio e non distoglie gli occhi dal punto di arrivo. Mi aspettavo un matrimonio tranquillo che diventava violento d'un tratto: il resoconto di una sopravvissuta. Una storia, volendo, più ordinaria. Ma si può considerare forse ordinaria la violenza di un uomo sulla propria moglie? La situazione, invece, è estrema sin dall'inizio: un mènage familiare che è un incubo in alta montagna. Studentessa universitaria, Emma abbandona Architettura per andare a convivere con un uomo di vent'anni più grande. Dieci anni dopo, trentenne, viene lasciata sola: l'amore è finito. Ma Emma, succube degli altri, schiava della vita di coppia, da sola non sa starci. Veloce è il colpo di fulmine con Marco – bello, misterioso e sfaticato – e, da lì, l'inizio della prigionia. L'eterno sì la incatena a un mostro. Gli squilibri di Marco non sono graduali: non si parte da un ceffone isolato fino ad arrivare alla reclusione in cantina, lontana da tutti. Fanatico della pulizia e dell'ordine, ipocondriaco, crede invece nelle cure omeopatiche e ha l'ossessione per i cibi fatti in casa. 
Paranoide e affetto da disturbo ossessivo compulsivo, ricorda Alba Rohrwacher – mamma vegana e moglie cannibale – nel thriller psicologico Hungry Hearts. In un monolocale newyorkese, nell'indie movie del nostro Saverio Costanzo si consumava un sottile gioco al massacro. E dal thriller Splendi più che puoi vorrebbe prendere i toni foschi, le ombre, l'antagonista dispotico: gli avvertimenti di una suocera preoccupata, nel giorno delle nozze; una famiglia numerosa che a tutti i costri protegge i segreti di un rampollo dalle mani pesanti; lo scantinato, l'isolamento forzato e le assi alla porta. Le ossessioni di lui proteggono la famiglia dai pericoli esterni. Ma dai pericoli interni, invece, chi protegge Emma e la sua bambina? La piccola Martina trascorre i primi anni senza conoscere l'esterno. Situazioni estreme, però, richiederebbero estreme soluzioni – narrative e non. Emma è pietrificata dalla paura, non si ribella, e Sara le cura i lividi con parole delicatissime ma che, effetto collaterale, smorzano la pena. Una protagonista bisognosa e fragile, che non sempre genera empatia, e un lui dalla psicologia essenziale. 
I legami mi sono sembrati delineati di fretta – l'incontro, il matrimonio, la fine dell'idillio – e, sarà perché amante del thriller, avrei preferito una maggiore indagine nello studio delle motivazioni private, personalissime, che legano Emma a Marco, nonostante il male. Ha parole buone e riserbo, ma a mancargli è l'amore che diventa timore, il brillante al dito che alimenta la Sindrome di Stoccolma – cosa che ha trattato meglio e in pillole una Paola Cortellesi da brividi in questo video qui. E Sara, emozionata e morbida, dal tocco assai lieve, questa volta lieve lo è fin troppo. Si dimostra però lucida nei giudizi e più parsimoniosa nel dispensare quelle frasi in corsivo delle sue che, in Splendi più che puoi, scandiscono le tappe della prigionia e della liberazione di Emma; l'arrancare delle leggi italiane. Gli anni Novanta, che prevedevano che i panni sporchi si lavassero in famiglia, e due decenni: sei anni di matrimonio e i rimanenti per riprendersi, attraverso ellissi e salti che rendono il romanzo breve ma intenso. Generoso. E ci sono gli uomini onesti – un carabiniere galante e disponibile, che beve solo tè – e donne come angeli inviati dalla divina provvidenza. C'è del buono e c'è speranza. C'è un prisma che riflette la luce ovunque e un'autrice che ti ascolta. L'ultimo romanzo della Rattaro, infatti, è il regalo per una lettrice che durante una presentazione le aveva confessato a cuore aperto la propria forza. L'importante è che sia piaciuto a lei e, più dei titoli che l'hanno preceduto, è piaciuto anche a me. La Rattaro ha cura della vera Emma e non indugia nei dettagli più morbosi. Non riapre vecchie ferite. 
Dà alla donna la pace, nel finale, e un titolo che è un augurio bello e poetico. 
Un invito a non sottomettersi, a non spegnersi.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Mia Martini & Enzo Gragnaniello - Donna



venerdì 8 aprile 2016

Mr. Ciak: Un momento di follia, Alaska, In fondo al bosco, Miss you already, By the sea

Laurent e Antoine, amici del cuore, sono cresciuti insieme e insieme – all'indomani dei reciproci divorzi – hanno cresciuto le loro figlie. Marie, la figlia di Laurent, ha diciotto anni tondi tondi e un genitore cool. Quella di Antoine, assai più normativo del compare, di anni ne ha diciassette, invece, e un corpo in boccio. Quanto è provocante, con tutte le curve al posto giusto e l'aria da Lolita? Quanto è pittoresca la Corsica, meta delle loro vacanze? Succede che non è tutto oro ciò che luccica e che la maliziosa Louna si prende una cotta mostruosa per il padre dell'amica, quel cinquantenne che ha sempre visto come uno zio: in una sera di luna piena, in spiaggia, con lei che emerge nuda dalle onde e lui che non sa resistere eccolo lì, l'inevitabile patatràc. Una notte di sesso, però, per Louna è sintomo di grande e spasimato amore: l'infatuazione per Laurent è una strada senza ritorno, ogni attimo è buono per stuzzicarlo – e minacciare di rivelare tutto ad amico e figlia, nel frattempo sospettosi. Un quartetto affiatato e naturale, paesaggi da sfondo per il desktop, loro bellissime e loro affascinantissimi. Tutto issimo, sì, ma ci si aspettava più mordente, più tragicommedia, da un epilogo che si mantiene aperto, vago, e da quei fucili imbracciati spesso, per cacciare via i cinghiali selvatici. Le sorprese però ci sono. Un Cassel che invecchia al meglio e che, lontano dai personaggi dannati e dai drammi d'autore, si scopre divertente, spensierato e animale da movida notturna; Lola Le Lann – maggiorenne per un soffio, nella realtà, e ben propensa al nudo integrale – che, ammiccante e perfetta, induce in tentazione deejay omosessali, piante grasse e padri di famiglia altrimenti assennati. Scollacciato ma senza scandalo, frizzante, il remake di una nota commedia degli anni Settanta ha, sulla pagina, le location, gli intrighi e le belle figliole dei cinepanettoni con Boldi e De Sica ma, senza troppe sorprese, si scopre per nulla volgare, di gusto, inguaribilmente francese. Sebbene, purtroppo, gli occhi sgranati per le grazie della dispettosa adolescente e i sorrisi generosi durino, in definitiva, giusto un momento – di follia. (6)

Nadine, aspirante modella, e Fausto, cameriere, si conoscono sul tetto di un albergo della Parigi di lusso. Fumano, brutto vizio, e insieme incappano in un altro brutto vizio: l'amore. Non vi dico perché, non vi spiego come, ma il loro amore nasce sotto una cattiva stella: cosa potrebbe dargli di buono? Ci si indebita per esserci più felici, si entra in giri loschi e, infine, ci si tradisce per allontanarsi: la vicinanza ferisce entrambi, la lontananza peggio ancora. Ci sono l'Alaska in cui investire i propri risparmi, chiesa sconsacrata pronta a diventare discoteca esclusiva, e mari di avversità in mezzo. Un sorprendente Claudio Cupiello dirige con maestria due interpreti perfettamente in parte e scioglie i nodi tesi di una vicenda che mette, suo difetto, troppa carne al fuoco. Alaska, dramma dal taglio internazionale e dalla resa all'avanguardia, nonostante le imprecisioni nella scrittura, è un prodotto atipico per un cinema italiano di cui con gioia, negli ultimi post, parlo meglio e volentieri. Pellicola sentimentale che non indugia nel sentimentalismo, noir e fisica, racconta una storia accidentata e maledetta dagli dei. Il melò di Cupellini ha però anche belle pensate: il lento colpo di fulmine durante il primo atto, la presenza di un prezioso comprimario come Valerio Binasco – imprenditore dal cuore di pasta frolla – e la natura confidenza tra i due personaggi, credibilissimi nell'odio e nell'amore. Elio Germano, che ci stupisce anche con un francese fluente, è tenero e manesco. Accanto a lui, Astrid Bergès-Frisbey: sirena in Pirati dei caraibi, futura Ginevraper per Guy Richie, è delicata, bellissima, e la sua paziente Nadine approda da altri pianeti. Il mondo è un buco sudicio: a ogni angolo ci sono criminali da poco, il malaffare, i tiri e molla. Gli incidenti di percorso son tanti, la notte è lunga, il minutaggio può pesare. Fino a quanto è consentito osare lamentarsi di una simile abbondanza, però, in un cinema che per anni ci ha dato troppo poco? (6,5)

Sulle Dolomiti c'è un paesello popolato da pochi abitanti, tradizioni antichissime, neve che per tutto l'inverno non si scioglie. In questo paesello c'è una festa in cui ci si maschera da diavoli brilli. E' il maligno il primo sospettato, quando il piccolo Tommy scompare nel nulla. Il maligno, e poi suo padre. Il bambino torna a casa cinque anni dopo, senza memoria. Per accoglierlo, si ricompone la famiglia e accorrono i reporter. Il bimbo ha occhi espressivi ed inquietanti e sulla sua identità il nonno, un ristoratore un po' suonato e perfino la madre, sotto shock, nutrono forti sospetti. I cani gli abbaiano contro e sono forti i suoi sbalzi d'umore. Cose strane succedono, sotto la neve. In fondo al bosco, thriller firmato dal promettente Stefano Lodovichi, arriva in poche sale l'inverno passato e qualche tempo dopo passa direttamente su Sky – che, già produttore di serie di qualità quali Gomorra e 1992, sposa con entusiasmo il progetto di un giovanissimo. Ci si ripete come radio scassate, dunque, ma fa piacere: il nostro cinema sorprende. E sorprende, nel suo piccolo, anche questa idea che nasce come esperimento – il cinema di genere, in Italia, sembra essersi fermato ad Argento – e, con la fotografia dark e le oneste intenzioni, ci fa scordare i difetti d'ingenuità. La recitazione approssimativa di molti figuranti, ad esempio, a cui si oppongono però un intenso Filippo Nigro e la fragile Camilla Filippi; qualche forzatura negli snodi ma, a onor del vero, in nome di colpi di scena che non mancano. Da amante dell'horror americano e europeo, mi sono divertito a individuare i rimandi sparsi – su tutti, Omen e The Orphanage – e una specie di soddisfazione c'è stata, nel vederli riletti a modo nostro. Come il borgo che fa da sfondo a In fondo al bosco, inoltre, avevo immaginato la Avechot dell'ultimo Carrisi: anche lì un mistero, cronaca e fiaba nera, un film in produzione. Imperfetto ma accattivante, pieno, il thriller di Lodovichi ha una gran bella confezione – da noi, non vedevo scene notturne così ben girate da Come Dio comanda, di Salvatores -, un valente protagonista maschile e un enigma che tiene in scacco. Tommy, che si chiama come il bambino degli Onofri e vive in una realtà simile alla Cogne del delitto Franzoni, è una vittima o un carnefice? Uno spettro che infesta una casa a modo o, al contrario, il bene che picchia alla porta di una famiglia al di sopra di ogni sospetto? (7)

Si conosco dalle elementari. Jess, americana, e Milly, londinese doc, diventano compagne di banco. Amiche strettissime, ci sono quando l'una dà il primo bacio e quando l'altra partorisce, quando l'una mette su famiglia e l'altra non riesce ad avere figli. C'è chi ha tanto e chi ha poco, ma si compensano. Non c'è invidia, non c'è dramma che minacci di separarle. E se dovesse irrompere d'un tratto la malattia – un tumore al seno che non fa sconti –, mentre per Jess arrivano un marito con il posto fisso e una gravidanza senza complicazioni? Come gioire, se la nostra metà trema? La fresca Drew Barrymore è la compagna di Paddy Considine: il sesso è diventato routine, si agisce più in nome della procreazione che in quello della passione. Toni Collette – strepitosa, ma non è una novità per chi la seguiva in United States of Tara – ha due figli belli e rumorosi e un marito altrettanto bello e rumoroso, Dominic Cooper. Una famiglia in espansione da un lato, una famiglia affiatata e disfunzionale dall'altro – spassose, a tal proposito, le comparse di nonna Jacqueline Bisset. Mentre la Barrymore prospera, ingrassa e si fa più bella, la Collette – colpita al centro della femminilità – si sottopone a sedute di chemio che la annientano. Resta il sogno adolescenziale di vedere la brughiera e la costanza di esserci a ogni passo: l'amica vera, d'altronde, è quella che ti tiene i capelli mentre vomiti. Colpa dell'alcol, degli effetti collaterali delle terapie o di entrambe le cose? Miss You Already, visto per caso, non a caso è una spassosa e agrodolce commedia british di quelle che ti fanno ridere, ma tanto, e che tra una grassa risata e l'altra ti strapazzano a tradimento cuore e umore. Il linguaggio è colorito, l'umorismo è fuori luogo, figli e vicini fanno domande impertinenti. La malattia lascia tempo per il sesso – e, magari, per un tradimento? Si può ridere di gusto più per la paura di morire che per l'ebbrezza del vivere? Lo spirito è lo stesso di un 50/50, l'intreccio quello di un One Day in rosa. La vita è un'altalena, e l'imprevedibilità delle sue oscillazioni – il tumore mostrato senza fronzoli, la folle ricerca dei luoghi di Cime tempestose, cantare brille un'emozionante Losing my religion – sono assecondate dall'energica macchina da presa di Catherine Hardwicke (ma sì, quella del primo Twilight) e dalle prove sul filo di una curiosa coppia di attrici che si trasforma, si acchiappa e si piglia, in una manciata di anni che stanno un bijoux in due ore scarse. (7,5)

Lei è una ex gloria della danza, lui è uno scrittore che sperimenta il famigerato blocco. Hanno una camera d'albergo grande quanto le nostre case, un terrazzo privato e, per dirsi e darsi, tutto il tempo del mondo. Indossano abiti griffati e i volti di una delle coppie più fotografate. I “Brangelina” si sono conosciuti dieci anni fa, sul set di una commedia a tinte action. Mr. e Mrs. Smith si sparavano addosso, scappavano, facevano all'amore ovunque, armati fino ai denti. Lo scorso anno hanno portato in scena una coppia minacciata dalla sterilità: loro, al contrario, che sono noti per la loro famiglia numerosissima. Interpretano due coniugi in crisi: loro, al contrario, che sui Red Carpet sembrano usciti da una favola. In By the sea, dramma da camera che trova paesaggi splendidi ma non passaggi memorabili, portano sullo schermo più loro stessi, glamour e invidiati, che personaggi tratteggiati con aria di sufficienza. Innumerevoli le sigarette, infiniti i drink. Lei, appollaiata in balcone come un corvo imperiale. Lui, spettinato e alticcio. In una località turistica, questo, in cui il proprietario di un bar e i vicini appassionati parlano loro d'amore. Dove collocare quello in forse di Roland e Vanessa? Si bisbigliano cose, piangono, urlano. By the sea, così, è un dramma dalla foggia sontuosa, infiocchettato con buon gusto, ma che non ha null'altro al di là dell'apparenza. In breve: è lo spot Dolce & Gabbana più lungo di sempre. Usando qualche parola in più: è come superficialmente l'americano medio si approccia al cinema europeo. Trovandolo elegante, colto, intimista. Noioso. Della filiforme Jolie, con i grandi cambi d'abito e quel corpo che non scoppia di salute, restano ormai i labbroni e i seni ricostruiti di fresco. E, nel film con la sua firma, spicca più il suo lui: un Brad Pitt che tolleriamo di più di questa danzatrice addolorata, fatta della stessa bellezza glaciale del suo ultimo film. Un film che mi ha ricordato una di quelle case disabitate, con i mobili coperti da drappi e lenzuola. Così non entra la polvere, ma neanche la luce. E così i due, sotto sale, sembrano spettri che infestano un magnifico castello della Costa Azzurra. Dove non c'è dialogo, ormai, non c'è più passione. E non c'è cinema. (5-)