martedì 29 novembre 2016

Recensione: Da quando ho incontrato Jessica, di Andrew Norriss

Quando splendeva il sole, delle nuvole non ci si ricordava neanche più. Quando si era in fondo al Baratro, era difficile anche solo pensare che il sole esistesse davvero.

Titolo: Da quando ho incontrato Jessica
Autore: Andrew Norriss
Editore: Il Castoro
Numero di pagine:
Prezzo: 192
Sinossi: Francis non ha mai avuto un’amica come Jessica. È la prima persona che riesce a farlo sentire davvero se stesso. Anche Jessica non ha mai incontrato un amico come Francis. Non solo perché è qualcuno con cui ridere ogni giorno, ma anche perché è la prima persona in grado di vederla e sentirla, almeno da quando è morta un anno prima. Quando incontrano due nuovi amici che riescono a vedere Jessica, scoprire cosa hanno in comune tutti e quattro diventa fondamentale. Perché proprio loro? C’entra qualcosa il modo in cui Jessica è diventata un fantasma? E perché Jessica non ricorda nulla della sua morte? La risposta che troveranno sarà sorprendente e li porterà a una conclusione che nessuno di loro avrebbe mai immaginato.
                                    La recensione
Francis passa la ricreazione seduto su una panchina, anche se tutt'attorno cade la neve. Accanto a lui, con abiti troppo leggeri per le temperature invernali e passi che non lasciano segni sulla terra punteggiata di bianco, un giorno qualsiasi prende posto Jessica. Perché ci si capisce tanto, tra esclusi? Perché, dopo una vita di silenzi e musi lunghi, tornano infine la chiacchiera e il sorriso? 
Nota stonata, all'indomani di un incontro altrimenti perfetto: Jessica è morta da un anno. Non si sa come. Non si sa dove. Ci vuole poco ad immaginare una storia impossibile tra un adolescente e uno spettro senza pace. Bastano una bellissima copertina illustrata, nello spirito degli adorabili romanzi di Rainbow Rowell, e la sensazione di trovarsi davanti a una variante di quei boy meets girl di cui, in sala, vado matto. La quarta di copertina, che ti racconta un appuntamento e un mistero, non specifica però l'età dei protagonisti: troppo giovani, in realtà, per la letteratura young adult. Soprattutto, con una compagnia troppo ampia al seguito per pensare a una storia d'amore. Siamo alle medie, non al liceo. E Francis non è il solo in grado di percepire la presenza fluttuante di Jessica. Si aggiungono presto anche Andi e Roland: i quattro costituiscono una simpatica squadra di spiantati, di annunciati perdenti, che si fa forza contro la prepotenza del prossimo. Quale dote rende possibile il dialogo con quel che resta della defunta? Quale difetto, soprattutto, li posiziona nel mirino dell'arrogante bullo di turno? Francis, appassionato di moda, ha una soffitta piena di manichini, bottoni, stoffe: vorrebbe diventare stilista, da grande, ma cucire è roba da femmine. Andi, aggressiva con gli altri per non soccombere alle offese, è scortese, mascolina, insignificante: picchia duro, ed è priorità degli uomini. 
Roland, gravemente in sovrappeso, ammazza zombie alla Playstation e si ingozza di cibi spazzatura: non esce di casa per l'affanno e per la vergogna. Non ha ricordi nitidi, Jessica, ma in vita ha conosciuto gli stessi dolori. E, in morte, farà di tutto per aiutare i suoi compagni di sventura. Anche a dodici, tredici anni si perde infatti il filo della spensieratezza e la luce in fondo al tunnel si nasconde agli occhi. Lo sa uno che le medie, pur senza le stesse ragioni di Francis, le ha rimosse al pari di un ricordo brutto. Non mi piacevo io. Non mi piacevano gli altri. Non mi piaceva sperare che passassero in fretta i brufoli a grappoli, le battute poco fantasiose degli immancabili ripetenti, quei tre anni di cui non conservo né amicizie, né fotografie. Abbassata la fascia d'età, spartite le pagine tra protagonisti diversi, Da quando ho incontrato Jessica si rivela una lettura diversa dal previsto. Carina e costruttiva, un po' macabra, ma non all'altezza del film mentale che avevo girato già a pagina uno. Andrew Norriss firma un romanzo sui giovanissimi che stenta a far breccia nei lettori più cresciuti. Si parla di bullismo, suicidio e amicizie che indorano la pillola. Ma la troppa delicatezza, la troppa bontà, lo rendono un romanzo a tesi – nobile negli intenti, lieve nella scrittura – che non va oltre i banchi di scuola. Lì farà bene. Di sicuro, meglio delle frasi fatte di chi non ci è mai passato. 
I romanzi parlano forte. E su una panchina, con la neve e i fantasmi, anche quando sono piccoli così, riempiono il silenzio con le parole – e la compagnia – che vorresti.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Regina Spektor – Us

venerdì 25 novembre 2016

Recensione: Benedizione, di Kent Haruf

Persone in casa propria. Vite comuni. Che trascorrono senza che loro se ne rendano conto. Speravo di trovare qualcosa. [...] La preziosa normalità.

Titolo: Benedizione – Trilogia della pianura
Autore: Kent Haruf
Editore: NN Editore
Numero di pagine: 277
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Nella cittadina di Holt, in Colorado, Dad Lewis affronta la sua ultima estate: la moglie Mary e la figlia Lorraine gli sono amorevolmente accanto, mentre gli amici si alternano nel dare omaggio a una figura rispettata della comunità. Ma nel passato di Dad si nascondono fantasmi: il figlio Frank, che è fuggito di casa per mai più tornare, e il commesso del negozio di ferramenta, che aveva tradito la sua fiducia. Nella casa accanto, una ragazzina orfana viene a vivere dalla nonna, e in paese arriva il reverendo Lyle, che predica con passione la verità e la non violenza e porta con sé un segreto. Nella piccola e solida comunità abituata a espellere da sé tutto ciò che non è conforme, Dad non sarà l'unico a dover fare i conti con la vera natura del rimpianto, della vergogna, della dignità e dell'amore. Kent Haruf affronta i temi delle relazioni umane e delle scelte morali estreme con delicatezza, senza mai alzare la voce, intrattenendo una conversazione intima con il lettore che ha il tocco della poesia.
                                               La recensione
Quando non so da dove partire, temporeggio. Introduco la storia, i personaggi, le ambientazioni, aspettando che l'ispirazione arrivi da sé. La pagina bianca fa un po' paura, la prima frase è la più difficile da scrivere. I miei dubbi, oggi, occupano gli spazi vuoti: non quelli relativi a Benedizione – bellissimo come tutti dicono, c'è poco da fare –, ma al modo in cui raccontare quelle letture che dicono tutto pur non parlando di niente. Qual è la storia qui, se la naturale discrezione di Kent Haruf non cede ai vezzi e la coralità è sacrosanta? Quali personaggi includere e quali no, se il tuo è un piccolo post scritto di fretta per riassumere un grande giro di vite? Le ambientazioni campestri ricordano più le sconfinate pianure di McCarthy o le ballate indie folk che vanno per la maggiore nelle mie cuffiette? Sulla scia di queste domande retoriche, prendendo spunto proprio dall'ultima, faccio degli sfondi degli Stati Uniti del sud – tra l'altro, unico filo conduttore della trilogia di Kent Haruf – il mio spasimato incipit. Il sole che al tramonto scompare oltre i pascoli, il crepuscolo che non porta la frescura sperata, un'imprecisata attesa elusa stando seduti sul portico. Siamo in Colorado, nella contea fittizia di Holt. Dove tutti conoscono tutti, i cambiamenti si percepiscono in ritardo e fa strano trovare cenni all'attualità – ad esempio, l'allarmismo post undici settembre – in mezzo ad atmosfere tanto fumose. Affascina questa America di provincia, intorpidita ma autentica. Chiusa verso lo straniero, avrà votato Trump alle scorse presidenziali crogiolandosi in un passato che appare tutto fuorché glorioso. Sul dondolo, ballano le gambe e la vista spazia fin quasi a Main Street: un filare di negozi e negozietti a gestione familiare, automobili che non hanno fretta di arrivare alla meta, bambini in bici e sparuti semafori che gestiscono un traffico inesistente. Le giornate si accorciano pian piano. Dad Lewis contempla la flora e la fauna del posto in cui è nato e in cui morirà con gli stessi occhi di chi guarda le cose per l'ultima volta. La prognosi parla chiaro: gli resta poco da vivere, se lo sta mangiando un brutto male; anziano, però, si consola dicendo che ha fatto il suo tempo. Marito della dolce e fedele Mary, padre di Lorraine e Frank, ha messo da parte un discreto gruzzoletto mandando avanti l'unico ferramenta di Holt; può dirsi fortunato. Ma quanto è felice se, accanto a una malattia debilitante, lo affliggono l'assenza del figlio minore – fuggito via anni prima, perché in provincia l'omosessualità resta una vergogna – e la triste sorte di Clayton, dipendente dalle mani lunghe? Sul suo capezzale, spettri che solo lui vede e i conoscenti di sempre; la moglie si cura della pulizia del suo corpo e degli affanni inimmaginabili, gli amici fanno mostra di buona creanza e sincera riconoscenza. 
Gli chiedono come va e come non va; gli parlano di raccolto, bestiame e nuovi arrivati in paese – un'orfana di nome Alice, il problematico reverendo Lyle –; si congedano con la tesa del cappello da cowboy che nasconde gli occhi fradici. Nel frattempo, la figliol prodiga Lorraine stringe amicizia con le Johnson e insieme, in un cenacolo di donne di generazioni diverse e simili mancanze, le tre decidono di regalare un'estate memorabile alla piccola e solitaria Alice. Il reverendo forestiero, bello e con una famiglia tutt'altro che perfetta a carico, parla sull'altare di fratellanza e dell'importanza di porgere l'altra guancia: i suoi sermoni fanno rumoreggiare i fedeli, facendone emergere la profonda ipocrisia. Benedizione si muove tra passato e presente, in territori e sonorità che amo particolarmente; nel ricordo fresco di Kent Haruf, scomparso due anni fa e apprezzato tardi. Struggente, rilassato, semplicissimo, non era il romanzo che mi aspettavo; non per questo, però, ha deluso le attese. A garantirgli una fama istantanea ma tardiva, mi domandavo all'inizio, trame ingarbugliate e stile aulico?
Dietro un successo senza misteri, invece, una scrittura che è sinonimo di decoro e pudicizia. La benedizione: quella dei caffè annacquati delle tavole calde e delle camicie di flanella; delle barbe folte che si ingrigiscono e dei piccoli gesti di generosità; di arpeggi country e personaggi cristallini. Anche se i padri hanno escluso i figli ribelli dai lasciti e l'ignoranza delle campagne ci rende alieno il diverso. Anche se si finisce a letto con uomini o donne sposati e il sesso diventa mezzo di scambio. Anche se una frase detta con la lingua tra i denti porta a tragiche reazioni a catena – fughe, suicidi, rimpianti inestinguibili – e i fantasmi, con la morte ai piedi del letto, pretendono le scuse e l'ultima parola. C'è chi nasce e c'è chi muore, in questo appassionatissimo gospel tutto laico che si confonde con il cantare delle cicale. Il gesto del benedire è un'estrema unzione per gli ammalati e un solenne battesimo, un ingresso alla vita, per i pastori senza gregge e le mamme senza figli. Kent Haruf rimette i debiti e, nelle intime confessioni che sono i suoi discorsi indiretti liberi, assolve i suoi personaggi dal peccato dell'egoismo. In Benedizione c'è una bontà d'animo che non sembra eccessiva. E tu, che eppure non credi nel prossimo tuo e in Dio chi lo sa, non la condanni – reputandola magari troppa – ma gliela invidi profondamente.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Bob Dylan – Knockin' on Heaven's Door

mercoledì 23 novembre 2016

I ♥ Telefilm: AHS - Roanoke | Black Mirror - Stagione 3

American Horror Story rinnova il mistero e la delusione. A sei anni dal debutto, in una stagione che fino all'ultimo si è tenuta stretta il segreto del suo tema, la serie antologica conferma pregi e difetti. Ryan Murphy – che neanche sul fronte Scream Queens, quest'anno, convince – ha più furbizia che talento. In Roanoke ci si lascia impressionare da pubblicità, struttura e frattaglie. Preceduta da poster che dicevano tutto e niente, anticipata da spot ingannevoli, la sesta stagione si ispira alla leggenda di una colonia americana scomparsa. Su quei luoghi, ai giorni nostri, sorge la casa che hanno acquistato Matt e Shelby: la coppia non trascorrerà un felice soggiorno. Sopravvissuti per miracolo, i due raccontano la verità alle telecamere di un programma televisivo. Roanoke ha una particolarità che in principio incuriosisce: è una serie tivù nella serie tivù, un racconto stratificato. Ogni personaggio avrà un suo doppio. Ognuno avrà un copione e, poi, un lato privato. La stagione, più breve del solito, si divide in due metà: cinque episodi per ricostruire con lo stile del documentario la sfortunata villeggiatura presso una novella Amityville; cinque episodi, a mo' di reality show, per raccontare il ritorno della troupe e dei protagonisti reali nella casa infestata. Mi aspettavo una stagione più asciutta e ordinata. Un cast oggetto di un trattamento finalmente decoroso, con una Paulson protagonista; una straordinaria Kathy Bates, nei panni della Macellaia; una Lady Gaga incantratrice, per fortuna ridimensionata a comparsa. Dieci episodi sono troppi: perché la tensione si disperde nel finale e la noia del già visto abbonda. Non piace l'horror – non quello alla The Blair Witch Project My Little Eye, con cenni sparsi a Rob Zombie e Non aprite quella porta –, se trascinato, spezzettato, diluito. Dieci episodi, se di cognome fai Murphy e non hai il senso della misura, diventano però pochi: per contenere tutti gli amici affezionati che hai, tutti gli attori feticcio, non basterebbe il doppio del minutaggio. Le puntate sono ridimensionate, il cast è rigorosamente immutato: gli attori in soprannumero muiono come mosche. Alcuni - Gaga, gli amatissimi Peters e Farmiga - fanno appena capolino; alcuni - Wittrock, Bomer - ci sono e neanche te ne accorgi; altri - la Paulson, che fa immensa antipatia con le sue arie da prima della classe - passano per la corsia preferenziale, rubando battute ai meno lesti. Tutti sacrificabili, sull'altare di un autore recidivo. Sin dall'inizio abbondano figuranti, idee, violenza: ghost story classica, ma mostrata per vie traverse, Roanoke non è però quel che sembra. E cos'è? A malincuore, il solito guazzabuglio. Un calderone di nomi, citazioni, momenti belli e momenti brutti, che in meno episodi fa danni maggiori. L'ennesimo inutile massacro – di attori, spunti, tempo. (5)

Se non sei abbastanza social, non esisti: la reputazione dipende dal numero dei like e, qualora diminuissero all'improvviso, una damigella d'onore potrebbe diventare un'ospite malaccetta. Un australiano giramondo, bloccato a Londra senza il becco di un quattrino, si presta come cavia per un videgioco: dal survival horror, talmente realistico da fagocitarlo, forse non c'è via d'uscita. Timido adolescente con l'ormone impazzito viene immortalato da una webcam mentre si masturba: per proteggere la sua privacy in pericolo, sotto ricatto, il ragazzo obbedisce alle folli richieste di un aguzzino sconosciuto; a sorpresa, ha da perdere più del previsto. Due ragazze, belle e diverse, s'innamorano in discoteca: il loro paradiso privato è una struggente illusione che ha il suono esatto degli anni '80. Soldato a caccia di un mostruoso nemico, apre gli occhi sull'insensatezza della violenza e della guerra. I più odiati dal web muiono misteriosamente; a decretarne la sanguinosa dipartita, sciami di api assassine e hashtag che ammazzano. Ritagli di storie, frammenti di film d'autore, per la terza stagione di Black Mirror: parto da qui, in ritardo e all'oscuro, non sapendo bene cosa aspettarmi sul piccolo schermo da questa fantascienza varia, minimale, umanistica; da una serie sulla bocca di tutti, a lungo trascurata. La si può vedere come capita: ogni episodio è infatti un cortometraggio a sé – e “corto”, con durate che oscillano dai cinquanta ai novanta minuti, è un aggettivo discutibile – e, se dovessi trovargli un difetto, è proprio l'ordine, la disposizione delle trame, che mi ha lasciato interdetto. Gli episodi conclusivi sono infatti tra i meno memorabili; l'ultimo, giallo dai risvolti catastrofici, è ingiustificatamente lungo. Il resto – tra l'adrenalico e il sentimentale, la satira e il thriller psicologico – è un inquietante prisma che usa la fantascienza come originale corollario. Il futuro dei disparati (disperati) protagonisti di Black Mirror è vicinissimo; per molti, già qui. Il puzzle angosciante, policromo, giudizioso ha il nero del titolo e, in un capolavoro come San Junipero, il suo opposto. Nel ritratto desolante a opera di giovani leve del cinema internazionale – doveroso il cenno al grande Joe Wright in apertura –, prevale comunque l'amaro in gola. Gli alieni verdi di cui farneticavamo da bambini, gli abitatori del futuro, sono nevrotici e tecnologici quanto noi. Ci inquietano le coincidenze; ci si mette nei panni scomodi di protagonisti al limite: calzano a pennello. Sorprende la capacità di condensare storie di senso compiuto in un tempo ristretto; lo spaziare qui e lì senza uscire mai fuori traccia; la consapevolezza che i sei episodi di Black Mirror durino un pomeriggio e molto più. Il loro riflesso, infatti, è un'ombra scura che non ti scolli di dosso. (8)

lunedì 21 novembre 2016

Recensione: Palazzokimbo, di Piera Ventre

Mia madre è un palazzo di otto piani.

Titolo: Palazzokimbo
Autrice: Piera Ventre
Editore: Neri Pozza
Numero di pagine: 425
Prezzo: € 18,00
Sinossi: Nella prima metà degli anni Settanta, Stella, detta a scuola stelladamore, col nome attaccato al cognome, ha un palazzo intero per madre. A Napoli, tutti lo chiamano Palazzokimbo per via dell’enorme insegna pubblicitaria che campeggia sul tetto. Chili e chili di ringhiere, porte blindate, chiavistelli… un clangore di ferro risuona per i suoi otto piani, fino alla cima, una distesa asfaltata e ricoperta di antenne, da cui si scorge tutta la città, compresa la striscia di mare dove si erge la Saint-Gobain, la vetreria proprietaria degli appartamenti in cui vive il personale della fabbrica. Settanta famiglie di operai, come il papà di Stella, e impiegati ed elettricisti che hanno a che fare con silice, ossidi, nitrati e amianto, e rientrano a casa coi vestiti che sopra i baveri sembra vi sia uno spolvero di talco. All’ottavo piano abita la famiglia D’Amore. Ci sono i genitori, zia Marina, la sorella signorina di papà, i nonni paterni, Stella e sua sorella Angela. C’è pure un gatto, battezzato Otto, per un semplice calcolo d’aggiunta. Tanti D’Amore, e ciascuno con un passo e una voce, un modo di sbattere le porte, di strascicare i piedi, di richiudere sportelli, di calibrare il volume della televisione. Quattro piani sotto vive la signora Zazzà, che calza sempre le pantofole, indossa una quantità di stracci variopinti e cela un segreto che nessuno conosce. Quando non si aggira per Palazzokimbo, Stella trascorre il tempo incantato della sua infanzia con Consiglia, l’amica del cuore coi capelli rossi che le sfiammano lampi sulle spalle, le guance accese e la lingua velenosa. Nel ventre di Palazzokimbo penetrano, però, anche i fatti di fuori, gli eventi terribili della fine degli anni Settanta: la deindustrializzazione, il rapimento Moro, la strage di Bologna… L’esistenza dignitosa della brulicante umanità di Palazzokimbo appare allora soltanto come una fugace parentesi, e l’infanzia incantata di Stella come un breve preludio alla consapevolezza dei guasti della vita che l’età adulta dona.

                                          La recensione
Non si chiedeva amore alla morte. Alla morte, tutt'al più si poteva domandare solo pietà, un'avara proproga sull'inevitabile. A Napoli, invece, si accarezzavano teschi come se si trattasse di lisciare il pelo ai gatti. Si vezzeggiava l'oscuro per il terrore di venirne divorati. Torno alla mia tesi tornando in visita, tra le pagine di un libro, nella bella Napoli. Città sismica, contraddittoria come nessuna, che si dirama ai piedi di un Vesuvio sonnecchiante con i suoi dedali di vicoli e mercatini, monumenti e fabbriche. Il sacro e il profano all'ombra di un pericolo che dorme. La descriveva malsicura e preziosa, passeggera, il protagonista di una commedia di Manlio Santanelli intitolata Uscita di emergenza. L'ex suggeritore teatrale, di ritorno dalle tournée, si avvicinava alla sua casa, alla sua gente, in punta di piedi: trattenendo il fiato. Non beduino ma teatrante fiero e disincantato, si paragonava a un abitatore del deserto che raggiungeva l'accampamento dopo una spedizione. Avrebbe rivisto la sua tenda, oltre l'ultima duna? E lui, avrebbe trovato le solite facce amiche, la solita Napoli, scrutando l'orizzonte dopo un lungo viaggio? 
Una simile precarietà, lo stesso amore, nel romanzo di esordio di Piera Ventre. Una lettura lunga e potente, a cui avvicinarsi con il giusto stato d'animo. Perché ogni pagina, viscerale e sincera, vuole essere letta e interiorizzata. Perché, se amanti di letture scorrevoli e dinamiche, le storie degli abitanti di un condominio imponente, in questa imponente opera prima, potrebbero non interessare. Si chiama Palazzokimbo. Otto piani di cemento e lamiere, quattrocento pagine di vita vissuta. In cima, tanto alti da sfiorare il cielo, vivono Stella D'Amore e la sua numerosa famiglia. Si dividono l'ossigeno e il bagno in sette; otto, considerando un gatto randagio che proprio non vuole imparare a usare la lettiera. Un papà che lavora in fabbrica e, a orari impossibili, sbuca dall'ascensore stanco e intossicato; una mamma dalla voce cristallina e dalle curve abbondanti, che ha sempre un proverbio per tutto; una zia signorina che si strugge pensando all'amore cantato a Sanremo; una nonna ammalata e un nonno dalla memoria ballerina; una sorella minore, Angela, con cui accapigliarsi e confrontarsi mentre gli anni '70 cedono il passo agli '80. Ai piani di sotto, qualche parente attaccabrighe; una bambina troppo perfettina per andarci d'accordo; l'inquietante Zazzà – forse una strega, forse una povera vecchia ammalata di solitudine – che parla un dialetto talmente stretto da risultare indecifrabile. Ad aprirci le porte, ad accoglierci in casa consigliando di metterci comodi finché dura, la primogenita: narratrice bambina, brillante e linguacciuta, Stella guarda l'infanzia e l'adolescenza dalla sommità del suo grigio grattacielo. Dall'altra parte di un paio di occhiali a fondo di bottiglia. 
Tutto appare una scoperta, allora: le scuole elementari e poi le medie, la prima cotta, la passione per la lettura, l'idea di abbellire la verità nei temi in classe. Tutto, in fondo, è magia: il malocchio che porta i mal di testa; i denti da latte incastrati nelle crepe dei muri e affidati alla benevolenza di Sant'Antonio; la cruenta uccisione del maiale a gennaio e il laborioso processo per la preparazione della perfetta salsa di pomodo; i fuochi d'artificio a Capodanno, che trasformano la mezzanotte in pieno giorno. Stringendo la cinghia, si risparmia abbastanza da potercisi permettere il televisore a colori: c'è poco da invidiarli, così, quei cuginastri antipatici; i capelli di Ron Howard in Happy Days sono rossissimi sì; l'attualità, senza la vaghezza del bianco e nero, fa spavento. Gli attentati terroristici, la strage di Ustica, il terremoto dell'Irpinia. Palazzokimbo vacilla, ma regge agli urti del destino. Stella cresce in altezza, ma non dimentica se stessa. Il napoletano si fa secco, ma non muore. Dopo testi brevi e racconti, l'autrice – campana di nascita, toscana d'adozione – si dedica alla narrativa, arrivando finalista al prestigioso Premio Neri Pozza. Scrive ciò che sa, come recita il consiglio che tutti gli aspiranti scrittori si sono sentiti rivolgere almeno una volta nella vita. Il nostro, però, è un bagaglio di conoscenze condiviso. Piera scrive cose che, per sentito dire, conosco bene anch'io. Figlio di genitori napoletani e ciarlieri, coetanei dell'autrice, ho trovato in questo Palazzokimbo abbastanza spazio per noi quattro. Ci somigliavamo. Foto di famiglia con soggetti diversi e pose simili; soprattutto, con lo stesso passato. Parlo di radici e penso alla Ferrante, all'Amica geniale; dico che in Palazzokimbo, non altrettanto noto, c'è però molta più Napoli. La musicalità degli accenti, i raudi e i tricchi-tracchi, i detti saggi, i colori sgargianti e la decadenza sotterranea. C'è che per l'autrice, che di cognome fa Ventre, la scrittura è proprio questione di pancia. Carnalità. Liquido amniotico che salva la sirena Partenope dal suicidio e, delicatamente, la restituisce al suo mare. 
Palazzokimbo non parla di niente. Quel niente, suggerito così, diventa il tuo tutto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Pino Daniele – Napul'è 


venerdì 18 novembre 2016

Mr. Ciak: Florence Foster Jenkins, Bridget Jones's Baby, Sausage Party, Ouija - L'origine del male

Una ricca ereditiera col pallino del bel canto si esibisce in sale pienissime. Il pubblico la adora, e lei si dà a inchini e virtuosismi sotto le luci della ribalta. O almeno così pensa. In realtà ha il solo primato di essere la cantante più stonata al mondo. Lei non lo saprà mai, forse. A proteggerla, una schiera di lacchè e portaborse che pendono dalle sue labbra, corrompono i detrattori, si affezionano la platea con lauti assegni. La donna non deve pensare che al trucco coprente, al sorriso bianco, alla parrucca ben fissata. Giusto ingannarla, e giusto ingannarsi? Florence Foster Jenkins è una commedia sofisticata che ha tanto in comune con l'ultimo Allen passato in sala: la cornice, finemente intarsiata; i lustrini e i caffè; quegli anni '30 che erano precarietà e fumo. Tutto è illusione e, se non ci risvegliano dai sogni di gloria i bombardamenti o una malattia debilitante, è un nulla mettere a tacere i malparlieri. Sembra sciocca a prima vista: vanagloriosa, sgolata, infantile. Non si accorge che i suoi acuti disturbano il sonno del mio gatto. Non sa che ridiamo fino a farci venire il mal di pancia, e di lei. Va per i sessanta, da cinquanta convive con la sifilide, da venticinque ha sposato un attore inglese senza arte né parte che alle sue spalle ha un'altra compagna. Derisa di nascosto, ma protetta sotto una campana di vetro, Florence fa sì che subentri presto un nuovo sentimento, la compassione; infine la tristezza. Per una bugia fragilissima. Per una missione – spalleggiarla tacitamente -, che si trasforma in amore. A mettersi in gioco, senza paura e rischio di cadere nel ridicolo, una Streep verso cui sembra inutile spendere aggettivi di troppo: sotto il mascherone gaudente, una donna circuita, dolorante, abbandonata. A sorpresa, però, Florence Foster Jenkins non è lo show in solitaria preannunciato. Questa Streep meno d'impaccio permette l'affastellarsi tutt'intorno di una serie di figure che si curano di starle al passo: un maturo Hugh Grant, marito opportunista ma premuroso; l'esilarante pianista di Simon Helberg, le cui espressioni di sgomento dicono più di mille parole. E, sempre a sorpresa, il leggerissimo Florence Foster Jenkins leggero non è lo così tanto. Gli strilli sono esagerati, le facce e i gesti ricordano la slapstick comedy, ma se dirige il premiato Stephen Frears – garanzia di classe e giusta misura, qui vicinissimo ai toni di Lady Handerson presenta – la farsa avrà un retrogusto amaro. Metterà profonda tristezza. Il regno di giullari e stornelli della trasognata Florence, tutta felice con il suo trono di ovatta e la corona di carta stagnola, non è per sempre. (7)

La single delle single è tornata. “Di nuovo?”, uno dice, ricordando un trascurabile secondo capitolo e non celando un moto d'insofferenza verso quei sequel che, su carta, sembrano fuori tempo massimo. Qualcosa è cambiato: Helen Fielding ha dato alle stampe un romanzo in cui Darcy tirava malauguratamente la cuoia e l'espressiva Renée Zellweger si è allontanata dalle scene, cedendo al fascino del chirurgo. Tanta acqua è passata sotto i ponti, e l'idea di una pellicola conclusiva ha fatto infiniti vai e vieni in casa Miramax. Saprete che l'eroina dei primi anni Duemila è più magra, più tirata, più confusa del solito. Ormai quarantenne, messa in allerta dall'orologio biologico e a tappeto dagli aperitivi, ha passato due notti di fuoco di fila: una con l'americano Patrick Dempsey, milionario dal cuore d'oro che ha sostituito Hugh Grant, qui assente giustificato; un'altra con Colin Firth, che per Bridget resta un tasto dolente. La coppia felice, infatti, è scoppiata. Al cinema si resuscita l'amatissimo Darcy, facendo carta straccia di quel terzo romanzo così avversato in rete, e la protagonista è in dolce attesa. Ma di chi? Ci si riprova e, tra grasse risate, poligoni sentimentali e dilemmi, questa Bridget rivista e corretta sorprende con uno dei pochi sequel in grado di rivaleggiare per ironia e leggerezza con il capostipite. Bridget Jones's Baby non ricicla situazioni e non snatura i suoi personaggi: accanto allo scoppiettante trio - che non risente dell'assenza di Grant, né di quel ritocchino a cui tocca giusto fare gli occhi -, regalano spunti comici la ginecologa della Thompson e la sboccata conduttrice Miranda. I test del DNA si fanno in diretta tivù, l'epilogo sarà agrodolce per uno degli aspiranti genitori, la visione di una mamma con due papà confonderà i benpensanti. La femminista Bridget sta al passo. Scambia la struggente All by my self per un pezzo tutto da ballare nella sua mansardina solitaria, vede i suoi amici omosessuali parlare d'adozione e, in ufficio, assiste a tagli netti con la scusa del rinnovo generazionale. Lei, quindici anni e un dimenticabile capitolo centrale dopo, è ancora sul pezzo, anche se la vanità ha rischiato di intaccarne la simpatia. E, maestra nell'arte di arrangiarsi e di figuracce, trasforma un prodotto dato per spacciato, così, in un intrattenimento perfetto. I nodi vengono al pettine; ci si scopre non troppo stravolti; si ride rumorosamente, non sbugiardando l'umorismo british. (7)

Frank e Brenda si amano follemente. Prigionieri, aspettano la libertà. Siamo in un supermercato popoloso, colorato, libertino, e gli innamorati ostacolati in questione sono una salsiccia e un panino: fior di metafora. Lui in una confezione, lei in un'altra, sperano di unirsi nel momento in cui un acquirente qualunque li metterà nel carrello. Oltre le porte automatiche immaginano il paradiso. Presto, tuttavia, scopriranno di essere stati ingannati: il loro destino è essere mangiati in un solo boccone da americani a un passo dall'obesità che se ne fregano di carboidrati e veganesimo. Riusciranno a ribellarsi? Se l'incensato Inside Out mostrava cosa accade alle emozioni di una bambina che cresce, l'incensurato Sausage Party si fa carico di un intento altrettanto nobile: quant'è triste, ditemi un po', l'avvenire di prodotti alimentari e beni di prima necessità, a un passo dalla "strage" del quattro luglio? Tra le corsie di un supermercato come non l'avete mai visto prima, due moderni Romeo e Giulietta, minacciati da un'antagonista d'eccezione – la perfida Lavanda vaginale, ferita nell'orgoglio –, affrontano sconvenienti triangoli sentimentali, avventure e tabù. Nel mirino: cibi spazzatura, vegetariani e bigotti benpensanti. Nonostante già a scatola chiusa le idee di Sausage Party apparissero totalmente folli, con allusioni e doppi sensi che disconoscevano qualsiasi pudicizia o senso del decoro, il cartone animato vietato ai minori rivela nel suo strabordante e sconclusionato epilogo l'irresistibile morbosità dei suoi autori, nonché gli intossicanti ingredienti dell'impasto. C'è anche qui l'olio di palma, chiederanno le mamme preoccupate? Con lo zampino dei soliti Seth Rogen e Evan Goldberg, dove la volgarità non ha misura e alle grassissime risate non c'è freno, tra ammucchiate equivoche e carneficine, la corretta alimentazione è l'ultima cosa di cui preoccuparsi. Da questo orgiastico banchetto animato, in cui non so se il genio o l'idiozia prevalga, si astengano dunque pargoli e animi delicati. (6,5)

La famiglia Zander è composta da sole donne: una madre e due figlie che sbarcano il lunario leggendo le carte e dando agli acquirenti l'illusione di parlare coi cari estinti. Un po' ciarlatane e un po' filantrope, si muovono nella sgargiante Los Angeles degli anni '60 in cui, sulla scia delle mode, arrivano le prime tavolette ouija. Un altro trucco per i loro show, finché la piccola di casa non dimostra che c'è vita oltre la morte. Ricettacolo di voci e spiriti, canale del male, Doris preoccuperà tutti con i suoi segni di squilibrio interiore. Rendendo infernale la convivenza e autentica l'attività di famiglia. Due anni fa, arrivava in sala Ouija. A memoria, tra i film più brutti e inutili della sua annata. Storia di possessioni spiritiche e magioni infestate di cui non serbo ricordi dettagliati, figuriamoci rancore, ha avuto presto il suo immancabile seguito. A fargli dare una seconda chance, la regia di Mike Flanagan: giovane regista che, accanto a James Wan, è tra i freschi nomi di punta in materia di brividi e spauracchi in poltrona. Se l'autore di Sinister e The Conjuring, però, ha da tempo trovato una propria cifra stilistica – il secondo capitolo ispirato alle indagini dei coniugi Warren, ad esempio, è un gioiellino di buon gusto -, lo stesso non può dirsi del collega. Promettentissimo su carta, ma in cerca del film della svolta. L'origine del male non è la possibilità che Flanagan aspettava, tradizionale e lontano dalla memorabilità com'è; con a mente gli sbadigli e gli scivoloni del capostipite, che si prestava alla facile ironia e alle stroncature secche, è impossibile non riconoscergli, però, pregi lapalissiani. Non li si cerca di certo nella trama: intreccio convenzionale, che prevede agenti immobilari inaffidabili, case dal passato oscuro, bambine demoniache sensibili al male e finali coi puntini di sospensione annessi. Ma quella padronanza, quella tecnica a cui mancano ancora le viscere e il cuore, fa la sostanziale differenza. L'origine del male è tanto classico, troppo, ma lì stanno i pro: una confezione elegantissima, ambientazioni retrò, colori pastello con innesti noir. Trascurabile, va da sé, ma affascinante. Anche se l'occhio attento e vanesio indugerà sulla bellezza, trascurando sbavature minime e mostri conosciuti. (6)

martedì 15 novembre 2016

Recensione a basso costo: Zoo, di Isabella Santacroce

La paura è il corpo in cui abito, non ci sono finestre. [...] L'ho addosso, è la mia nuova gabbia.

Titolo: Zoo
Autrice: Isabella Santacroce
Editore: Fazi
Numero di pagine: 124
Prezzo: € 9,00
Sinossi: Chiusi in un mondo a parte, in un recinto domestico che oscilla tra lo Zoo di Tennessee Williams e un set di Ingmar Bergman, tre personaggi senza nome - il padre romantico e fragile, la madre onnipotente e manipolatrice, e la dolce "innocua figlia" non poi così candida - si amano lungo gli anni di un amore malato e claustrofobico, sfidandosi a colpi di seduzioni, ricatti, tentazioni morbose, ambizioni frustrate, fino ad annientarsi l'un l'altro in un rituale di umiliazione, mutilazione, eliminazione prima emotiva e poi carnale. Il romanzo è un monologo ossessivo, un dramma della memoria raccontato dalla figlia che ricorda in un lungo flashback.

                         La recensione
Sono capitato nelle carceri di una famiglia senza nome, al centro della gabbia, per caso. Passeggiavo e, tra le bancarelle, per pochi euro, ho incrociato il nome di Isabella Santacroce. Autrice dall'indole originale, appariscente e bizzarra nelle mise, qualche anno fa mi era saltata all'occhio per il suo vestiario da bambolina burtoniana e un linguaggio barocco. Carismatica e inquietante, mi aveva fatto curiosare istintivamente tra i suoi lavori: favole gotiche, romanzi di formazione al limite, storie provocatorie. C'era chi li amava e chi li odiava; e poi c'ero io, che nell'indecisione grande avevo lasciato stare. Temevo di non sopportare uno stile così, a confine con la poesia, a lungo tratto. Zoo si prestava: breve, apprezzato, interessante. Soprattutto, con più di quache punto di contatto con la bibliografia consultata per la mia tesi. Mi laureerò a dicembre in Letteratura teatrale, e in questi giorni do gli ultimi tocchi alle analisi delle commedie caustiche e nerissime della drammaturgia post-eduardiana. Dove le immagini confortanti del tinello domestico e del presepe a Natale, delle famiglie riunite per il sacro rito del pranzo, sono rimpiazzate da appartamenti decrepiti e parenti serpenti. 
Dove i finali sono tragici, ma sospesi, e non c'è una scappatoia né per terra, né per cielo da rapporti di sangue vincolanti quanto l'ergastolo. I panni sporchi si lavano in scena, la famiglia patriarcale è in crisi d'identità, i figli non sono amati abbastanza oppure sono amati troppo. La Santacroce che ho conosciuto qui, evocativa e sferzante, abbandona i pizzi e i corsetti per un minuscola saga familiare; una mina inesplosa pronta a far danni irreparabili. Vicino ai miei studi per i temi e per la struttura – la forma, infatti, è quella di un lungo e ininterrotto monologo –, il romanzo parla delle catene invisibili di una mamma assente, un padre fragile, una figlia vendicativa. I personaggi, per tutto il tempo, resteranno sprovvisti del nome. L'identità individuale, cancellata in nome del “noi”; la libertà negata che, in unione alla stizza, li rende bestiali. In una città qualsiasi, in un appartamento qualsiasi, la narratrice diciottenne descrive con ferocia quella famiglia in cattività. La madre, donna bella e appariscente, ama gli sguardi degli sconosciuti e l'umiliazione dei più deboli; porta il pane a casa, proprietaria di una boutique di lusso, mentre il marito è alle prese con ingaggi precari e fantasticherie infantili. Il padre, artista e sognatore, dipinge ma non convince i galleristi; persona gentile e delicata di cuore, compensa al disamore della consorte sommergendo la figlia di attenzioni, negandole la spensieratezza della gioventù. La protagonista, tra l'incudine e il martello, non è abbastanza per mamma ma è tutto il mondo per papà. Disintegrato il triangolo e sovvertiti gli equilibri, ferita nel corpo e nello spirito, cercherà un castigo esemplare e una libertà impossibile. 
Farà male. Si liberà di un sangue uguale identico al suo. Le chiavi della cella passano da un personaggio all'altro; si è carcerieri e carcerati a parafragi alterni. La casa, da tempio, diventa un campo minato in cui si ha paura di mettere il piede in fallo: a rischio di risvegliare il cane, e il rancore, che dorme. Morde e non abbaia, la Santacroce: una voce flautata, che ti stritola nella morsa della sua musica. Parole ballerine, frasi spezzate, aggettivi arditi. In un romanzo più lungo non mi infastidirebbe? In un centinaio di pagine così, tra affetto e sopraffazione, il lirismo ha creato reazioni chimiche e strascichi emotivi incontrando la cronaca nera. Zoo mi ha ricordato L'imperfetta e La figlia sbagliata: come nel primo, una sanguinaria Elettra dal suono melodico; come nell'altro, la tragedia senza fondo di una stirpe maledetta. Più forte della Scotti, più esagerata della Romagnolo, Isabella Santacroce fa sentire spossati e complici. Infangati fino alle ossa. Qualche post fa, addolcito dall'autrice giusta nel momento sbagliato, parlavo di romanzi belli, romanzi brutti e romanzi adorabili. Mi sfuggiva, lì per lì, il pensiero di letture come questa. Troppo disturbanti per essere belle, troppo ben scritte per considerarsi brutte. Adorabili, non di certo: sgradevolissime. Non per tutti e non da tutti. 
Zoo è virulento, bestiale, pesantissimo. La famiglia resta anonima, ma il romanzo non rischia la stessa sorte. Soggiorno scomodo, controindicato ai più, che finisci presto e presto ti sfinisce. Mi è piaciuto, a modo suo. Però non basta il Maalox.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Afterhours – Ballata per la mia piccola iena

sabato 12 novembre 2016

Zapping: The Young Pope, Rocco Schiavone, No Tomorrow

L'hanno eletto pensando di manipolarlo. Ma Lenny, orfano americano protagonista di un'ascesa folgorante, ne sa una più del diavolo. E, di bianco vestito e con un crocifisso sulla testata del letto, è il Pontefice in persona. The Young Pope, attesissima dai più, è la serie evento firmata da Paolo Sorrentino. Orgoglio italiano, mi ha sempre suscitato una profonda antipatia. Presuntuoso, patinato, vanesio com'è. Il suo regno, La grande bellezza. In cerca di redenzione, mi ero ricreduto con Youth: una storia ambientata sulle alpi svizzere, con un cast d'eccezione, in cui non tutto era un copia-incolla in memoria di Fellini. Potevo sorbirmi, però, dieci ore complessive di Sorrentino? Poteva entusiasmarmi il suo ritorno alla Roma di Toni Servillo, e per di più sullo sfondo di un mondo che mi vuole scettico? I manierismi di Paolo, la Chiesa cattolica: troppo, se tutto insieme. Invece, sin dall'incipit, The Young Pope stupisce e diverte. Pungente, anticonformista, provocatorio. Perfettamente riconoscibile, ma meno astratto, meno onirico; con dialoghi fiume a cui non assistevo dalla visione di Steve Jobs, scarsi sofismi, angelus surreali che celebrano la modernità. Il Papa, in una Roma uggiosa in cui si diradano le nubi all'improvviso, parla di masturbazione, aborto, eutanasia, unioni civili. E non le condanna. E, benché fotogenico e affascinante, “più bello di Gesù”, rifiuta l'apparenza. E' buono o cattivo? Vuole distruggerla o riformarla, questa Chiesa corrotta e antiquata che ci allontana dal culto, anziché salvarci? Impossibile esprimersi, se un Jude Law fascinoso e carismatico come non mai ha una faccia che dice tutto e niente. Certo, più cristalline – seppure nella loro crudeltà – le intenzioni dell'esilarante Silvio Orlando e di un'impassibile Diane Keaton, che sembrano rubati agli intrighi di Scandal. In attesa di capire dove vorrà andare a parare, in cerca dell'episodio successivo, questo imprevedibile Sorrentino in pillole mi ha convertito alla sua causa. (Sì)

Ho notato in libreria i gialli di Antonio Manzini quando, ormai, il debutto della serie televisiva era questione di giorni. Dopo i pessimi L'allieva e I Medici – premiati dagli ascolti, ma abbandonati al primo episodio senza colpo ferire -, le speranze latitavano. Guardo il primo episodio e basta, mi sono detto: prevedibilmente, mi invoglierà a non proseguire e, da lì, recuperare i romanzi sarà automatico. Rai Due, dopo L'ispettore Coliandro, vuole sorprenderci con un'altra chicca. Il primo episodio, trasposizione di Pista nera, è un piccolo film a tutti gli effetti: taglio cinematografico, protagonista di prima scelta, toni noir che conoscono un inaspettato umorismo. Dirige Michele Soavi, a lungo bollato come promettente e altrettanto a lungo collaboratore di Dario Argento; interpreta il vicequestore romano trasferito in alta montagna un Marco Giallini perfetto. Tipo bizzarro, Schiavone: il carattere burbero, il linguaggio colorito, troppe sigarette e perfino qualche canna, nonostante il distintivo. Cosa ha causato il suo esilio al nord? Riuscirà a rigare dritto, mentre un amico trafficante gli indica un carico che scotta? Per certi versi capace di grandi gesti di generosità, per altri truffaldino e avido, Schiavone è l'incarnazione del politicamente scorretto. Lascia Isabella Ragonese a casa, mentre si intrattiene con l'amante sul retro di una boutique di abiti da sposa; tenta di dare un'identità al cadavere smembrato trovato sotto i cingoli di un gatto delle nevi; collabora con la giustizia e, nel mentre, la ostacola. Con lui, un giovane poliziotto debole di stomaco da indirizzare al lato oscuro della divisa e alle gioie del sarcasmo gratuito. Calibrato mix di rigore e leggerezza, Rocco Schiavone si fa seguire partecipi, divertiti e, davanti al colpo di scena dell'epilogo, colti in contropiede. Nel mentre, fa borbottare i politici e i benpensanti. Sotto la neve, i cadaveri e le vere sorprese del piccolo schermo. Ecco come si può fare bene con poco, non planando sulle vette e gli eccessi dell'ultimo Sorrentino. Ecco come rosico, io, perché questo Rocco lo conosco solo ora. Solo qui. (Sì)

Evie fa tira e molla con il fidanzato storico e fantastica su un ragazzo incrociato al mercato. Per puro caso, si rivedono: lui, infatti, è il nuovo vicino di casa. A essere bello è bello, a piacersi si piacciono, ma Xavier ha un segreto di cui prontamente la mette a conoscenza. Un difetto grande quanto un meteorite. Fanatico di cospirazioni, si dice in possesso delle prove dell'imminente fine del mondo. Si è licenzialo. Ha deciso di godersi la vita, finché dura. E vuole trascinare Evie nella sua folla. Se avesse torto? Ma se, in fondo, avesse ragione? A No Tomorrow, commedia romantica targata The CW, non si può dire granché male. Piacevole, lieve e solare, ha uno spunto interessante che vivacizza una storia d'amore, in apparenza, piuttosto convenzionale. La paura di un'imminente catastrofe, infatti, spinge i protagonisti a bruciare le tappe; a mettersi in gioco. Perché non voltare pagina, perché non vincere la paura del palcoscenico e cantare, se del “domani non v'è certezza”? Ho avuto l'impressione che quaranta minuti fossero un po' troppi, però: in formato sit-com, No Tomorrow risulterebbe molto più facile da incastrare tra una visione e l'altra. Tori Anderson, canadese bionda e tutta pepe, fa simpatia. Joshua Sasse, salutato in Galavant, ci riprova. Gli episodi intanto si accumulano, e di darsi a una maratona, nonostante la leggerezza, c'è poca voglia. Discreto, sì. Non la fine del mondo. (Nì)

giovedì 10 novembre 2016

Recensione: A spasso con Bob, di James Bowen

Tutti abbiamo diritto a una seconda occasione. Bob e io ci siamo presi la nostra.

Titolo: A spasso con Bob
Autore: James Bowen
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 238
Prezzo: € 17,90
Sinossi: Quando James Bowen trova davanti alla porta del suo alloggio popolare un gatto rosso, rannicchiato in un angolo, impaurito e malato, non immagina quanto la sua vita stia per cambiare. James, ventisette anni, un passato di alcol e droga, non ha un lavoro né una famiglia su cui contare. Vive alla giornata per le vie di Londra, e raccoglie qualche spicciolo suonando la chitarra davanti a Covent Garden e nelle stazioni della metropolitana. L'ultima cosa di cui ha bisogno è un animale domestico. Eppure non resiste a quella palla di pelo, che subito battezza Bob. Pian piano James riesce a farlo guarire, e a quel punto lascia il gatto libero di andare per la sua strada, convinto di non rivederlo più. Ma Bob è di tutt'altro avviso: per nulla al mondo intende separarsi dal suo nuovo amico e lo segue ovunque. Instancabile. Finché a James non rimane che arrendersi. È l'inizio di una meravigliosa amicizia e di una serie di singolari, divertenti e a volte pericolose avventure che trasformeranno la vita di entrambi, rimarginando lentamente le vecchie ferite, anche quelle più profonde.
                                             La recensione
Se me l'aveste chiesto qualche anno fa, diciamo due, mi sarei definito più un tipo da cane che da gatto. La scusa, sempre quella: il migliore amico dell'uomo, la fedeltà incondizionata, una compagnia fissa. Poi, in una sera di novembre, mio fratello è tornato a casa con un trovatello miagolante, infagottato nella sua giacca a vento. Da allora, mi sono convertito. A tal punto da domandarmi come impiegassi le giornate senza la presenza di Ciro, che perseguito e tormento ma in nome del bene più grande al mondo. Lo sveglio con i flash della macchina fotografica quando, dormendo, ha assunto una posa particolarmente adorabile; lo bacio e accarezzo tra gli occhi, rovinando quei riti di pulizia in cui è scrupolosissimo; gli impedisco le sue avventurose passeggiate sul cornicione, da quando ha fatto un volo dal secondo piano e, per un pelo, ha rischiato di non essere più con noi. Gliela faccio pagare per quelle notti in cui mi devo mettere in posizioni assurde, rinunciando alle lenzuola, pur di non disturbarlo se ha scelto il mio letto come appoggio. Capisci che è troppo tardi, semplicemente, quando si è addormentato sulla tua sedia, a tavola, e trascini quella con le rotelle dalla cameretta alla cucina per non guastargli il sonno. Se per strada vedo un gatto, adesso, fermo il traffico dell'ora di punta pur di fargli una carezza. Se in libreria incrocio una copertina con un paio di occhi gialli, io che eppure amo gli animali ma non i libri sugli animali, ci faccio un pensierino. Magari non lo compro, il romanzo, ma lo rigiro tra le mani e leggo nelle alette riassunti che parlano di cuccioli miracolosi, vite stravolte in meglio, sinergie imprevedibili. Alla fine ho fatto un'eccezione richiedendo la ristampa di A spasso con Bob, complice un film in uscita che si preannuncia emozionante. La storia parla dell'imprinting tra un randagio misterioso e un cantante di strada. Non si conosce il passato del simpatico gatto rosso, comparso sullo zerbino del suo futuro padrone in condizioni critiche: servivano urgentemente le cure di un veterinario, i soldi scarseggiavano, ma l'amore faceva stringere la cinghia a cuor leggero. Il passato del protagonista, al contrario, è avvolto dalla vergogna e anestetizzato dal metadone: australiano a Londra, James cade nell'abisso della dipendenza e, d'un tratto, si trova costretto a sorpravvivere con furtarelli e impieghi di fortuna. Vive sotto i ponti, prima che gli assegnino un appartamento nelle palazzine popolari. Come si passa dall'avere tutta la vita davanti alla totale perdita di sé? James strimpella i Nirvana in pizza, ma da Cobain ha preso solo le tendenze autodistruttive. 
Se ne accorge in questo romanzo, a metà tra l'autobiografia e la favola, in cui passa dalle accuse di accattonaggio al vendere giornali agli angoli della metropolitana; in cui c'è Bob che, per fortuna, rivoluziona ogni cosa. Il gatto non lo molla: gli sta alle costole in ricchezza e in povertà, nelle crisi di astinenza e negli impieghi malpagati. Temono entrambi la solitudine, non si allontanano neanche quando tocca rimboccarsi le maniche. E Bob, che fa i suoi bisogni nel gabinetto come il gatto di Ti presento i miei e torna sempre a casa, con le sue sciarpe in miniatura e l'espressione pacifica, è un'irresistibile attrazione per turisti e pendolari. Si fermano per uno scatto, un video, e nel frattempo permettono che anche James sbarchi il lunario. Lo rendono una stella di YouTube; poi protagonista di una serie di best-seller per grandi e piccini; infine, attore a quattro zampe che sul Red Carpet si fa coccolare da Kate Middleton in persona. In questa storia di riscatto e seconde chance, il gatto che ha il nome di un personaggio di Twin Peaks è raccontato da un narratore, però, non all'altezza. 
Non ho provato gran simpatia per James Bowen, io che eppure sono un fan delle rinascite. Mi è sembrato che avesse una storia, ma non gli strumenti per raccontarla. Che, in fondo, senza arte né parte, si sia arricchito per via del gatto giusto nel momento giusto. Non discuto la natura del loro affetto, ma in A spasso con Bob ho trovato un'insincerità di fondo. Colpa di uno stile asciutto, impersonale, che rende la lettura piacevole ma trascurabile. Colpa di una musicalità che nelle parole dell'ex musicista, stranamente, latita. Non c'è verve; soprattutto, non c'è la ruvidità della strada. Le parolacce sono censurate, le difficoltà semplificate e così edulcorata, così ripulita, la felice parabola di James Bowen – da sventurato mendicante a scrittore – mi è parsa artificiosa. Ho tirato un sospiro di sollievo nel sapere Bob in perfetta salute: a scatola chiusa, così, ho subito scongiurato il pericolo di disperarmi come all'indomani di Io e Marley e Hachiko. Si sorride; si rimandano al mittente l'amarezza e le lacrime; e, nel mentre, si finisce anche per sminuire il dramma di un ragazzo finito in un brutto giro. Per fortuna, dicevo, c'è Bob che rivoluziona ogni cosa. Compresa una vita, e una biografia, nata sotto una cattiva stella. Mi ha infastidito all'inizio la furbizia del narratore e mi hanno rabbonito, in seguito, le fusa del suo amico dal pelo fulvo. 
L'inguaribile gattaro ringrazia, il lettore dice “ma”.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Charlie Fink, Luke Treadway – Satellite Moments (Light Up The Sky)


domenica 6 novembre 2016

Recensione: Fangirl, di Rainbow Rowell

Io ho paura di tutto. E sono matta. Tu penserai che lo sia solo un po', invece lascio soltanto intravedere la punta del folle iceberg che sono. Sotto questa maschera da asociale, sono un disastro totale.

Titolo: Fangirl
Autrice: Rainbow Rowell
Editore: Piemme
Numero di pagine: 513
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Approdata all'università, dove la sua gemella Wren vuole solo divertirsi tra party, alcool e ragazzi, la timidissima Cath si trova sola per la prima volta e si rinchiude nella sua stanza a scrivere la fanfiction di cui migliaia di fan attendono il seguito. Ma una compagna di stanza scontrosa con il suo ragazzo carino che le sta sempre intorno, una professoressa di scrittura creativa che pensa che le fanfiction siano solo un plagio, e un affascinante aspirante scrittore che vuole lavorare con lei, obbligheranno Cath ad affrontare la sua nuova vita...



                          La recensione
Che gran cosa, le parole. La mia pigrizia, a lungo, mi ha fatto credere fosse altro. Fangirl qui e Fangirl lì, leggevo, e immaginavo da me la storia di un'ammiratrice che incontra il suo idolo e se ne innamora pazzamente, o qualcosa di simile. Una trama già letta, protagonisti già incrociati. Non che il senso di dèjà vu, in caso, avrebbe potuto separarci. Aspettavo di rileggere Rainbow Rowell da tre anni: conosciuta ancora matricola, con Per una volta nella vita, e da allora attesissima. 
La storia d'amore alternativa tra Eleanor e Park – lei in sovrappeso, lui con gli occhi a mandorla: loro, così fuori posto da credersi felici in totale solitudine – è un sorriso che non è voluto andare via. Young adult tenero e fuori moda, mi aveva fatto un po' dubitare, però, a proposito dei suoi miracolosi effetti benefici: una valutazione alta, data di cuore e di pancia, di cui mi sarei magari pentito in seguito. Succede, con i romanzi leggerissimi che incastri in mezzo agli impegni in un momento di debolezza. Vanno scelti con cura, quelli lì: sono l'ultima cosa su cui poserai lo sguardo, nelle sere invernali su cui cala subito il buio e in cui ti viene voglia di andare a dormire presto. Dopo il colpo di fulmine con due timidi ed esasperanti liceali di provincia che si scambiavano la parola e gli mp3 solo perché vicini di posto in autobus, la Rowell qui si supera in quanto a carineria e freschezza, e sembrava impossibile. Avete presente gli appassionati che riempiono la loro stanza di poster, gadget, T-Shirt a tema e, a cadenza fissa, si danno a riletture o revisioni? Bene: mai stato uno di quelli, io. Ci sono cose che mi piacciono e cose che non mi piacciono: ascolto canzoni ma raramente interi album; guardo film e serie tivù non concedendomi spossanti maratone; leggo romanzi senza pregiudizi. Cath ha superato quella fase: lei, fangirl con la lettera maiuscola, è un caso patologico. Prima la sua casa, poi la sua cameretta al college, si sono trasformate in un colorato reliquiario in onore di Simon Snow. Protagonista di una saga fantasy in sette romanzi, Simon è studente provetto in una scuola di maghi e streghe, minacciata a capitoli alterni da un famigerato nemico che solo lui può sconfiggere. Vi ricorda qualcosa? La sua nemesi fra i banchi, Baz, ha capelli biondi, una pessima reputazione e un segreto dai denti aguzzi. E lui, invece, ve la fa accendere, la lampadina? Rivali inconciliabili, stando a Cath, mascherano la loro attrazione con un falso risentimento. In Carry on, cliccatissima fanfiction che ha superato gli angusti confini del Nebraska, i due ragazzi si amano e lottano fianco a fianco. 
La protagonista si è imposta un obiettivo: deve finire la sua fanfiction prima che l'autrice di L'erede dell'arcimago dia alle stampe l'ottavo e ultimo capito della saga. Cath deve mettere nero su bianco la sua versione della storia. A metterle a soqquadro priorità, ideali e sogni, la dura vita da fuori sede e il pensiero di ciò che sta cambiando intorno a lei. Cath si è lasciata alle spalle un accogliente nido domestico, in un popoloso quartiere messicano; un padre fragilissimo, a cui ha spezzato il cuore un moglie uccel di bosco; una sorella gemella che vuole vivere la sua gioventù tirandosi fuori dalle loro affinità elettive. Le persone e gli amori: meglio nei romanzi fantastici. I migliori amici e le anime gemelle: invenzioni, tanto quanto i draghi, le Hogwarts riviste e corrette, i prodigi. A farle cambiare idea, la sardonica coinquilina Reagan; una prof di scrittura creativa, convinta che le fanfiction siano un plagio bello e buono; due ragazzi che si contendono i suoi oziosi pomeriggi. Da una parte il talentuoso Nick, con cui le tocca scrivere una storia a quattro mani; dall'altra il campagnolo Levi, con un principio di calvizie e un'ingiustificata bontà di d'animo, che infesta a tradimento la sua stanza e le porta in pegno i caffè più dolci di Starbucks. 
Ci sono i libri belli, quelli brutti e, ancora, quelli adorabili. Rarissimi se, come me, si è per natura poco inclini all'entusiasmo o alle confidenze. Fangirl, con un'universitaria che preferisce la finzione alla realtà, la lettura alla vita sociale, la teoria alla prassi, è decisamente uno di quelli. Picchietti sulla spalla di chi ti è vicino, così, per riportargli la battuta che ti ha fatto tanto sorridere tra le pagine. Scrivi in chat a chi l'ha letto prima di te, per ribadirgli le situazioni spassose, i figuranti dolcissimi, il misterioso senso di appartenenza che, in fondo, già ha conosciuto. Agli altri, dici semplicemente che Fangirl è una lettura da cui ti dispiace da morire staccarti. Dove niente è luogo comune, gli epiloghi sono poco netti, il primo bacio lo si dà dopo quattrocento pagine. Cath, infatti, rimanda a domani la vita, con la scusa che sia peggio che nei suoi libri preferiti; cela la timidezza cronica con la spocchia; si assume responsabilità che esulano dal mestiere di figlia e sorella. Le tocca mettere da parte le fantasticherie, tuttavia, se vuole diventare scrittrice. Ha bisogno di mettersi in gioco, per diventare una persona vera e smettere di essere, così, un burattino di legno; una fangirl tagliata fuori dal mondo. Simon Snow è un altro Harry Potter, cotto del Malfoy di turno. Cath è un'altra me, un'altra voi, con le ore piccole fatte per il bene dei suoi lettori, una famiglia spezzettata un po' qui e un po' lì, l'idea di amore romantico che coincide con il leggere a voce alta per qualcun altro. L'autrice che di nome fa arcobaleno spunta in libreria dopo la pioggia e non sloggia dalla sua paffuta nuvola rosa; non paga di averti riacceso il sole sulla testa.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran – I'm a mess

mercoledì 2 novembre 2016

Mr. Ciak: Sing Street, Inferno, Nerve, Pericle il Nero, Microbo e Gasolina

Conor ha quindici anni, una famiglia che va allo scatafascio, una città che gli sta strettissima. Mamma e papà mettono in vendita la casa, vogliono vivere altrove ma separati, e a lui tocca trasferirsi alla scuola cattolica, in cui gli studenti indossano divise monocolore e scarpe che non può permettersi. Vessato dai bulli per la sua gentilezza e preso di mira dal direttore, che proprio non apprezza i suoi occhi screziati à la David Bowie, il ragazzino trova slancio nelle attenzioni di una ragazza che si sogna modella. Vuole comparire nell'ultimo videoclip della sua band, sì o no? Peccato che, di band, nelle giornate del timido Conor, non ce ne siano. Metterne su una per amore, così, e chiamarla Sing Street. Dopo la felice parentesi americana con Begin Again, John Carney torna a casa. Nella stessa Dublino dello splendido Once, ma con toni che omaggiano la commedia adolescenziale, l'ultimo film del regista irlandese è un leggerissimo, bellissimo romanzo di formazione, sullo sfondo di un Paese tagliato fuori dal mondo. Nelle aule campeggiano enormi crocifissi; a vent'anni si è già disillusi; il futuro passa solo dal tubo catodico. Londra, distante una striscia di mare appena, appare un miraggio. Qui, se ne parla come dell'America. Top of the Pops e i vinili di un fratello sfattone distribuiranno a piene mani pillole (della felicità) di Depeche Mode, Cure e Spandau Ballet: tra gli effetti collaterali, un look da camaleonte; tra i pro, sonorità che omaggiano di tutto un po', mentre si indagano sentieri non battuti. I protagonisti, liceali con il pop in circolo, cercano una scorciatoia e una voce. Troveranno anche loro stessi, magari, nella prossima canzone? Sing Street, in soldoni, parla di conquistare la bella di turno, diventare una celebrità, non rimanere inchiodati lì. In quella Irlanda che da lontano mi incanta, ma che dev'essere stata una prigione con lo steccato bianco e un amen per salvarci l'anima. Una trama elementare è però l'occasione per darsi a un altro irresistibile concerto all'aria aperta. Il Carney retrò immalinconisce, diverte e, da me attesissimo, non perde un colpo. E se il suo Sing Street non ha stonature, il merito va alle guance rosse di Ferdia Walsh-Peelo: un nome impronunciabile, le dritte fraterne di un prezioso Jack Reynor e, vero animale da palcoscenico, la capacità di trasformarsi da anatroccolo implume a idolo, quando con il microfono in pugno. Se mancano i peli sul petto, i costumisti e le groupie, si compensa con una testa che si inventa, lassù tra le nuvole, struggenti melodrammi e scenografie rubate a Ritorno al futuro. Se crescendo ci si è scordati di com'erano teneri ed esilaranti i quindici anni, infatti, ci si rinfresca la memoria fischiettando la colonna sonora più bella del mondo. Canta dell'andare fiero del tuo paio di scarpe marroni, se il mondo ti impone il nero, e di prende il largo in compagnia della tua sola buona volontà. Di quello, e di balli di fine anno, sole e sirene, anche in questo novembre che ti vorrebbe cupo, fotosensibile e boccheggiante. (8)

Dopo il successo di Il codice Da Vinci e Angeli e demoni, anche il terzo romanzo con protagonista il professor Langdon – a volere essere pignoli, il quarto: Il simbolo perduto, infatti, resta ancora orfano di trasposizione – arriva al cinema. E io, che prima che questo blog esistesse avevo trovato i precedenti una compagnia piacevole, sono arrivato all'appuntamento impreparato: ho Inferno in libreria da anni, ma non l'ho letto. Accanto avevo papà, per una volta, a sottolineare analogie e differenze; a dire che il libro era già così così di per sé, eppure di gran lunga superiore all'adattamento. A dieci anni dall'inizio della saga, ritornano prontamente regista, protagonista, compositore; l'arte italiana in filigrana e, a scatenare l'azione, cospirazioni che minacciano di nuovo di sconvolgere il mondo. Langdon si risveglia a Firenze senza memoria: al suo fianco, una dottoressa che non si tira indietro davanti all'avventura; nel taschino, un indizio che rimanda al capolavoro dantesco. Tra la Toscana e Venezia, con una virata finale in direzione Instanbul, Inferno è un thriller legato all'idea che la sovrappopolazione ci annienterà in tempi brevi. Si corre da una parte e dall'altra, il tempo stringe, il ritmo è dei più serrati; purtroppo, però, il tutto porta a un nulla di fatto. Indebolito dalla regia da dozzinale fiction Mediaset, da un pessimo Hanks – con lui, una Jones per cui però si hanno sempre occhi dolci – e da un epilogo, giura mio padre, stravolto in peggio. E quanto suonano ridicoli i dialoghi, in cui parte della colpa è anche del nostro doppiaggio? E quanto sono abbozzati i figuranti tutt'intorno, con tanto di immancabili cameo italiani? Si avevano basse aspettative per partito preso, e Inferno, televisivo e senza nerbo, nonostante le tinte orrorifiche dell'incipit, non è purtroppo neanche all'altezza di quelle. L'indagine di un James Bond in antropausa, imbolsito e visibilmente annoiato, che forse non sarà l'inferno del cinema, ma il purgatorio di Ron Howard. (5)

Vee viene convinta dai migliori amici ad osare. Sulla scia di una brutta delusione, così, si affida a Nerve: app futuristica che spinge chi si iscrive a compiere gesti avventati. Una variante di “obbligo e verità” in cui è contemplato solo il primo punto; in cambio, somme di denaro, versate da followers voyeur, e la fama mediatica. A lungo andare, la posta in gioco si alza: la sfida, da innocente, si fa mortale. E, presto, ci si trova con le spalle al muro. Tratto da un romanzo di prossima uscita per Newton Compton, Nerve parte come commedia adolescenziale, si evolve come thriller adrenalinico e, infine, arriva a un epilogo – la parte più insoddisfacente, con gli innamorati l'uno contro l'altra, come in Hunger Games – a tinte distopiche. Ibrido pop, coloratissimo, con le sue luci al neon, la musica instancabile, il montaggio dinamico, è un esperimento giovanile in cui, qui e lì, si scorge il potenziale: le nuove generazioni prigioniere dei social, ossessionate dai like e dalle dirette Facebook, che perdono il contatto con la realtà, il concetto di giusto e sbagliato, e di conseguenza si perdono, inseguendo l'ennesima folle richiesta. Di notorietà si muore, ma qui il pericolo non viene mai percepito come reale, e mancano la giusta dose di crudezza e coraggio. Ci si limita a farsi un po' male, ma mai nulla di grave, e il coraggio degli sconsiderati protagonisti – l'adorabile Emma Roberts e un Dave Franco sprovvisto del physique du role – non lo si ritrova, purtroppo, nelle intenzioni degli autori. Il lieto fine scende come manna dal cielo, miracoloso e affrettato, e fa sbuffare: gli Hunger Games finiscono, dal Labirinto si scappa via, c'è pace per i Divergent, ma dalle maglie della rete – lo dimostrano il cyberbullismo, tutte le Tiziana Cantone che non ce la fanno a ricominciare, i leoni da tastiera - non puoi districarti. (6)

Pericle, di mestiere, "fa il culo alla gente". Una notte, però, uccide la donna sbagliata. E, tra clan che si alleano, tradimenti e rivelazioni sulle sue origini, non resta che la fuga a Calais. Pericle il Nero, simbolo del tricolore allo scorso festival di Cannes, è la trasposizione di un controverso romanzo degli anni '90. Il progetto, fermo per un po', è passato dalle mani di Abel Ferrara a quelle di Stefano Mordini. Nel mentre, però, Sky ha sdoganato i meccanismi della camorra e Lo chiamavano Jeeg Robot ha aperto la strada ai bei film di questa annata. Questione di tempismo sbagliato, per Pericle il Nero, che tuttavia resta un onesto e curato noir d'esportazione. Producono i Dardenne e, dall'estremo sud della versione cartacea, il film si trasferisce al di là delle alpi: si gira al buio, e in una Europa grigia e tentacolare. Pericle si spaccia per chi non è, s'innamora di una panettiera madre di due bambini, fantastica di fare l'uomo di casa. Manesco e fesso, fondamentalmente inoffensivo; tonto, perfino, a causa delle droghe sintetiche, delle botte, di un'infanzia strana. Il passato, però, non vuole saperne di dargli un'altra chance. La sporcizia di Pericle il Nero è superficiale. Nonostante il suo cruento modus operandi, infatti, l'anti-eroe di Mordini ragione a voce alta e, finché può, evita i problemi alzando i tacchi. Dopo una buona prima parte, i difetti arrivano nella seconda: senza connotati, senza spazio, velocissima, con un protagonista che si muove, prende e va, e si capisce solo successivamente dove o perché. Pericle il Nero è un esperimento interessante, soprattutto grazie alla prova di uno Scamarcio contraddittorio e fragile, sempre più adulto; ma lontano dalle provocazioni, purtroppo, e altrettanto dalla memorabilità. Rapido e alquanto indolore, non fa il culo – parafrasandolo - alle sorprese al cinema di quest'anno: ben fatto, ma costruito alla bell'e meglio. Qualcuno, comunque, si potrebbe accontare: un marcio Riccardo, Nina Simone in cuffia e le luci sulla Manica, in fondo, non sono cosa che si vede spesso. (6,5)

Daniel e Théo si conoscono il primo giorno di scuola: si trovano. Il primo, per la pubertà che non vuole saperne di arrivare, è detto Microbo. L'altro, il chiodo e l'olio per motori sotto le unghie, ha il soprannome di Gasolina. Con le vacanze estive di mezzo, ha inizio un'avventura che somiglia a una fuga da una normalità che appiattisce: con legno, olio di gomito e il motore di un tosaerba super, costruiscono un'auto che dovrà portarli in giro per la Francia. Lungo il tragitto, ospiti bizzarri, guai e svincoli. Che promettono di legarli, lì dove i legami di sangue mancano in natura, o di dividerli per sempre. Quanto durerà il viaggio? E, soprattutto, come li troverà il ritorno? Stravolti, risanati, maturi? Microbo e Gasolina, ultimo film di quel Gondry che spesso faccio fatica a riconoscere – dopo l'intramontabile Eternal Sushine of the Spotless Mind, infatti, non posso dire di essere andato d'accordo con i successivi lavori, discontinui e surreali – ma che qui, senza fuochi artificiali o fronzoli di sorta, ma a corto di fantasia giammai, è più se stesso del solito. Sbugiardato e tenerissimo, in borghese e con il cuore in mano, ci intrattiene con il sorriso in un'ora e mezza piena di ricordi, adolescenti che pensano e parlano troppo, toni fiabeschi. Sembrerebbero di altre epoche, Microbo e Gasolina, e sembrerebbe di qualche generazione fa anche il loro romanzo di formazione su ruote: qui e lì, ci ricordano che non sono gli anni '80 dei Duffer Brothers, quelli, la tecnologia che sotterrano letteralmente in un fosso e le imperfezioni delle famiglie contemporanee. Il regista non l'ho rintracciato né nei manierismi né nei garbugli delle trame, e per me non è un difetto, e ho voluto ai protagonisti, bravissimi, un bene dell'anima. Qualche riserva giusto sul finale, che è amarognolo e troppo brusco. Di quelli che ti fanno dire: ma è finito già? E poi: cosa succede poi? (7)