lunedì 30 giugno 2014

Blogtour: La linea sottile, di Denise Aronica - Recensione in anteprima (Tappa #5)

Rieccomi, amici, ben lieto di ospitare la quinta tappa del Blog Tour di La linea sottile, disponibile a partire dal 14 Luglio. Per una copia speciale del libro di Denise – con capitolo extra, dedica e segnalibro – fate un salto qui e scoprite i dettagli. Mi raccomando, giovedì non dimenticate l'ultima tappa sul blog dell'autrice, Reading is Believing, con la conclusione del tour e un generoso giftaway finale. Immagino sia tutto. Un abbraccio e buone letture, M.

Titolo: La linea sottile
Autrice: Denise Aronica
Autopubblicato
Numero di pagine: 235
Prezzo ebook: € 2,99
Data di pubblicazione: 14 Luglio 2014
Sinossi: Quando Beth torna dal college per l’estate nella piccola cittadina di Queen’s Creek, in Arizona, non sa che la sua vita sta cambiare. Senza rendersi conto di come o perché, si ritrova a passare attraverso uno specchio e finisce in un mondo apparentemente simile al suo, ma non del tutto identico. Nella realtà al di là dello specchio, infatti, la madre di Beth, morta suicida anni prima, è viva e vegeta e le appare davanti canticchiando mentre si appresta a fare il bucato. Anche suo fratello maggiore, Joe, scomparso da mesi, si aggira per casa in tutta tranquillità e la sua sorellina più piccola, Amy, da tempo ricoverata in una clinica psichiatrica, sembra stare alla grande. Beth scopre che qualsiasi specchio diventa una porta, sotto le dita di chi, come lei, possiede il Dono. E che attraverso quella porta si può avere accesso a infinite possibilità. Infiniti mondi alternativi. Assieme al suo amico immaginario, Peter, e alla sua migliore amica, Charlie, Beth scoprirà la verità sulla sua famiglia e verrà coinvolta in un qualcosa che si rivelerà essere più grande di lei. Qualcosa che potrebbe mandare in frantumi la sua vita. Riuscirà a vegliare su coloro che ama e, allo stesso tempo, a fare la cosa giusta prima che sia troppo tardi?

CALENDARIO BLOGTOUR
18/06 Tappa#1 Coffee & Books (Presentazione del libro ed estratto)
21/06 Tappa#2 Il profumo dei libri (Presentazione dei personaggi)
24/06 Tappa#3 Sweety readers (Universi paralleli)
27/06 Tappa#4 Dreaming fantasy (Intervista)
30/06 Tappa #5 Diario di una dipendenza (Recensione in anteprima
03/07 Tappa #6 Reading is believing (Conclusione e giveaway)
                                                      La recensione
Tra blogger, ci conosciamo tutti. Siamo una famigliola grande, rumorosa e felice. Il miracolo della lettura ci unisce, ma in tanti abbiamo cassetti personali che straripano di storie: il sogno della scrittura in testa. Fa sempre piacere quando qualcuno - un metaforico parente: una sorella maggiore, una cugina acquistita... - apre quel cassetto e condivide con noi le sue storie. Di solito parliamo di libri scritti da persone che non siamo noi, semplicemente. Questa volta è toccato a Denise, fondatrice di Reading is Believing, esordire. Ci conosciamo, immagino, da quando questo blog ha vita. Abbiamo età simili e be', guardate voi stessi: il suo nick è preso in prestito da una canzone di Ed Sheeran, The A Team, mentre il nome del blog gioca con Who you are, un brano splendido della splendida Jessie J. Le cose in comune sono più di una. Io sono monotono, e concedetemi la ripetizione. Si sa che parlare di romanzi di persone che conosci è uno sporco, sporchissimo lavoro. Mi mette in crisi più del solito. Con gli autori affermati è diversa la cosa: fai appunti, muovi critiche, esponi a cuore aperto i tuoi dubbi, ma puoi farci poco. Gli esordienti sono delle spugne che assorbono tutto. I consigli non vanno sprecati, la sincerità è quello che cercano. Non ho assistito alla nascita di La linea sottile, ma l'autrice - qualche mese fa - mi aveva parlato in chat della sua uscita. Ero interessato a ospitare una tappa del Blog Tour? Sì, ero interessato. Dietro, c'era l'amicizia. Ero interessato a recensire il romanzo in anteprima? Sì, ero interessato. Dietro, c'era una storia che mi affascinava; un'idea originale. Una dimensione altra, gli specchi come passaggi segreti, una misteriosa avventura, un viaggio che supera i limiti dell'uomo. La tappa del Blog Tour: eccola. La recensione: c'è e non c'è. Il mio, come ho anticipato a Denise, è un commento. Ho messo il visto, da bravo prof, e a penna ho appuntato sulla facciata del foglio protocollo i pregi e i difetti. Avrei fatto qualcosa di simile, probabilmente, se avessi trovato il romanzo perfetto. L'ho fatto in questo caso, in cui l'entusiasmo è contenuto e gli appunti da fare ci sono. Nonostante, per un romanzo autopubblicato, l'editing sia più che buono (ho scorto giusto minuscoli refusi, che probabilmente voi - nella versione definitiva - non troverete), il difetto sta in uno stile che scorre troppo velocemente. Fila via, liscio come l'olio, senza lasciare aloni o impronte. Avete presente quando, spesso, leggiamo gli urban fantasy americani in traduzione, dove non ci sono errori grossolani, ma neanche punti su cui ci soffermiamo tutti stupiti, pensando: Chissà come ci è arrivata, l'autrice, a questo? Ho sperimentato qualcosa di simile in questo caso: non c'è stato un passaggio su cui mi sia piaciuto soffermarmi più del dovuto. I periodi sono brevi e scarni, i punti e a capo sono frequenti, la struttura della frase è standard. Le subordinate si contano su una mano. Elementi come questi e la brevità del tutto lo rendono vicininissimo alla dimensione del racconto. Alcuni passaggi - i colpi di scena -, non sono raccontati, ma riassunti. Dov'è la voglia di sviscerare? Di farci vedere le cose, Denise, come tu le hai immaginate? Mi sono mancate le descrizioni. Sono stato per 140 pagine coi personaggi senza conoscerli. So che la graziosa Charlie è l'amica "bionda, popolare e gentile", alla Caroline Forbes, e che Beth, la protagonista, è la tipica ragazza... normale. E che significa normale? Cosa le piace, cosa non le piace, quanto dell'autrice è in lei? Strana la scelta di affidarle la narrazione. Ha l'età giusta, il profilo giusto, ma - tra galanti amici immaginari e misteriosi fratelli - è l'anello debole della squadra. Ho pensato alla Katniss del primo Hunger Games. Filtrava le cose a modo suo. Non raccontava la violenza, perché scappava. Parlava debolmente dei morti e del sangue, perché lei - per gran parte del tempo - fuggiva come una lepre. Non faceva. Beth l'ho trovata così: si lascia vivere, scopre le cose a scoppio ritardato. I capitoli, brevi e concentrati come piacciono a me, hanno chiuse non abbastanza incisive. Si concludono troppo in pace, troppo bene. In un paio di casi, finiscono con la protagonista che dorme e iniziano con la protagonista che si sveglia. E pare che questa ragazza dorma sempre. Lascia il dubbio, Denise: inserisci un piccolo colpo di scena, intriga. Qualche capitolo in più avrebbe reso il romanzo meno introduttivo, più corposo. Unico e autoconclusivo - a meno che la vera bomba non si nasconda in quel sequel che, comunque, leggerò volentieri. Ottima l'idea di base, lo spunto di partenza: originale, mi è piaciuto. Del tema, però, ho capito poco. Viene rivelato in uno scenario tutt'altro che sci-fi. E' ritagliato in episodi di quotidianità - loro che cucinano, loro che sono a letto, loro che vivono in una casa senza adulti, a vent'anni. Tocchi di Tempest, strizzate d'occhio a I guardiani del destino, ma del Supernatural, nominato spesso, c'è solo l'ombra vaga. Il brivido, il mistero, si vede in controluce. Le notizie di inquietanti omicidi/suicidi, la comparsa di una donna da incubo nella clinica psichiatrica in cui la fragile Amy è ricoverata, sono flash. Come le notizie passate al telegiornale, mentre uno è intento a pranzare. La linea sottile è un libro carino, molto: veloce, fresco, estivo. Fa compagnia. Uno di quelli che leggi in un giorno solo. Limpido, fluido. Un po' troppo. Un periodo di gestazione più lungo l'avrebbe fatto apparire forse meno acerbo. Resta un'opera prima, dunque, che sprizza gioventù e voglia di fare, firmata da un'aspirante autrice che deve imparare a scandagliare meglio gli abissi del sentimento e ad apprezzare di più l'intensità della narrativa italiana. Io l'ho letto volentieri. Divorato, nonostante gli esami e il mio odio radicato per la lettura in formato digitale. La linea sottile piacerà a tanti, e non potrò che essere felice per Denise. Soprattutto, piacerà a tante. Lettrici sognatrici che si innamoreranno a colpo d'occhio di un amico invisibile dallo sguardo penetrante e di una famiglia sfortunata, ma con un Dono specialissimo.

domenica 29 giugno 2014

Pillole di recensioni #3: L'estate di Ulisse Mele (Alba), L'amante (Baraldi)

Buongiorno, amici! Come state? Io – con i nuovi esami ancora lontani – non sono ancora in fase intensiva di studio. Mi limito a sottolineare e ad appiccicare post-it, per il momento. Ripeterò più in là. Nei prossimi giorni, mi toccherà recuperare un po' di film vecchi e leggere Julius Caesar e King Lear. Macbeth, finito qualche giorno fa, già eliminato dalla lista. Il tempo di leggere, per ora, sono riuscito a trovarlo ugualmente. Mi sono buttato su racconti e romanzi brevi per tenervi sempre aggiornati. Oggi, infatti, vi parlo degli scritti di due autori italiani – e ho notato che di libri italiani ne leggo davvero, davvero tanti. Bene! L'estate di Ulisse Mele, in libreria dal 18 Giugno, e L'amante, un racconto di Barbara Baraldi disponibile esclusivamente in ebook e parte della raccolta La dolce vita, pubblicata negli Stati Uniti qualche tempo fa, ormai. Le recensioni sono in pillole e non contengono, al solito, spoiler o anticipazioni. Buona domenica e a presto, M.

Titolo: L'estate di Ulisse Mele
Autore: Roberto Alba
Editore: Piemme “Open”
Numero di pagine: 208
Prezzo: € 14,50
Il mio voto: ★★★+
La mia recensione: Il piccolo Ulisse non sente, ma non conosce il silenzio. Legge le labbra dei suoi parenti, vive nel trambusto festoso di una famiglia imperfetta, ma calorosissima. Con i suoi alti e bassi, le riunioni, le gite annuali e giocose sotto il sole di una Sardegna calda, ciottolosa, evocativa. Vanessa Roggeri, in un esordio impeccabile, ci aveva parlato di una terra contraddittoria e antica, dominata da superstizioni, streghe, profumi selvatici. Roberto Alba – cagliaritano doc – trasforma invece gli sterminati campi di girasoli in labirinti da scandagliare. All'ombra di alberi secolari, sul letto di vasche di cemento e melma, il divertimento dei più piccoli. E la morte degli innocenti. A nove anni, Ulisse sperimenta il silenzio vero. In quella casa, piena di cugini dispettosi, zie dagli accenti esotici, zii fanatici dell'avventura, mamme apprensive e papà con le mani pesanti, tutto tace d'un tratto. Quando i fratelli Mele scompaiono nel nulla, i carabinieri piombano in giardino con le loro domande e l'ombra del sospetto cala sulla vita ordinaria di quel bambino straordinario. L'estate di Ulisse Mele è un romanzo non completamente originale, ma d'impatto. Tenero, amaro, precoce, acuto. Appagante, nonostante le duecento pagine complessive possano sembrare insufficienti per alimentare a dovere il mistero. Lo stile: elementare, con periodi paratattici, metafore di bimbo, colori primari, caldi, accecanti. Giallo per il sole, marrone per la terra, arancio per la frutta di stagione, un rosa carico per il tramonto. Sanno gelare nel momento in cui il panico serpeggia. Diventano soffocanti, le schegge di una gola di pietra. Un'estate spietata e drammatica fa della Sardegna un Grand Canyon di certezze infrante, amori folli, fedeltà cieca. Il giallo dell'autore deve tanto al nero della cronaca e, come nelle tragedie al tg, molti retroscena restano segreti. Ho percepito una vaga incompletezza, ma al protagonista si perdona tutto. La scrittura volutamente semplice rende vera la voce di Ulisse. Il saggio, puro, grazioso Ulisse: tutto famiglia e buone intenzioni. La storia vista attraverso le tapparelle del suo personalissimo sguardo avvince e rattrista. I bambini non dovrebbero mai crescere. Lui ci ricorda com'era avere nove anni e sognare di cambiare l'universo, combattere le zanzare e il caldo per tre mesi all'anno, essere i satelliti silenziosi di imprevedibili fratelli maggiori. Dare il giusto peso alle cose giuste. Stonata forse l'immagine di un bambino di nove anni, sordomuto e con una famiglia severa e tradizionalista, con un profilo Facebook tutto suo; meno il resto. Un'indagine non sempre implacabile, ma seguita da un dolce cronista d'eccezione che s'improvvisa detective, notaio, autore di necrologi. Un buon noir italiano, tra Kevin Brooks e l'Ammaniti di Io non ho paura.

Titolo: L'amante
Autrice: Barbara Baraldi
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 24
Prezzo: € 0,99
Il mio voto: ★★★
La mia recensione: L'ossessione verso un uomo, la prigionia del matrimonio, la curiosità che è femmina. Mimma è una donna del sud. Un nome corto e deciso, una testa piena di ricci bruni, un corpo accogliente. L'amante perfetta. Amante per sempre di quell'uomo affascinante e brizzolato che, alla festa di Capodanno, l'ha fatta sua con movimenti decisi, e sorrisi gelidi, e bugie meravigliosamente allettanti. Quello verso Fernando è un amore-non amore. Ladro, clandestino, bestiale. Sesso dove capita, passione sboccata e cannibale in macchina, sulle panchine deserte, in ufficio. Quella moglie che non si decide a lasciare, quell'altra donna che rende curiosi e che diventa pensiero strisciante. Sara: algida, pacata, un cigno bianco. Bellezza che non fa rumore, seni acerbi che stanno a bada sotto le magliette. Al supermercato, si scontrano con i carrelli, per il desiderio forte di Mimma. Il più intimo: incontrarla, parlarle. Diventano amiche. Fernando era il cacciatore, Mimma la vittima. I ruoli si invertono. Mimma diventa la cacciatrice dell'altra donna, in un letto viola come gli incubi, in una storia che dà il tormento. L'amante è un racconto di poche pagine, scritto dalla Barbara Baraldi che più mi piace. Quella la cui prosa, al servizio del noir e dell'eros, diventa uno stiletto piantato nella suola di una scarpa dal tacco vertiginoso. Le gambe si allungano, affusolate. I capitoli come battiti di ciglia, le metafore che piovono dal cielo, i dettagli che scuotono. I titoli dei paragrafi li scrivono, a volte, canzoni di un'epoca fa. Pazza idea, La bambola, Il Paradiso. Quelle di una Patty Pravo un po' ninfa, ai tempi del Piper, che faceva girare la testa agli uomini e barcollare, dall'alto del suo mistero, dalle sabbie mobili del suo charme. L'amante è così. Sottratto a un altro tempo, dannato, furbo. Un groviglio di cromosomi X ricamati con eleganza, raddoppiati; per questo, più spietati ancora. Un gioco di labbra, un intrigo di perle e manette. Solidarietà femminile portata all'estemo. Due personaggi agli antipodi, cigni dal piumaggio diverso che si mordono e si baciano a sangue. L'erotismo descritto con i toni rugginosi del giallo, sul terreno di vetro dei peccati capitali. Nudo e crudo. Diciamolo con un'altra canzone. Caffè nero bollente

giovedì 26 giugno 2014

Recensione: La misura della felicità, di Gabrielle Zevin

Buon pomeriggio, amici! Rieccomi, con una recensione lunga, ma scritta di getto. E di pancia. Capita poche volte, ma capita, ogni tanto. La misura della felicità è un romanzo che non avevo notato: sentito nominare, sì, ma non notato. Mi aspettavo una bella storia, ma stucchevole, banalalotta, classica. Tutte cose che, in determinate giornate, adoro anch'io, perché si sa che certi giorno ho il cuore di burro. Il romanzo della Zevin è stato una totale sorpresa. Perfetto nella sua imperfezione, illimitato nella sua limitatezza. Non posso che consigliarvelo, in una recensione pienza zeppa di citazioni... e di numeri. Ringrazio la gentilissima Barbara per avermelo proposto, e vi saluto. Se l'avete letto, lasciatemi il vostro parere. Un abbraccio. M.
Che differenza c'è tra un libro e l'altro? Sono diversi perché lo sono, decide. Bisogna leggerne molti, bisogna crederci, bisogna accettare che ti deludano, perché qualcuno, di tanto in tanto, ti possa entusiasmare.

Titolo: La misura della felicità
Autrice: Gabrielle Zevin
Editore: Nord
Numero di pagine: 314
Prezzo: € 16,00
Sinossi: Dalla tragica morte della moglie, A.J. Fikry è diventato un uomo scontroso e irascibile, insofferente verso gli abitanti della piccola isola dove vive e stufo del suo lavoro di libraio. Disprezza i libri che vende (mentre quelli che non vende gli ricordano quanto il mondo stia cambiando in peggio) e ne ha fin sopra i capelli dei pochi clienti che gli sono rimasti, capaci solo di lamentarsi e di suggerirgli di "abbassare i prezzi". Una sera, però, tutto cambia: rientrando in libreria, A.J. trova una bambina che gironzola nel reparto dedicato all'infanzia; ha in mano un biglietto, scritto dalla madre: "Questa è Maya. Ha due anni. È molto intelligente ed è eccezionalmente loquace per la sua età. Voglio che diventi una lettrice e che cresca in mezzo ai libri. Io non posso più occuparmi di lei. Sono disperata." Seppur riluttante (e spiazzando tutti i suoi conoscenti), A.J. decide di adottarla, lasciando così che quella bambina gli sconvolga l'esistenza. Perché Maya è animata da un'insaziabile curiosità e da un'attrazione istintiva per i libri - per il loro odore, per le copertine vivaci, per quell'affascinante mosaico di parole che riempie le pagine - e, grazie a lei, A.J. non solo scoprirà la gioia di essere padre, ma riassaporerà anche il piacere di essere un libraio, trovando infine il coraggio di aprirsi a un nuovo, inatteso amore...
                                                 La recensione
Impreparato. 
Questo libro, in una notte d'inizio estate, mi ha colto così.
Alla sprovvista. In contropiede. Al buio. Non lo aspettavo. Quando l'ho notato, quando poi l'ho avuto, ho iniziato a scoprirlo con ricercata lentezza. Pianissimo. Era come un regalo troppo bello, nella sua carta rosso Natale, con il nastro giallo e le stelle di carta luccicante, per essere scartato con foga. Quanta cura aveva avuto quella signora alla cassa, sempre sorridente, nell'incartarlo per noi. Faceva capolavori di sorrisi, lei. Capolavori di pacchetti regalo. Dispiaceva strappare quella guaina colorata, tirar via il nastro, disfare il fiocco dorato. Era peccato. Era irrispettoso. In risposta a un'opera d'arte di confezione regalo, allora, era seguita un'opera d'arte di spacchettamento. Non so se la parola spacchettamento esista, ma facciamo finta di sì. Che l'Accademia della Crusca mi lasci un messaggio nella segreteria telefonica, dopo il segnale acustio, Biiip. Il ragazzo che legge nel cuore della notte, sul suo letto disfatto, in boxer scuri e canottiera bianca, aveva fatto il possibile, davvero. Urtava contro gli oggetti per sbaglio, perdeva mazzi di chiavi, inciampava nei ciottoli e nelle sue stesse scarpe. Non aveva mai parlato di sé stesso, prima di allora, in terza persona e non aveva mai sperimentato la delicatezza. Eppure Gabrielle Zevin gliel'aveva insegnata. Lezioni private di delicatezza, ripetizioni porta a porta di calma. Sul suo letto, dopo una giornata di studio e una serata stancante di brutti telefilm e pisolini rubati, aveva sfogliato La misura della felicità in sordina, per paura di disturbare i personaggi e le loro private compravendite. L'aveva esplorato, strato dopo strato. Tagliato il nastro adesivo ai margini del pacchetto, spianato le pieghe della carta, tirato fuori l'immagine di un uomo, una bambina e un aquilone a forma di libro, angolo dopo angolo. Dispiaceva seriamente sciuparlo. E seriamente prendo possesso di me stesso, adesso. Ritorno all'io. Non ho preso annotazioni, non ho appiccicato post-it, non ho scritto un rigo stentato sulle mie impressioni a caldo. Immagino che, anche dopo una settimane, sarebbero bollenti. Calde, entusiastiche, felici: impressioni un po' sceme. Qualcosa però l'ho segnata. Numeri e numeri. Un libro che parla di letteratura, pieno di parole e concetti, semplificato con il terribile linguaggio delle scienze matematiche. Numeri sparsi, numeri pazzi - cerchiati, sottolineati, incorniciati in un cuore inciso con la biro nera: 111, 97, 104, 142, 116, 117, 188, 194, 283. Se sapessi come si fa, potrei giocarmeli alla lotteria, gridare Bingo! Ma bingo già l'ho fatto quando, senza aspettative, ho iniziato La misura della felicità. Senza sapere di ritrovarmi a leggere una storia che parlava di me, con la limpidezza che – un giorno – vorrei fosse mia. I presupposti erano buonissimi: non abbastanza per farmi correre ad acquistarlo così, su due piedi, ma buonissimi. In About a Boy, Hugh Grant aveva preso in prestito un aforisma di John Donne e, con un bambino curioso e un po' strano in casa, l'aveva capito... Che nessun uomo è un'isola. Quella frase, ormai, è attribuita a Nick Hornby. Molti, su Facebook, la attribuiscono perfino a Hugh Grant: fotogenico, famoso, perfino paterno con accanto un minuscolo e impacciato Nicholas Hoult, mi è diventato anche poeta. Il romanzo di Gabrielle Zevin gioca sui significati intimi di questa frase, che è bella e vera, a chiunque la si voglia attribuire. Anche a Hugh Grant. Io conosco a memoria About a boy. Adoro i bambini, le persone anziane, i libri belli, ed ero convinto che questa storia contenesse un po' di tutto: neonati, vecchietti, capolavori. Perfino un'ambientazione retrò, novecentesca, come in Storia di una ladra di libri
Da storia melensa, strappalacrime, bellissima anche con gli occhi rossi, o proprio per via degli occhi rossi. Invece no, niente di tutto questo: non so perché avevo pensato ad aerei da caccia, guerre, morti. Il libro è modernissimo. Pungente, bello, magico. La quintessenza della tenerezza. Nasce, cresce e si fa vecchio in trecento pagine. La libreria è un mondo in miniatura che resta uguale, mentre gli anni passano. La libreria, Island Books, è la protagonista femminile. A.J Fikry, il protagonista maschile. Per la cronaca, lui non è vecchio come pensavo. La sinossi spiega che è vedovo, ma per la morte di una moglie si incolpano sempre la vecchiaia e l'età. A.J è vedovo a nemmeno quarant'anni: va a correre ogni mattina, è conservatore e tremendamente snob, mette in difficoltà la gente del posto e la giudica in base a quel che legge. Roba da poco: gente da poco. Per lui, dovrebbero esserci soltanto grandi classici. Snobba gli esordienti, rabbrividisce davanti all'urban fantasy, preferisce la morbidezza della brossura e l'arte del racconto. Gli e-reader sono la prova che il diavolo esiste, e guaia a parlargli di ebook. Vive di prime impressioni e non sa quello che si perde. Scrooge è stato giovane, libraio, romantico. Io acquisto al supermercato e, ogni tanto, tradisco la libreria di paese per Amazon. Bado al risparmio, alla convenienza, acquisto libri al 3x2, come con le confezioni di yogurt in scadenza. A.J odierebbe il mio qualunquismo, il mio accontentarmi, il mio fare compere senza passione. Io lo odierei per i commenti cinici, i gusti di cemento armato, il tono arcigno, gli ossessionanti “Ti serve qualcosa?”, gli occhi puntati nella schiena, come se in tempo di crisi ci fossero ladri di librerie, non d'appartamento. Ci odieremmo con l'odio di chi si vuole segretamente bene e si punzecchia per sport. Conosco tanta gente come lui, tipi a posto. Misantropi convinti, ma pieni di amici che li cercano: mi inserisco volontariamente nella categoria. Ci sono le signore che gli organizzano appuntamenti galanti, gruppi di lettura e presentazioni, cognate fragilissime che hanno impiastri per marito e attenzioni di poliziotti con l'innocenza nel taschino della divisa, addette vendita che prendono due treni e un traghetto per cercare acquirenti, amore: l'amore degli acquirenti. Il libraio che non amava più leggere impara a farsi amare dall'adorabile Amelia Loman in quattro anni e qualcosa: un amore tardivo, sbocciato commentando un toccante memoir della terza età, alimentato da cedole da compilare, email notturne, visite a sorpresa, alte citazioni di True Blood, portate culinarie con nomi presi in prestito da Moby Dick. Le cotte fanno seguire serie tv squallidissime per avere qualcosa di cui parlare insieme, affermare che Herman Melville sia la principale causa dell'odio tra i bambini e la lettura, diventare più affabili. Amelia, per me, è Rachel McAdams, con il sorriso a mille watt e le lentiggini sul naso. Uno dei pochi esseri umani a non sembrare un cane da passeggio con la fragia e a meritarsi una dichiarazione d'amore vecchio stile. Pagina 189: Quando leggo un libro, desidero che anche tu lo stia leggendo. Voglio sapere cosa ne pensa Amelia. Voglio che tu sia mia. Posso prometterti libri e conversazioni e tutto il mio cuore, Amy.”  Seguo i numeri e i cuoricini sul foglio di carta. Eccone un altro, pagina 194: “Non c'entra molto con la scrittura, però... un giorno, potresti prendere in considerazione l'idea di sposarti. Scegli qualcuno convinto che tu sia l'unica persona nella stanza.” 
Tu, Maya. Questo libro è per te. Segue un ordine strano, scandisce i capitoli con annotazioni che diventano lettere, in cui A.J ti parla della vita come farebbero Dahl, Poe, Fitzgerald. In mezzo a dialoghi perfetti, si trovano titoli veri e titoli inventati, consigli preziosi e titoli da depennare dalla lista dei desideri a colpi secchi di penna, divisi per genere, titolo, nuclei tematici. Ci sono i pensieri del lettore comune, i suoi sogni d'amore, le strategie editoriali e le novità in libreria. E' un romanzo che parla di romanzi. Dà consigli, parla di clienti e tendenze, di un amore puro che porta in salvo dalla tristezza, di una brutta maledizione che fa confondere le lettere e non pronunciare le parole. Parla di te, Maya. Chi sei? La bambina che insegnò a un libraio ad amare i libri: abbandonata nel reparto dei volumi per l'infanzia, con un bigliettino sulla bavetta, un pupazzo dei Muppet, un pannolino pieno di pupù. Non sei rimasta bambina per sempre. A.J lo chiamavi papà. Avevate entrambi la pelle scura, ma di un caffè latte con sfumature diverse. La felicità eri tu. Gli occhi come in un manga, ventiquattro mesi, scrittrice prima di imparare a sillabare. La felicità era larga quindici Maya e lunga venti: il perimetro di una libreria in formato bambina. Una bambina che vorresti abbracciare forte, ma non puoi, quindi ti limiti a stringere il libro al petto - cosa grave – aspettandoti che ricambi la stretta. Che, alla domanda “Quanti anni ho?”, ti guardi dal basso verso l'alto e ti risponda che di anni ne hai ventidue. O forse ottantanove. La misura della felicità è un concentrato di bene assoluto: un condominio affollato e variopinto di gente che legge; e la gente che legge, per natura, non può che essere buona. In copertina, una sagoma scura che solleva in alto una bimba: solleva un libro, solleva il mondo. Solleva il mondo grazie a quella bambina che i libri glieli insegna a leggere, ma non alla lettera. "Se si parla di politica, di Dio o dell'amore, la gente mente e lo fa pure in modo noioso. Tutto quello che ti serve sapere su una persona lo capisci dalla sua risposta alla domanda: Qual è il tuo libro preferito?". Lo finisci, La misura della felicità, e per un giorno, anche se è esagerato, diresti che è questo il tuo libro preferito. Il sorriso ebete che indossi è la via. La sensazione che tanti pensieri siano in rima con i tuoi – l'amicizia con gli addetti stampa, l'affetto per chi ha i tuoi stessi gusti, la gioia di un commento - spiega il tuo sentirti meglio al mondo. Non è vero che i libri ci isolano. Guarda guarda gente che c'è. Vivi e lascia vivere, tu. Leggi e lascia leggere.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Paramore - The Only Exception

mercoledì 25 giugno 2014

I ♥ Telefilm: Delirium, Orphan Black, Faking It, The Vampire Diaries

Ciao a tutti, amici. Dopo qualche giorno di turbolenza, su Blogger, tutto sembra essere ritornato alla normalità, finalmente. E chi ci sperava? Oggi, nuovo appuntamento con I Love Telefilm. Vi parlo di tre serie che si sono appena concluse, già rinnovate per l'anno prossimo, e del pilot “prova” di Delirium, potenziale serial ispirato alla trilogia di Lauren Oliver, che da queste parti era piaciuta parecchio, se ricordate. I quattro commenti, vedrete, sono brevissimi e senza spoiler. Ci sentiamo presto. A giorni vi parlerò del bellissimo libro che ho in lettura, infatti. Un abbraccio, M.

Delirium
Il pilot 1x01
In realtà non lo aspettavo. Non più. Il pilot di Delirium. Qualche anno fa, adoravo la trilogia di Lauren Oliver. Poi, questo inverno, dopo la mezza delusione dell'ultimo capitolo, ho smesso. I bei momenti dei primi due volumi rivalutati, purtroppo, alla luce dei pochi avvenimenti dell'ultimo. Era da un po' che era in programma una serie TV ispirata alla saga distopica targata Piemme. Dopo Divergent e Hunger Games, come lasciarsi scappare l'occasione? Stroncata sul nascere, la serie non ha mai visto la luce. Poco male. Avevo visto qualche spezzone qui e lì e mi sembrava pessima. Non so dove, non so quando, la casa di produzione ha rilasciato l'unico episodio girato. Ho dato un'occhiata. E non l'ho trovato male: mi aspettavo decisamente peggio. Nel primo – ed unico, molto probabilmente – episodio, si fondono il tema portante di Delirium, i perché del Veleno sulle labbra, i personaggi secondari di Chaos. Alle saghe non sto tanto appresso e, personalmente, quando si parla di trasposizioni, non trovo disturbanti i cambiamenti: sono ragionevolissimi, checchè ne pensino i fandom. Con il poco tempo a disposizione, il regista ha fatto il possibile. La sceneggiatura è un minestrone di cose che non crea troppa confusione. Per essere quelli di un distopico, gli scenari sono troppo puliti. Patinati. Sfarzosi. Comuni. Come anche i dialoghi: quelli del più classico dei teen drama in circolazione. Il cast è improvvisato e un po' male assortito. Ebete il Julian di Gregg Sulkin, con i maglioni a V e le camicie che sottolineano didascalicamente il suo essere il bravo ragazzo della storia; una Hana bruna, rotonda, civettuola quella di Jeanine Mason; distaccato antagonista Billy Campell, un Alex fuori parte quello impersonato da Daren Kagasoff. Troppo cresciuto, lui. Adulto, stonato, accanto alla delicata Emma Roberts. Candida, piccola, convincente come suo solito. Ecco, lei sarebbe stata un'ottima Lena. Tutt'altro che inspiegabile, dunque, la cancellazione prematura della serie: arrangiaticcia. Una storia che parla della potenza dell'amore, senza potenza. Senza amore. Quaranta minuti della mia vita, però, avrei potuto sprecarli peggio. Ho visto primi episodi peggiori, e le serie sono ancora in circolazione: poco ma sicuro. (5,5)

Orphan Black
II Stagione
Interessantissimo Orphan Black. Uno dei ritorni sui palinsesti che più attendevo, in questo 2014 di novità, vecchie conoscenze, pilot morti sul nascere. L'anno scorso mi aveva ipnotizzato. Con un cliffhangher inserito ad arte, era finito. Avrei dovuto aspettare un anno. Eppure il tempo è passato. La seconda stagione di Orphan Black è iniziata velocemente e velocemente è finita. Le serie che mi piacciono durano troppo poco: devo fare qualcosa, devo farci il callo. Che dico a fare che mi è piaciuto? L'ho trovato originale, ben diretto, impeccabile. Al solito. Però c'è un però. La prima stagione era un'altra cosa. Lo sottolineo: secondo me. Tutti sembrano aver apprezzato di più la seconda, che nonostante le sue genialità varie non mi ha entusiasmato quanto avevano fatto quei dieci episodi introduttivi: con loro era scoppiata la scintilla. Ho seguito questa nuova stagione, con curiosità e piacere, ma senza colpo di fulmine. Mi sono divertito, alcune cose continuano a sorprendermi come fosse la prima volta, ma non ci ho trovato chissà quale voglia di cambiamento. Non dico miglioramento. Orphan Black era già perfetto così, anche se la perfezione dicono non sia di questo mondo... E della tv via cavo. Resta uguale a sé stesso, si gioca le solite carte. Alcune svolte avvincono, alcune sottotrame le segui con scarsa attenzione. Quando non c'è lei sulla scena ti spegni, e ti senti giustificato a farlo. Orphan Black è una fantascientifico varietà del sabato sera: il Tatiana Maslany Show. Quant'è bella Tatiana Maslany. E quant'è brava. Un camaleonte, una trasformista, una caratterista eccelsa. Non so dove si nascondesse prima. Sarà un esperimento di laboratorio? Impersona qualcosa come otto, dieci personaggi e lo fa utilizzando qualcosa come otto, dieci accenti diversi. E' una fuggiasca con l'accento british, una casalinga disperata, una tenera assassina russa, un'algida donna di scienza, perfino un transgender. Orphan Black è fantascienza, è noir, ma – completo – regala anche siparietti comici fortissimi. Ci pensano Felix (l'esuberante amico gay della protagonista), il goffo Donnie (marito della “disperate housewife” più fuori del pianeta), la letale e tenera Helena (capelli ossigenati, cicatrici insanabili a forma di ali, nemici ad ogni angolo, la cotta facile e il bene verso la sua sestra, Sarah, che ha tentato di ucciderla, una volta... o cinquanta). Movimentato, ironico, surreale, sexy, il serial della BBC Canada si conferma una seriale dipendenza. Notevole il season finale, con i cloni che danzano tutti insieme in una sequenza indimenticabile –  con una miracolosa Maslany quintuplicata – e una rivelazione che mette altra carne a fuoco. Parecchia. E io che mi lamentavo perché ci vedevo una certa apatia. Poca voglia di fare... (8)

Faking It
I Stagione
In una scuola americana in cui tutto è sottosopra, è la diversità ad essere premiata e non sbeffeggiata, mentre la normalità sa di noia. Karma e Amy – in questo strano panorama adolescenziale da allegra distopia – sono amiche da una vita che il mondo ignora. Carine, ma poco interessanti. Quando si baciano in pubblico e fingono di essere una coppia tutti le vogliono. La loro finta omosessualità le mette sotto la luce dei riflettori e, da anonime sedicenni, diventano le stelle del liceo. Peccato che fingano. Peccato che Amy non finga poi tanto: quel bacio sulle labbra, dato mentre tutti guardavano, l'ha turbata non poco. E inizia a pensare a Karma tutto il giorno. S'innamora della sua migliore amica e non glielo dice. Ora che Karma ha conquistato il ragazzo dei suoi sogni, ora che tutto va per il verso giusto, non vuole perderla. No. MTV sforna un'altra chicca: Faking It. Venti minuti settimanali di spasso, risate, gioventù e piccole, grandi bugie. Una sit-come per chi, come me, alle sit-com non va tanto appresso. Brioso, a metà tra il paradossale e il realistico, Faking It è una commedia brillante, con i toni pungenti e irresistibili di Easy Girl. Sembra stupido, ma non lo è. E nemmeno irrispettoso. Con allegria e intelligenza, gioca con le relazioni, il liceo, la sessualità, la confusione giovanile e punzecchia da vicino quelle star americane che dell'ambiguità sessuale hanno fatto la loro fama. Il segreto sta in uno script ben pensato, in episodi generosi di sorrisi, in una galleria di personaggi assurdi ed esilaranti. Il triangolo “lui, lei, l'altra” si anima con le facce belle dei tre protagonisti: un imbabolato Gregg Sulkin (dopo Delirium, ecco che si riparla di lui!) che fa sogni e incubi su una maliziosa cosa a tre; una inconsapevolmente sexy Katie Stevens; una Rita Volk da tenere d'occhio – bellissima, simpatica, sveglia. Difetti: gli otto episodi. Troppo pochi. Ho visto l'ultimo senza aver capito che fosse l'ultimo. Ci rifaremo con una sicura seconda serie. Speriamo soltanto che conti più puntate. Non annoia mai. (7+)

The Vampire Diaries
V Stagione
Credo di essere diventato immortale anch'io. Perché seguo The Vampire Diaries da troppi anni. Davvero. Quanti? Finirà mai? Dai primi tempi è cambiato non poco: lo tollero per quello. Vedo che c'è impegno a tirar fuori sempre storie nuove; vedo che i protagonisti sono maturati. Non vi so dire cosa sia successo nella serie precedente, o cosa sia successo – pensate un po' - all'inizio di questa. Però lo guardo. Sicuramente mi avevano diverito, quegli episodi; certamente mi avevano appassionato. Altrimenti l'avrei abbandonato senza troppe smancerie. Mystic Falls continua ad essere calamita per il soprannaturale. Un originale meccanismo – sempre soprannaturale – mi ha aiutato, inoltre, a superare la mia insofferenza verso Elena Gilbert. Io pensavo di detestare Nina Dobrev in persona, e invece no. Perché nei panni della malefica Katherine la trovo seducente e frizzante, in quelli della protagonista una gatta morta terrificante. Si mette puntualmente in pericolo, puntualmente rischia di spezzarsi l'osso del collo, puntualmente vuole provarci con i fratelli Salvatore. Sookie Stackhouse, in casa HBO, avrebbe già combattuto le rivalità tra parenti a suon di sì all'amore, non alla guerra. Probabilmente, con un'orgia in famiglia si sarebbero risolti tutti i dissapori. Steve R. McQueen, da adolescente sfigatello e timido, mi è diventato pompato come The Rock – e un The Rock emo; Kat Graham è l'inutilità in persona, resuscitata più volte di... di... non lo so; Candice Accola, adorabile. Ian Somerhalder recita e si pavoneggia. Sgrana gli occhi blu, va in giro con magliette e pantaloni attillati, aspetta di essere convocato nel sequel di Magic Mike. Il suo cavallo di battaglia: guardarsi la punta del naso. Il risultato pare che piaccia alle ladies. Meglio Paul Wesley, che trovo cresciuto di stagione in stagione. Non male il finale. Tra Sleepy Hollow e Supernatural, è ben studiato. Per le fan, troppo crudele. Non disperate: lo sapete, in The Vampire Diaries si muore un giorno e si resuscita il successivo! A manovrarne i fili, lo stesso Kevin Williamson di The Following: anche lì, tanti aspiranti Lazzaro. Stesso discorso fatto per Revenge, insomma: alti e bassi, discreti picchi e abissi, ma – ehi! - siamo in presenza di gente immortale. Hanno tempo. (6,5)

lunedì 23 giugno 2014

Recensione: L'amore involontario, di Chiara Marchelli

Ma poi, in mezzo a quei sorrisi che facevi un tempo, mi riconoscerai. Tu sei mia sorella, dirai. Mia sorella. 

Titolo: L'amore involontario
Autrice: Chiara Marchelli
Editore: Piemme
Numero di pagine: 280
Prezzo: € 15,50
Sinossi: Il giorno in cui Riccardo riceve la telefonata, per lui sua sorella è solo un pensiero fastidioso, un ricordo cacciato con rancore. Cresciuti vicini, stretti in un rapporto necessario e profondo, non si sentono più da anni: a Irene, scrittrice molto amata, Riccardo non ha mai perdonato di aver scritto di lui nel romanzo che l'ha portata al successo. Di aver parlato di quel dolore devastante che l'ha reso un uomo duro e cinico e che ha trasformato per sempre la sua famiglia. Ora Irene è in coma dopo un grave incidente e Riccardo si trova a doverle stare accanto. Da lui tutti si aspettano una pena che non riesce a provare, un amore che non sente più. Ma, un giorno dopo l'altro, accanto al corpo muto eppure così vivo di sua sorella, quell'amore torna a pulsare. Anche attraverso la lettura del libro di Irene, che Riccardo si era sempre rifiutato di leggere e che ora gli restituisce la sua vita in un modo che non era mai riuscito a vedere. Lentamente le parole di Irene riescono a scalfire il muro dietro al quale Riccardo si è nascosto per anni, permettendo al dolore di uscire, e liberarlo. La storia della trasformazione di un uomo, il racconto intenso e forte di un risveglio. Dei sentimenti, dei ricordi, di un possibile nuovo legame. Per trovare il coraggio di mettere da parte il dolore più grande e prendersi cura di ciò che resta
                                                 La recensione
Non l'avevo visto. L'aquilone arancio rimasto impigliato tra i rami. Guardavo a terra, invece era il cielo il segreto. Guardare il cielo per scoprire che il simbolo di un'infanzia, il tempo dei giochi e l'innocenza dei bambini non erano cose andate perse nel fuoco, per sempre. Gli alberi, come una soffitta, nascondevano l'importante. Non avevo visto L'amore involontario. Guardavo altrove: avevo la testa tra le nuvole, ma gli occhi da un'altra parte. Il mio sguardo scivolava su quel giocattolo sull'albero, ma non lo metteva bene a fuoco. Poi è accaduto. Una finestra d'ospedale dava su quel prato. Per una volta, a New York non nevicava. E ho sentito, dal posto in cui mi trovavo, un uomo parlare e imprecare, tutto solo. Le sue parole, intime, private, sbattere contro un muro e l'indifferenza del coma. Aprirsi all'amore, abbandonarsi alla speranza, sfumarsi nel ricordo di un'estate a Genova, ai tempi che furono. La storia di Chiara Marchelli mi ha portato lontano, tra i fiocchi di neve della Grande Mela e nelle profondità di due esseri umani che – nonostante l'odio, nonostante il rancore, nonostante i silenzi – sono rimasti quello che erano. Fratello e sorella, prima di ogni altra cosa. Avrebbero voluto negarlo, avrebbero voluto staccarsi da dosso il fardello immane di quel legame di parentela che si era fatto vergogna. Lui, avrebbe voluto. Il fratello. Riccardo. Nel momento in cui ha realizzato che non era possibile ripudiare Irene – la scrittrice che ha cambiato cognome, la professionista che si fa chiamare Nina e si fa egoisticamente beffe del dolore altrui, nei suoi tanto acclamati capolavori – ha smesso di parlarle, e ha smesso di parlare. E' nervoso. E' addolorato. Ma la pena inespressa sussurra al cuore di spezzarsi: il suo cuore non ha retto più. Diventato ghiaccio, si è sbriciolato. Sciolto, è finito nello scarico. Tirato lo sciacquone, addio. Lui perciò non ha cuore. Lui non ha più una famiglia. Ha un appartamento, certo. Una moglie premurosissima con cui fa sesso ma non l'amore e un figlio magrissimo verso cui ha solo parole cattive. Un appartamento, a un passo dalla City, che non è una casa: cornici a faccia in giù, foto usate come segnalibro, un nome che nessuno ha la forza di pronunciare. A questo pensa Riccardo, mentre guarda la flora e la fauna nelle stazioni americane. Le strane abitudini dei pendolari, l'indolenza dei ragazzini in cattività. Pensa a come sua sorella abbia rovinato quello che era già rovinato, girando dita nelle piaghe, vendendo lutti in cambio di contratti editoriali e premi. Va a trovarla e si dice che il Natale è vicino. E' vicina anche lei, ma non la tocca. I tubi che entrano ed escono ovunque, in quel suo corpo storto che è diventato un puntaspilli. La pelle livida, le ammaccature, i traumi più grandi che sono quelli che non puoi vedere. Dorme, Irene. Un taxi in corsa l'ha colpita in pieno e, da trenta giorni, dorme in un letto d'ospedale, evitando discussioni con un fratello che la evita; negandosi; rifiutando di svegliarsi. Scappa, l'ha sempre fatto. A diciotto anni è andata in Islanda. A trenta, più o meno, ha firmato il primo libro ed è andata in giro per le librerie del mondo. A quarantasei ha pubblicato il secondo ed è finita in coma a tempo indeterminato. I suoi fan pregano, i suoi studenti la invocano, la gente – con striscioni, fiori, messaggi – ostruisce l'uscita principale dell'ospedale. 
Riccardo non fa niente. La guarda e vorrebbe essere altrove. Vorrebbe che quel compito non spettasse a lui: sorvegliarla, custodirla. Irene emana un cattivo odore, Irene ha i baffetti che stanno ricrescendo, Irene ha fatto una cosa brutta. Però il bene si riaccende. Naturale, involontario. Come i movimenti di lei, che strizza gli occhi e muove la dita, fa pipì e stringe le mani di chi le sta accanto. Riccardo allunga un dito, vagamente schifato. La infastidisce, la scosta come fosse un animale morto sull'autostrada. Lei lo afferra. Questione di nervi, questione di testa, questione di cuore. Questione di sangue. L'amore involontario è un libro forte, intenso, in cui ogni pagina strappa un brivido. Ha il sapore forte delle storie di casa nostra. Vero, anche quando è scomodo. Onesto, anche quando è indelicato. Ho pensato alla crudezza della Mazzantini, alla limpidezza della Rattaro. A Non ti muovere e a Un uso qualunque di te. Ho riconosciuto all'istante la bravura pazzesca della Marchelli. 
La storia appassiona perché è semplice, ma molte scelte – tutte – rivelano una perizia da chirurgo, una maturità da artista vero. Non ha una voce comune e non parla di persone comuni. I protagonisti, italiani emigrati all'estero, sono tra i pochi fortunati a potersi permettere un'assicurazione sanitaria senza sforzi, in un'America splendida e splendidamente contraddittoria. Alto-borghesi; donne che vivono di sola scrittura e uomini che si danno a investimenti di cui tu, cresciuto in una famiglia umile, cogli assai poco: il necessario. L'autrice – viaggiatrice instancabile, insegnante d'oltreoceano, newyorkese d'adozione - parla di meccanismi di cui, per professione, fa ormai parte. Premi letterari, lezioni di scrittura creativa. Spezza la narrazione come pane all'ultima cena, come una merendina che due fratelli bambini si dividono prima di fare un tuffo a mare, senza aspettare le proverbiali tre ore e l'approvazione degli adulti. Troviamo le parole di Riccardo, noi. Quelle di un giornalista che di Irene era perdutamente innamorato. Quelle di Irene stessa, che parla attraverso le pagine del suo romanzo più recente: You are my sister. Il presente sfocia nel passato, l'odio nell'adorazione, il colloquio in un brano di prosa. Bello, davvero. Tutto.
Soprattutto, umano. Quella narrazione spezzata che tanto amavo, alla fine, mi ha distratto un po': non lo nascondo. Diluisce il dramma - scelta volontaria dell'autrice. E io avrei voluto sentirlo tutto intero, il dramma. Pesante e scomodo. Una palla da demolizione contro le ossa. La Marchelli prende un'altra strada, ma arriva dove era inevitabile che arrivasse. Riccardo parla a Irene. Lei parla a te. Delle tue vecchie estati, delle sfide a nascondino, delle crudeltà dei sei anni e delle lucertole catturate per gioco nei barattoli. Chi ti stava accanto? Un prolungamento di te stesso; un altro seme diventato erba, fiore. Un compagno o una compagna di giochi con cui hai condiviso il letto e le coperte. Quelle coperte che tirava e tirava, lasciandoti mezzo nudo contro il freddo. Non lo facevo da anni. L'ultima volta avevo finito di vedere La custode di mia sorella. Abbracciare una persona senza motivo, abbracciare mio fratello senza motivo. Ho chiuso il libro e sono andato da lui. Era al computer, il tatuaggio nuovo fasciato nella pellicola, la maglietta buttata su una sedia che era diventata un nuovo armadio. E l'ho abbracciato. Non tutto quanto. Solo la testa. Una mano sul suo collo, l'altra nei capelli. Testa sua contro petto mio. Sangue mio. Ma che cazzo vuoi, mo', mi ha detto? L'amore involontario era anche questo, ho pensato. Una battaglia contro i Che cazzo vuoi di fratelli che - come nel bel film con Germano e Scamarcio - sognano di essere figli unici. Fingono di farlo. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Adele - Turning Tables 

giovedì 19 giugno 2014

Mr Ciak #37: Maleficent, Across The Universe, Revolutionary Road

Ciao a tutti, amici! Vi scrivo da uomo libero. Ieri, ufficialmente, ho dato il terzo ed ultimo esame di giugno. Fortunatamente, ho chiuso il mese in bellezza: è stato piacevolissimo seguire quel corso, un po' meno studiare e leggere tre libri interi... in tre giorni. Immerso nel cantautorato italiano, nel beat, nella rivalità Beatles-Rolling Stones, in compagnia del fenomeno De Andrè e dei giovani vip del Piper, ho rivisto Across the universe, un musical perfetto ambienato ai tempi del flower power e della guerra in Vietnam. Dovrò rivederlo più spesso. Ormai sono in fissa. La colonna sonora, dopo anni, è ritornata sul mio iPod! Ennesimo filmone, Revolutionary Road, di cui avevo la recensione sul computer da una vita. Dopo cotanta bellezza, anche un film più recente, ma meno bello, decisamente: Maleficent. Apre il post giusto perchè è ancora nelle sale. Brutto non è, ma l'ho trovato trascurabilissimo: gran peccato. In fondo, brevi commenti sugli altri film visti. Ed alcuni sono carinissimi. A prestissimo, M.

Retelling rivolto quasi esclusivamente ai più piccoli. Lo attendevo, come fanno i bambini, ma aspettandomi qualcosa di adulto. Invece Maleficent mette una croce sulla storia della vecchia e amata villain di La bella addormentata e punta ad altri toni, scopi, colori. Tanti effetti visivi, zero ombre, bontà nascosta nei personaggi più crudeli in circolazione. Della Malefica del cartone restano il nome tenebroso, corna e mantello, la passione per le entrate trionfali. Gli autori ne fanno un personaggio tutto diverso, in una riscrittura educata, ma senza coraggio. In pieno stile Disney. Qualche siparietto comico, creature fantastiche animate al computer, una morale femminista vicinissima a quella dei recenti Brave e Frozen. Le principesse non hanno bisogno di principi azzurri, il bacio del vero amore ha una sfumatura diversa, il colpo di fulmine è un mito da sfatare. Il film è fatto di donne, ed è fatto di una superba Angelina Jolie dai profili perfetti e dal sorriso ammaliante. La sua Malefica mostra che cattivi non si nasce, si diventa. Impara, a sue spese, che l'amore è una bugia. E la scoperta fa male. E' uno strappo, una violenza fisica. Lascia la protagonista sola e senza ali. La nuova consapevolezza la schiaccia forte, a terra. La maledizione più famosa del mondo dell'infanzia scaturisce dal dispiacere di una donna innamorata che ha scoperto che l'anima gemella non esiste. C'è una scena precisa in cui il dramma della donna si percepisce in maniera forte: un risveglio traumatico e solitario, che è il destarsi da un metaforico stupro. La Jolie trasmette quello smarrimento: sa farlo. Peccato che gli autori abbiano voluto puntare ad altro. Quell'attimo perfetto di struggimento cede spazio a un piccolo incanto ad alto budget. La maledizione pronunciata non si può spezzare e quella bambina bionda s'incammina rapidamente verso i suoi sedici anni, un fuso, un sonno ininterrotto. Se l'amore non esiste, allora chi potrà destarla? L'ingresso nel castello è fortissismo. Ricalca con cura le orme del cartone originale e la Jolie ha di Malefica gli zigomi marcati, i gesti languidi, la voce suadente, l'abito scuro. Quel sorriso torvo poi si fa dolce. La sua freddezza diventa desiderio di maternità. E la vendetta personale di quella donna a cui l'amore ha tolto l'aria e la libertà, in poco più di novanta minuti, si fa fiaba. Avrei preferito una fiaba nera, ma non si può avere tutto. Delicata e imbambolata Elle Fanning, che si limita ad essere la principessa un po' leziosa dei cartoni. Parla con gli uccellini, sorride senza un perché, non canta giusto perché non vive in un musical. Le tre fate – divertite ma non per questo divertenti – le avrei fatte fuori con una spruzzata generosa di insetticida. Interessanti Sam Riley e il suo personaggio. Brenton Thwaites più inutile di Sam Claflin in Biancaneve e il Cacciatore – e io che credevo non fosse umanamente possibile! Penserò a questo Maleficent così: un libricino illustrato, solo in live action. Piacevole, pur applicandosi il minimo indispensabile. Poco. Tanto c'è sua grazia Angelina Jolie che regge quello che può essere retto. (5/6)

Mi sono accorto che parlo troppo. Eppure di alcuni film non parlo abbastanza. Di quello splendore assurdo che va sotto il nome di Across the universe non vi ho parlato mai. Ha sette anni e, ogni volta che lo rivedo, lo riscopro diverso. Più bello, pulito: più profondo. Così la cotta si rinnova. Mi concedo due ore in compagnia di certe canzoni intramontabili, dei fuochi d'artificio spettacolari di quel genio di Julie Taymor, di colori abbaglianti che si sposano e non c'entrano niente tra loro, e Across the universe mi si pianta nuovamente nella testa. Finisco per ricordarlo, canticchiarlo, ballarlo. Ci penso su per giorni. La canzoni d'amore più belle di tutti i tempi avevano un'altra storia da raccontare, quella di un ragazzo che, come, me “amava i Beatles e i Rolling Stones”. L'incontro, lo scontro, il magico mondo di Hey Jude e della sua Lucy in the sky with diamonds; i loro ideali, le loro guerre, i loro Paesi separati da un viaggio in nave senza ritorno. Non ci pensate mai, voi, ai protagonisti delle canzoni? A volte io ci penso, sapete? A che fanno, a chi erano, a se si incontravano tra le tracce dello stesso disco. Allora avevo12, 13 anni e sono state le loro stesse creature, i loro stessi capolavori, a farmeli conoscere. La musica dei Beatles mi ha fatto conoscere i Beatles. Parlava da sé, parlava di sé. Artefice di questo circo umano, sfarzoso e avveniristico, una regista americana che prende le immagini, le assembla e compone schegge di capolavori che non dimenticherai. Across the universe non è solo un musical del passato che viene, bussa, e ti parla del Vietnam con il linguaggio del futuro. E' poesia visiva. Visivamente straordinario, emotivamente esplosivo. Jude, vent'anni, arriva negli Stati Uniti su un mercantile, per conoscere il padre, fermamente convinto – con la sua arte, le sue passioni – che nulla cambierà il suo mondo. Nothing's gonna change my world. Invece, in una New York roboante e caotica, scopre l'amicizia di Max, l'amore di Lucy, il flower power e la bellezza di cantare una canzone tutti stesi in un prato, il fumo in spirali che sale e sale verso il cielo blu. Tra le nuvole, gli angeli, gli aerei da guerra. Sono tante le sequenze bellissime. La straziante “Let it be”, che una voce di donna arrabbiata intona al funerale di un bimbo nero in una bara bianca. L'onirico tuffo in mare di “Because”, quando i protagonisti si trasformano in sirene e il colore è quello delle luci al neon. Il mash-up pazzesco tra la nostalgica “Across the universe”, con i vagoni di una metropolitana mezza vuota, e la grintosa “Helter Skelter". La migliore: “Strawberry Fields Forever”. Una macchia rossa che sembra un frutto di stagione, un Pollock-macedonia, l'ombra minacciosa delle immagini di violenza in tivù, fragole che piombano come bombe nucleari. Posso solo descriverlo. Non posso dirvi com'è. L'unica chiave possibile è guardarlo. Psichedelico, coraggioso, originalissimo, mette in conto bagni di effetti visivi ma non scorda il cuore a casa. Al tempo, i giovani in rivolta davano fiori ai poliziotti; volevano che le pistole sparassero petali e che i corpi potessero fermare i carri armati. Si mettevano su palazzi di diecimila piani e, dall'alto, cantavano l'essenziale. Facevano voltare le ragazze per strada, facevano tornare l'anima gemella all'astronave madre, dicevano “All you need is love”. Gli attori sono performers dalle voci perfette. Jim Sturgess, al suo esordio, era un Jude delicato e fragile, magnifico; Evan Rachel Wood era e resta stupenda; Joe Anderson - una scoperta con la faccia di Jared Leto - dovrebbe comparire sugli schermi più spesso. Dana Fuchs è la gemella di Janis, Martin Luther il fratello di Hendrix. Ho la pelle d'oca. I peli delle braccia che si rizzano come gli aculei di un istrice. Devo stare da solo, quando lo guardo: lo so a memoria e, puntualmente, canto tutte le canzoni. E poi potrei commuovermi così, per inerzia, da una canzone all'altra. Da un momento all'altro. E' uno dei tanti esempi per cui il cinema mi piace. Impossibile non vederlo e dirsi però vorrei farne parte anch'io. Portare il caffè al cast, fare le fotocopie dei copioni, starmene in disparte e guardarli provare. Esserci mentre gli strani e imprevisti miracoli dello spettacolo accadono. (9)

Leonardo Di Caprio e Kate Winslet: ritornati insieme dopo dodici anni, e io che mi ero perso il loro ultimo incontro. Cosa era successo a Jack e Rose in quell'arco di tempo? Che ne era stato di loro, delle loro speranze, della loro tanto sognata America? In una versione alternativa della storia, in un film parallelo a quello di Cameron, loro ci erano arrivati. Erano arrivati insieme all'ombra della Statua della libertà, salvi dai relitti di una nave alla deriva che di indistruttibile non aveva nulla. Loro erano indistruttibili, loro erano innamorati. Sulla scialuppa, spazio anche per Jack. Una vita, di lì in poi, da costruire insieme. Revolutionary Road è il metaforico proseguimento della loro storia. E' il resto della vita che non hanno mai vissuto. Una vita difficile, anche per due che, come loro, si amano. A volte, però, l'amore non basta. Un paio di lustri, due figli e mari di sigarette spente dopo, sono diventati April e Frank Wheeler: coniugi perfetti in un perfetto quartiere che parla di rivoluzione. Una casa bianca con tanto di steccato, aiuole intorno, qualche amico fidato: un grembiule da cucina lei, una professionale ventiquattr'ore lui. Ruoli ben definiti, fissi, con la moglie che lava, stira, cucina e il marito che provvede, col suo faticoso lavoro, ad alimentare quella bella favola. Sopravvissuta al naufragio, anche Kathy Bates: solare, chiacchierona, querula. La fata madrina, quasi, di quel matrimonio (in)felice. Ma il destino è destino: una catastrofe chiama un'altra catastrofe. E un altro disastro è in agguato. Questa volta l'iceberg cresce in mezzo a loro e avvistarlo, anche se con la sua punta di ghiaccio solidissimo squarcia la tappezzeria, il divano, il soffitto del salotto, non è facile. Sam Mendes porta sullo schermo l'omonimo romanzo di Richard Yates: l'anti-Titanic. Impressionante la direzione del cast, stupenda la scelta degli attori protagonisti. Due ragazzi cresciuti nella stessa casa, ma non insieme. Sempre belli, sempre affiatati, ma innamorati non più. Questi Jack e Rose sono diventati il prodotto di quella cinica borghesia che, mezzo secolo prima, su una nave, voleva condannare il loro amore. E non c'è canzone di Celin Dion che possa farli ballare, nessun pericolo vitale che possa renderli vicini. Eppure sono gli stessi; eppure – ancora una volta – la sceneggiatura li vuole alle prese con un viaggio, ma inverso. Dall'America all'Europa. Un viaggio impossibile, ma a causa di tempeste che avvertono solo e soltanto loro. Loro e un pazzo, interpretato da un grande Michael Shannon, che vede e sente tutto. Di Caprio e la Winslet si confermano due interpreti magistrali, due degli attori più grandi della loro fortunata generazione. Glamour come un tempo, bravi ancor di più. Lui, con il viso da bambino di sempre, balla nei suoi completi troppo grandi: gioca al papà impegnato, ma è un gioco che non gli piace. Si vede dalle rughe minuscole sulla sua fronte liscia. Lei, più matura, materna, se lo strappa da sé a forza: saggia, adulta, affascinante anche con la ricrescita scura e i vestiti da casalinga disperata. Un drammone dall'amarissimo gusto teatrale, intriso d'amore avvelenato e rabbia, che attori monumentali, sfuriate sublimi e dialoghi realistici rendono bellissimo. Atrocemente bello. Un buon non-San-Valentino a me, e a voi. (8)
- Dal Messico, una commedia dolcissima e toccante. La storia non originalissima di un papà all'improvviso che, per quella bambina all'inizio indesiderata, diventa l'uomo più coraggioso della terra. Tema noto, intreccio che forse vuole osare un po' troppe cose. Serietà e slapstick si mischiano: Instructions not included diventa In fuga per tre, con cenni al realistico Kramer contro Kramer e le sporadiche animazioni di Tim Burton. Inaspettato il colpo di scena finale, che emoziona per la sua assoluta e assurda imprevedibilità. Un colpo al cuore. Bruttina la colonna sonora, che fa tanto telenovelas. Invece, buono il cast. Eugenio Derbez è simpaticissimo, la piccola Loreto Peralta incanta con i suoi occhi giganteschi e una certa somiglianza con la bella Kristen Bell. Imperfetto, straripante, lungo, ma consigliato. (3/5)
- Parentesi british con Notting Hill. L'ho sempre visto a tratti, ma mai fino alla fine per davvero. Non mi perdevo niente, devo dire. La prima parte è ottima, con bei siparietti comici e dialoghi brillanti, ma la seconda è bruttissima. Non "surreale, ma bella", bensì irritante. Bravo Hugh Grant, ma la Roberts la preferisco adesso, a quindici anni di distanza: invecchiata, migliorata, alle prese con drammi molto impegnativi. Esilarante il mitico Rhyf Ifans. Canzone cult: When you say nothing at all. (2/5)
- Il remake di un film horror di qualche decennio fa: Patrick. Che creatura strana che è. Oscilla tra scelte di estrema classe e scelte estremamente trash. La forte contrapposizione tra la fotografia scura e curatissima, la meravigliosa colonna sonora firmata dall'immortale Pino Donaggio e l'idiozia di alcune svolte lascia straniti, molto. Ha il fascino dei vecchi noir, ma elementi splatter e grotteschi che lo rendono una specie di "Attrazione Fatale" in salsa paranormal. Chi è Patrick? Il fratello di "Carrie", che di Satana - però - ha il sonno. Ironia nera, un pizzico di squallore, qualche morte fantasiosa, attori discreti. Ha un suo perché. (2,5/5)

domenica 15 giugno 2014

Una recensione e/è una lettera: Noi siamo grandi come la vita, di Ava Dellaira

Ciao a tutti, amici, e buona domenica! Altro post improvvisato. Questa strana recensione non era pensata per oggi, ma – questo pomeriggio – ho passato così le mie due ore di pausa dallo studio. Ho finito il romanzo d'esordio della Dellaira e l'ho consigliato, per lettera, ad un amico. Non ho resistito. Si parla di lettere e Charlie (qui il mio pensiero su Noi siamo infinito) le apprezza sempre. Lo so. Spero vi piaccia. Un abbraccio.
La verità è bella, non importa quale sia. Anche se fa paura, o se è brutta. E' bella semplicemente perché è vera. E la verità è luce. Ti rende più te. Io voglio essere me

Titolo: Noi siamo grandi come la vita
Autrice: Ava Dellaira
Numero di pagine: 313
Prezzo: € 16,90
Sinossi: Tutto inizia con un compito assegnato nei primi giorni di scuola: "Scrivi una lettera a una persona che non c'è più". E così Laurel scrive a Kurt Cobain, che May, la sua sorella maggiore, amava tantissimo. E che se n'è andato troppo presto, proprio come May. Per Laurel, la sorella era un mito: bella, perfetta, inarrivabile. Era il sole intorno a cui ruotava tutto, specie da quando i genitori si erano separati. Perderla è stato indescrivibile, qualcosa di cui Laurel non vuole parlare. Sulla carta, invece, Laurel si lascia finalmente andare. E dopo quella prima lettera, che non consegnerà all'insegnante, continua a scriverne altre, indirizzandole a Amy Winehouse, Heath Ledger, Janis Joplin e altri idoli della sorella scomparsa. Soltanto a loro riesce a confidare cosa vuol dire avere quindici anni e sentire di avere perso una parte di sé, senza nemmeno potersi aggrappare alla famiglia perché è andata in mille pezzi. Soltanto a loro può confessare la paura e la voglia di avventurarsi in quel mondo nuovo che è la scuola, la magia di incontrare amiche che ti fanno sentire normale e speciale al tempo stesso. Finché, come un viaggio dentro di sé, quelle lettere porteranno Laurel al cuore di una verità che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Qualcosa che riguarda lei e May. Qualcosa che va detto a voce alta: solo così Laurel potrà superare quello che è stato, imparare ad amarsi e trovare il coraggio di andare avanti.
                        Una recensione, una lettera
Caro Charlie, 
la mia prima lettera l'ho scritta a te, sicuro che fosse anche l'ultima. Apri la buca della posta, invece, e mi ritrovi lì. Un francobollo che viene dall'Italia, una busta color crema, la vita scritta sul foglio di un quadernone a righe. La verità è che pensavo non ci fosse più posto. Per una lettera, un'altra. Per persone diverse da te, Sam e Patrick, nella mia piccola infinità. Sono passati sei mesi: la metà esatta di un anno come un altro. Ti dissi che avrei ballato, ricordi? L'esistenza una balera affollata, un Capodanno da affrontare con Converse verdi che aspiravano a essere scarpe da tip tap, nell'ultima notte del mondo. Eroe per un giorno e basta. Mi conosci e sai che ti ho mentito. Te l'ho detto perché suonava bene. La promessa di ballare era la chiusura perfetta del mio messaggio. Una bugia per una lettera piena di verità: perché si sa che l'onesta mi fa paura, quand'è troppa. Mettiamole pure un limite. Quello, il motivo principale, e la mia naturale tendenza a dimenticare le cose. Come quando incontro una conoscente di mamma al supermercato, le dico che le darò i suoi saluti, ma mica lo faccio davvero. E chi ci pensa. Ho trovato un'amica e vorrei presentartela. Ti piacerebbe. Tu piaceresti a lei. Io poi sono la famosa prova del nove. Voi mi piacete entrambi, a me piace pochissima gente, dunque dovete piacervi tra voi. Per forza. Senza condizionale. Dovete. So che lo farerete. Si chiama Laurel. Laurel, questo è Charlie. Fate ciao con la mano, guardatevi. Se vi somigliate, non l'ho notato. Siete fratelli che non lo sanno. Siete parenti che non si somigliano. Nati in città diverse, in epoche diverse. Da semi diversi, ma da impronte uguali. Dio poi ha buttato lo stampino. I malinconici si riconoscono. Hanno una nuvola nera disegnata sulla testa. Voi siete un po' così. Mi siete piaciuti subito, perché anch'io sono un po' così. Sai, comunque, che anche Laurel scrive lettere? Le sue sono lettere d'amore perduto a buchi neri, a soli tramontati, a stelle collassate. Personaggi famosi che non hanno retto, talenti sprecati. La mia amica Laurel indaga sulla loro infanzia, le loro vittorie. Studia cosa avevano in comune loro, e i loro rispettivi addii all'esistenza. Scrive a Kurt Cobain, a Janis Joplin, a Amy Winehouse, a Judy Garland. Però per tutto il tempo pensa a May, sua sorella. Un'adolescente con una camera piena dei loro poster. Ci dormiva insieme. L'inclinazione alla tristezza nel sangue. Il destino dell'autodistruzione incorniciato al muro, accanto a poster dei Nirvana da fare in mille, minuscoli pezzi, ora che lei non c'è più. Laurel non si capisce. 
E' una astrologa di vite eclissate, una metereologa di acquazzoni di pianto e tempeste sentimentali. Fruitrice di musica, creatrice di musica. Lettrice di poesie, autrice di poesie. L'unica cura di sé stessa. Filosofeggia guardando Il cavaliere oscuro e Stand By Me, mentre tu - tra il terrorizzato e il divertito - guardavi Rocky Horror Picture Show, e pensa a come il mondo si sia rovesciato. A Batman che ha perso la sua amata e che è accusato di essere un criminale, al Joker di Heath Ledger che ha un'umanità e un ghigno che turbano, a River Phoenix che sarà sempre il bambino bello e ribelle della trasposizione cinematografica del miglior Stephen King. Così, "forever young". Invitala a pranzo, portala fuori. Niente di imbarazzante: lei porta i suoi amici, tu porta i tuoi. Che tipi che sono! D'altri tempi. Figli dei fiori mancati per un soffio. La coppia: Kristen e Tristan. Uguali e disugali. Lei studiosa, lui saggio e con l'ispirazione dentro, ma senza il coraggio reale di provare a scrivere qualcosa di suo. Hannah e Natalie potrebbero essere un'altra coppia, invece, solo che si amano e non lo ammettono davanti agli altri. Fumano, bevono; le scintille delle canne e le teste lucenti dei mozziconi di sigaretta come lucciole nel Vicolo. Il loro Quartier Generale: un Pensatorio frequentato da hippy degli anni duemila. Nei tuoi quindici anni succedeva qualcosa di simile. Te ne stavi sul divano rosso dello scantinato di Sam e Patrick, con le sigarette che fumavi, anche se non ti piaceva il loro sapore, e il silenzio dei tuoi diecimila pensieri. Da ragazzo da parete a ragazzo da parete, ti capivo. 
Laurel all'inizio non la mettevo bene a fuoco. Forse non l'ho messa a fuoco nemmeno adesso, ma ho imparato a farmela piacere ugualmente. Con i suoi misteri da giovane donna, con quelle lettere che non mi fa leggere. In foto non viene bene, non esce. Vive per conto suo, quasi dietro un vetro appannato: quando è inverno, piove e fuori fa freddo. La stanza è umida, le finestre rigate d'acqua piangono inconsolabili. Ti viene da disegnarci una cosa con il polpastrello, con l'indice: una faccia che sorride, un cuore sbilenco. Hai voglia di intaccare il gelo con la punta morbida di un dito. Apri un passaggio, un pertugio, sul vetro bagnato. Un buco nel mondo di Laurel. Piove e le luci dei lampioni sfarfallano: sono bellissime. E' Natale. Le luci si raddoppiano e si raddoppia quella bellezza opaca – da lampadina che muore, da candela che si spegne, da battito che s'addormenta nei macchinari dell'ospedale. Un battito sordo, lento. Laurel è tutta un tum... tum... tum... Un ritmo pacato, pacifico, che ha tanto sonno arretrato. Non riesce a dormire: la sua stanza è a metà. Manca un pezzo del suo vecchio letto a castello; sua sorella non è da nessuna parte. May era una fata e tra le altre creature alate del suo bosco nero doveva esserci anche la Alaska di John Green. Sono della stessa specie. Di notte, May abbandonava Laurel per spiccare il volo. Quando nessuno la vedeva, si illumava e le sue ali di luce la portavano fuori dalla finestra, nel vento. In mezzo a feste e cuori, sbronze e amori. La mia amica ha guardato e le ali della sua sorella maggiore si sono spezzate. Adesso ha preso a non guardare e a non pensarci. Magari poi lei torna. Dalla finestra semiaperta, dalla morte, ai suoi rossetti carichi e ai jeans buoni strappati sulle ginocchia. Magari poi non gioca più a fingersi morta. Tu hai presente il mare? Porta a riva dei legnetti che non si sa da dove arrivano. Secondo Laurel fanno a gara, come le tartarughine che – rotte le uova – si sfidano a chi arriva per prima all'acqua. May sarà nella prima onda che si infrange a riva, secondo noi. Caro Charlie, ti consiglio questa loro storia. Quando leggo qualcosa che mi colpisce penso sempre ad altri lettori con gusti simili e, in questo giorno di giugno caldo e nuvoloso, mi sei venuto in mente proprio tu. Noi siamo infinito apprezzerebbe Noi siamo grandi come la vita. Per la scrittura tanto semplice, i passaggi delicati, i fiori nell'asfalto e la colonna sonora pazzesca, i personaggi sfocati in cerca di un loro infinito in un'età che infinita non è. I giovani e la morte. Un mistero guardato in faccia da occhi timidi. Laurel ti accarezza e scopri di star male, anche se prima non lo sapevi. La carezza è il memento, la carezza è la cura. 
Con immenso affetto, sempre. M.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran – A Team